di Matteo Manzella
INTRODUZIONE
Gli studi biblici, specialmente del Nuovo Testamento,
non sono oggetto esclusivo della competenza dei credenti in Cristo. Talché si
dà il caso che tra i filologi e gli storici ve ne siano in buon numero sia di
credenti che di non credenti; e tutti hanno qualcosa da “dimostrare”,
arricchendo la conoscenza. Il testo di questo libro, che ho composto in un arco
di tempo piuttosto lungo, si propone di evidenziare che l'interpretazione delle
dottrine Cristiane formulate dalla maggior parte degli autori, non trova un
valido riscontro nei testi biblici, anche se ci mettiamo (per nostra scelta)
dalla parte di chi considera i testi come se fossero "parola di Dio".
In tal senso, di primo acchito, ci sembra che la nostra concezione sia più
vicina a Lutero. Ma ben presto ci accorgiamo che, di fatto, il grande
riformatore sostituì all’infallibilità del Papa, l’infallibilità della Bibbia, il
libro più incerto tra tutti i libri dell'antichità. Infatti, i manoscritti
biblici, copie delle copie delle copie… degli originali andati persi,
contengono oltre 30.000 (trentamila !) “lacune”: varianti, aggiunte, modifiche e omissioni. Dovremmo fare un
monumento ai filologi che sono riusciti bene a ricostruire un testo molto
vicino agli originali. Tuttavia, “molto vicino” è una espressione che
obiettivamente ci lascia in dubbio: come facciamo a sapere con certezza cosa
contenevano gli originali dal momento che non esistono più? È probabile, anzi
molto probabile, che alcuni testi, che i filologi hanno accettato a malapena
come autentici, non ci fossero nei manoscritti originali; e se è così,
sicuramente tra essi possiamo includere tutti quei pochi testi o termini che i
trinitari riescono a racimolare per poter affermare che nel N.T. c’è l’idea trinitaria in modo implicito; e
quindi Gesù Cristo sarebbe Dio. Di fatto, i pochissimi testi erroneamente
definiti “trinitari” sarebbero in contraddizione con tutto il Nuovo Testamento.
Negli antichi manoscritti, di varianti, aggiunte ed omissioni, ce ne sono
parecchie fatte non per sbaglio, ma di proposito, allo scopo di salvaguardare
una credenza di ordine teologico ormai affermata. Alcune iniziative di questo
genere, lesive della “parola sacra”, si definiscono appunto “Modifiche
dovute a considerazioni dottrinali”. Il maggiore studioso di critica
testuale, il filologo Bruce M. Metzger, già professore al Theological Seminary
di Princeton, che è stato uno dei maggiori collaboratori dell’edizione del
testo greco del Nuovo Testamento, presenta alcuni esempi che illustrano il modo
in cui o per cui avvenivano le modifiche. Riferisce, tra l’altro, l’episodio
che riguarda la domanda che gli apostoli fanno a Gesù circa la data del suo
ritorno. Dice testualmente: «La dichiarazione di Gesù, “Ma
quanto a quel giorno e a quell’ora nessuno lo sa, neppure gli angeli del cielo,
né il Figlio, ma il Padre soltanto”
(Mt. 24,36 e Mc. 13,32), era inaccettabile per i copisti, i quali non
riuscivano a conciliare l’ignoranza di Gesù con la sua divinità, e salvarono la
situazione semplicemente omettendo la frase οὐδὲ ὁ υἱόϛ [né il Figlio]» (Bruce M. Metzger, Il testo del Nuovo
Testamento, Paideia, Brescia 1996).
Questa
terza edizione del Tu sei Pietro, argomento allargato alla teologia del Nuovo
Testamento, è pressoché identica alla precedente, che risale ad alcuni anni fa.
Mi sono limitato a chiarire brevemente alcuni punti e aggiungere pochissimi
nuovi elementi. Per il resto si è trattato di limature del testo e di trascrivere
per esteso le citazioni dei testi biblici che erano indicati in forma
abbreviata. L’Introduzione che segue
non è stata modificata rispetto alla precedente edizione.
Roma
12 luglio 2017.
m. m.
☼☼☼
Molti
libri sono stati scritti per commentare il brano dell’Evangelo secondo Matteo, cap. 16,13-23, che è
indicato con l’espressione “la
confessione di fede di Pietro” con
riferimento al versetto 16 e ss. Diamo anche noi un contributo, forse modesto,
ma che si vuole collocare nell’ambito dell’iniziativa indipendente dalle chiese
cristiane e dagli istituti culturali e teologici.
Nel
nostro precedente lavoro di teologia biblica intitolato L’Ultimo Adamo1, la
“confessione di fede” di Simone, detto Pietro, è un tema appena
sfiorato perché ci proponevamo di farne un libro a parte. Un argomento
così importante merita uno spazio tutto per sé. Faremo, ovviamente, costante
riferimento al precedente libro, non soltanto per il brano del capitolo 16 di Matteo, ma anche e soprattutto per i
concetti e i testi biblici che vi sono connessi; cosicché il tema di questo
libro è allargato a gran parte della teologia del Nuovo Testamento.
Da
questo testo [che da ora in poi indicheremo semplicemente con Mt. 16] la
Chiesa Cattolica [romana] ha creduto e crede di poter dedurre almeno quattro
concetti a sostegno della sua autorità in materia di fede, di dottrina e di
normativa religiosa, che qui sintetizziamo come segue: 1) il Papato sarebbe stato istituito da Gesù Cristo; 2) l‘apostolo Pietro sarebbe stato il
primo Papa; 3) la funzione di “Papa”,
con tutto ciò ch’essa comporta, si trasmetterebbe da papa a papa tramite una
successione ininterrotta; 4) questa
funzione implicherebbe che il Papa è infallibile quando decreta in materia
di fede e di dottrina.2
Ovviamente
tutto ciò costituisce, da sempre, una poderosa barriera tra la Chiesa Cattolica
romana e le altre chiese (o confessioni) cristiane. Inoltre, l’importanza del
testo di Mt. 16 è andata crescendo pressappoco da cinquant’anni a questa parte, cioè
da quando è iniziato l’interesse dei cattolici romani per il movimento
ecumenico che già da molto tempo era sorto in seno alle confessioni cristiane
non cattoliche.
L’interpretazione
romana di Mt. 16 costituisce sicuramente un grosso “inciampo” per l’ecumenismo, se
quest’ultimo si propone effettivamente l’unità delle chiese in una sola chiesa.
Con queste premesse l’unità delle chiese potrebbe costituire un “ritorno” di tutte le confessioni cristiane, o almeno di gran parte di esse,
nella Chiesa Cattolica romana, in quanto quest’ultima non vuole, o non può,
rinunciare alla sua interpretazione tradizionale della “confessione di Pietro”, perché facendolo, annullerebbe se stessa
nella più profonda essenza.3 Essa
perciò vede l’auspicata unione delle chiese cristiane piuttosto come un ritorno
dei “fratelli separati” nella Chiesa Cattolica romana. Questo
appariva già chiaro tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60,
allorché Giovanni XXIII nell’ enciclica Ad Petri Cathedram, citando un pensiero di Leone XIII, così si
esprimeva: «[La religione cattolica] essendo la sola vera fra tutte [le
religioni], non può senza somma offesa venir messa sullo stesso piano delle
altre»;4
e più avanti dice: «[La preghiera di
Gesù di cui in Giovanni 17,21] infonde in Noi e conferma la dolce
speranza che finalmente tutte quelle pecorelle che non sono di questo ovile
sentano il desiderio di farvi ritorno...».5
E ancora più avanti scrive: «[Il
Papa] deve essere ritenuto legittimo successore di quel Pietro, che Nostro
Signore Gesù Cristo ha posto come pietra e fondamento della sua chiesa (cfr.
Mt. 16,18) al quale singolarmente diede la potestà di sciogliere e di legare in
terra (cfr. ibid. 16,19), di confermare i suoi fratelli (cfr. Lc. 22,32) e di
pascere l’intero gregge (cfr. Gv. 21,15-17)».6 Infine, limitandoci all’essenziale, ricordiamo che un po’ più avanti, nella stessa enciclica, Giovanni
XXIII fa uso di una metafora molto “forte”. Infatti, dopo aver affermato
implicitamente ed esplicitamente di essere il successore di
Pietro,
si pone anche nelle vesti di Giuseppe (il figlio di Giacobbe che fu venduto
schiavo dai suoi stessi fratelli); si rivolge ai cristiani che non sono nella
chiesa cattolica romana, con le seguenti parole prese dall’Antico Testamento: «”Io sono Giuseppe, vostro fratello” (Genesi
45,4)»;7 omette però il seguito: “...che voi vendeste...”. E ai fini dell’ecumenismo
questo ci sembra troppo. Poiché il Papa si paragona a Giuseppe, si potrebbe
dedurre che i protestanti e gli altri cristiani delle varie confessioni, sulla
base della metafora scelta dal Papa stesso, sarebbero paragonabili agli indegni
fratelli di Giuseppe. Per fortuna nel testo citato da Giovanni XXIII mancano le
parole finali. Questo fatto mette in luce storicamente due atteggiamenti
opposti: da un lato quello della Chiesa Cattolica romana, chiaro ma
intransigente e sostanzialmente duro (nonostante la forma morbida); e
dall’altro quello delle altre chiese, che evidenzia la loro tolleranza e la
loro apertura verso l’unità, nonostante il tentativo della Chiesa romana (di
fatto, non certo nelle intenzioni) di “scippare” il Movimento Ecumenico alle chiese stesse
che l’hanno fondato. Con l’omissione di quelle parole finali del testo biblico
(Genesi 45,4), appare molto evidente che il Papa aveva la consapevolezza che
quella metafora poteva risultare troppo offensiva per i “fratelli separati”. Non c’era un altro modo per dire ciò che ha detto? Riteneva, forse,
che nel passato l’istituto papale
fosse stato offeso (nella metafora: “venduto”) dai cristiani non cattolici? [Quando?
Nel ‘500?] La parte non
espressa della metafora ci fa pensare di sì, proprio perché non espressa;
altrimenti perché la scelta inattesa (e incompleta!) di quel testo biblico?
Com’è
noto, la Chiesa Cattolica romana si fa forte della sua interpretazione del
testo di Mt. 16, che è ora oggetto del nostro studio: anche nell’enciclica Aeterna
Dei (citando le parole di S. Leone)
Giovanni XXIII ribadisce che «la figura di Pietro sta al di sopra di tutti
coloro che governano la Chiesa»,8 e l’allusione è a Mt. 16
in polemica con il Protestantesimo e con le altre chiese cristiane. Questa
interpretazione confessionale ha ovviamente l’avallo del Papa stesso, il quale
sarebbe infallibile in materia di fede e di dottrina; ma chi garantisce questa
infallibilità? chi ci dice che il Papa è infallibile? Il Papa stesso! In base
all’interpretazione “infallibile” del testo di Mt. 16. Perciò è come se il Papa si autoproclamasse infallibile. Per
prevenire ogni obiezione è inutile che i teologi romani, e gli storici di parte
cattolica, ricorrano all’espediente di considerare il brano (almeno in un primo
momento) soltanto e semplicemente come un “documento” storico, cioè come
una fonte sicura e neutrale, per affermare che «storicamente» Gesù avrebbe
affidato a Pietro le chiavi della Chiesa; interpretando poi quest’ultima
affermazione nel senso che Gesù avrebbe inteso conferire all’apostolo Simone
l’incarico di condurre la Chiesa nella veste di suo vicario infallibile, di
vicario di Cristo. Non sarà forse un “documento” troppo somigliante a quello
della falsa donazione di Costantino? Lo storico ha il dovere di stabilire
almeno due cose: a) se il testo è
autentico; b) quale sia l’esatto
significato letterale di ciò che il testo afferma al di là della sua
autenticità o meno.
Ora
la maggior parte degli storici indipendenti afferma che il brano in questione
non è autentico; mentre quelli dell’altra restante parte dichiarano, quasi
tutti, che vi sono molti dubbi. Per quanto riguarda il significato letterale la
maggioranza esclude quello inteso dal Papa e dai teologi cattolici. Ma i due
punti sopraddetti si potrebbero ridurre al primo, perché l’autenticità di un
testo è stabilita, per lo più e soprattutto, sulla base di ciò che il testo
stesso afferma. Pertanto, riguardo alla
“storicità” le cose stanno pressappoco nei termini sopraddetti; chi pensa di
poter affermare il “primato di
Pietro” su una base storica di Mt. 16, fa
un’affermazione priva di valore perché l’autenticità del testo è per lo meno
molto incerta; e, comunque, non ci sembra che l’infallibilità possa dedursi da questo testo, né da altri.
Se qui si potesse dedurre l’infallibilità del Papa in modo chiaro ed evidente,
o almeno che Cristo ha nominato Pietro suo vicario e capo visibile della
chiesa, allora dovremmo concludere senza mezzi termini che il testo non è
autentico, perché sarebbe in contrasto con tutto il Nuovo Testamento.
In
ogni caso, risulta che, a torto o a ragione, questo testo ha dato nel corso dei
secoli (sin da quando il vescovo di Roma divenne Papa, o poco dopo) un forte
appoggio all’autorità della chiesa di Roma; mentre oggi, nei confronti
dell’ecumenismo, costituisce il suo punto di debolezza, una palla al piede che
è diventata sempre più pesante per la confermata interpretazione di parte “cattolica”, talché ora si può dire, senza tema di
esagerare, che l’iniziativa protestante del Movimento Ecumenico e quella dell’ecumenismo della Chiesa Cattolica
romana, in favore dell’unità delle chiese, fin qui, sono giunte al completo
fallimento, come noi avevamo previsto9 già
nel 1962, perché la Chiesa romana è prigioniera di se stessa. Questo nostro
punto di vista è confermato anche dalle iniziative, dirette e indirette, di
Giovanni Paolo II e dell’attuale Capo della chiesa romana, Papa Benedetto XVI,
riguardo all’ecumenismo; iniziative che sono sotto gli occhi di tutti, che di
fatto tendono a rafforzare l’autorità della chiesa romana, e non l’ecumenismo,
salvo che non si voglia intendere quest’ultimo come un “ritorno”, appunto, delle chiese non-cattoliche nella
Chiesa Cattolica romana. Infatti, la chiesa di Roma ha creato, sin dall’inizio,
un clima (in modo encomiabile in sé, oltre che legittimo) inteso a coinvolgere
le altre chiese per attirarle nel proprio seno, e non per marciare con esse
verso l’unità della Chiesa Universale di Cristo; questo accade conformemente
alla dichiarazione romana di essere la sola vera religione e la sola vera
Chiesa.
In
questa situazione, ancora (e ora maggiormente) problematica, solo una
improbabile, ma possibile, rivoluzione copernicana nella teologia cattolica romana
potrebbe rompere la barriera che si frappone all’unità dei cristiani.
Spetterebbe, perciò, alla Chiesa Cattolica romana compiere il passo decisivo.
Dovrebbe almeno rinunciare alla doppia pretesa (legittima o illegittima che
sia, giusta o sbagliata) di autodefinirsi la sola vera religione e di
attribuire al Papa la funzione di Vicario di Cristo e quindi l’infallibilità in
materia di fede e di dottrina. Se il Papa fosse legittimamente il capo della
Chiesa (di tutta la Chiesa) nella veste di Vicario di Cristo, alle varie
confessioni non resterebbe che “rientrare” nella Chiesa Cattolica romana. Non
sappiamo però se l’eventuale rinuncia della chiesa di Roma al suo preteso
primato, per favorire l’unità delle chiese, potrebbe essere un bene o un male;
perché non sappiamo se l’unità delle chiese in una sola chiesa potrebbe essere
veramente un bene. Sarebbe l’unità per Cristo e nell’ovile di Cristo, o non
piuttosto qualcos’altro?
L’unità
(ammesso che sia veramente un’esigenza necessaria del Cristianesimo) comporterebbe certamente
la fine della pluralità delle chiese, per cui ci chiediamo: quest’unità,
riducendosi ad una sola voce, non creerebbe il rischio di trasferire il
fondamentalismo “cristiano” (americano ed europeo) nella “nuova” chiesa unita, e quindi il rischio per tutti di cadere sotto una
tirannide politico-religiosa? Certamente questo pericolo diventerebbe un fatto
reale se la “nuova chiesa” stringesse o subisse una stretta alleanza con il
potere economico-militare ipoteticamente imperante nel mondo, dimenticandosi
che il regno di Cristo non è di questo mondo (Giovanni 18,36).
Intorno
al 1730 Voltaire scriveva: «Se in
Inghilterra ci fosse una sola religione, si dovrebbe temere il dispotismo; se
ce ne fossero due, si taglierebbero la gola; ma ve n’è una trentina, e vivono
felici ed in pace».10 Anche non condividendo le previsioni di
Voltaire, forse pessimistiche, resta il fatto che la pluralità delle
confessioni, senza dubbio rende più vivo, più libero e più “democratico” il Cristianesimo, ed anche meno esposto alla seduzione delle cose
mondane. E su un fatto, almeno, Voltaire avrebbe ragione: che tutte le
confessioni potrebbero vivere felici ed in pace. Mentre ci sembra che se fosse
raggiunta la cosiddetta “unità” delle chiese, nulla di positivo aggiungerebbe
al Cristianesimo; di certo non lo renderebbe migliore.
Sicuramente
un rafforzamento dell’amicizia e della collaborazione già esistenti tra le
confessioni, in alcuni campi della loro attività, è auspicabile; ma l’unità (o
meglio la chimera dell’unità) a che cosa potrebbe servire al di là di un
auspicio ideale?
Del
resto, la fede cristiana è nata pluralista, se non addirittura divisa. Per
rendersene conto è sufficiente leggerne la storia, o semplicemente “scavare” tra le parole e le righe del Nuovo Testamento
per trovare implicitamente l’embrione delle diversità. Ma “diversità” non è
necessariamente “divisione”. Mentre la divisione appare in modo evidente se
leggiamo i numerosi “vangeli” e gli altri scritti detti “apocrifi”, che
circolavano all’inizio11, a
cominciare dalla fine del primo secolo, accanto a quelli che poi costituiranno
il canone del N. T. Gli scritti “apocrifi” non soltanto contengono “informazioni”,
idee e dottrine spesso assai diverse da quelle contenute nei testi canonici
(e fin qui entra in gioco il “pluralismo”), ma ancor più spesso presentano o presentavano il cristianesimo in
maniera da suscitare oggi sorrisi di compatimento o sentimenti d’avversione:
rivelano la divisione che c’era tra i cristiani. Quello, o anche quello, era il
cristianesimo. Per di più possiamo rilevare alcune importanti ed evidenti
“contaminazioni”, subite dai libri
canonici, da parte di elementi provenienti dall’ambiente culturale degli
apocrifi, che potrebbero indurre gli studiosi a rivedere alcune dottrine neotestamentarie,
ma noi non possiamo trattare l’argomento in questa sede perché è lungo e
complesso: sarebbe come scrivere un altro libro.
Quanto
abbiamo appena detto, evidenzia che poco dopo la morte degli Apostoli (se non
prima) il Cristianesimo era già maculato; e che la chiesa “cattolica”, che
allora cominciava a formarsi, non è riuscita a portare tutti i cristiani dalla
sua parte come avrebbe voluto (e quelli che è riuscita a portare, li ha portati
quasi sempre con l’aiuto della forza). Anzi, strada facendo si è persa molti
pezzi diversi, che furono detti
“eretici”; e allo stesso tempo si
affermò il principio del “delitto di eresia” (che il diritto romano ignorava
fino a quel momento), da punire severamente; si diceva: per salvaguardare la
fede cristiana e per salvare l’anima dell’eretico. Così, perfino in epoca
relativamente recente, tra la seconda metà del ‘500 e l’inizio del ‘600,
finirono sul rogo Michele Serveto a Ginevra per mano dei calvinisti, e Giordano
Bruno a Roma per mano dei cattolici, tanto per citare due tra i molti
cosiddetti eretici che subirono il martirio o la persecuzione.
Tuttavia,
considerazioni di questo genere non devono influenzare l’interpreta-zione del
brano evangelico che ci accingiamo a esaminare.
Cercheremo di capire il testo così com’è, riflettendo su di esso con
l’aiuto del Nuovo Testamento e con gli “strumenti” adatti allo scopo. Citeremo
pochissimi Autori, tra i molti che abbiamo letto, anche se meriterebbero di
essere citati tutti.
Lo
studio della Bibbia, in questo caso del Nuovo Testamento, non può essere
determinato da esigenze di opportunità, pro o contro l’unità delle chiese.
D’altra parte, non c’è nessun mulino che aspetta di ricevere l’acqua da noi.
Non abbiamo timore di apparire, eventualmente, come coloro che remano
controcorrente.
Il
brano di Mt. 16 deve essere interpretato (come del resto tutta la Scrittura) mettendo
da parte ogni anacronismo e ogni preconcetto; vale a dire mettendosi nei panni
dei primi lettori (cioè dei destinatari), per comprenderlo come essi lo avranno
compreso o come avrebbero potuto comprenderlo. Il che significa certamente
mettersi anche nei panni dell’Autore, chiunque esso sia: dell’apostolo Matteo se, in base ad un’antica tradizione (ormai
respinta dalla maggioranza degli studiosi), gli vogliamo attribuire l’evangelo
che porta il suo nome. Inoltre, i testi scritturali vanno compresi nel loro
significato che è ora letterale e ora metaforico: letterale quando il senso è
letterale, metaforico quando è metaforico; vogliamo dire, insomma, che si deve
evitare confusione tra una cosa e l’altra, anche se la metafora non può
prescindere dalla lettera. Questa è la nostra regola. Abbiamo voluto precisarla
esplicitamente, anche se può sembrare ovvia.
Nelle
precedenti pubblicazioni siamo partiti da posizioni ortodosse, proprie di chi
accetta la Sacra Scrittura come ispirata da Dio, per trovarci nello stesso
terreno della maggior parte dei nostri
interlocutori e dei nostri lettori; senza tuttavia spingerci fino ad accettare
la teoria fondamentalista della inerranza
della Bibbia (che abbiamo esplicitamente
ricusato) e quindi senza privilegiare l’interpreta-zione letterale che è la sua
logica conseguenza, ma ammettendo semplicemente che “santi uomini di Dio” hanno parlato [e scritto] perché sospinti
dallo spirito (cfr. 2 Pietro 1,21;
Apocalisse 1,11). Affermazione che ‒ anche in questa forma moderata ‒
appartiene al campo della fede e non pretende di basarsi su alcunché di
“storico”. Lo stesso presupposto vale per il presente libro, tranne per il
terzo capitolo, dove esamineremo
l’argomento dal punto di vista eterodosso, e faremo la critica del testo. Al
capitolo secondo, l’argomento è “La successione
apostolica nel Nuovo Testamento”, che può
considerarsi l’argomento centrale; al quarto capitolo esamineremo l’espressione
biblica “Figlio dell’Uomo”, che è il
punto di partenza del discorso di Gesù (Mt. 16,13) nel brano che ora ci
accingiamo a esaminare («Chi dice la
gente che sia il Figliuol dell’Uomo?»).
Cristo è l’Uomo per eccellenza, il
secondo Adamo, colui che ha raggiunto l’immortalità, per sé e per tutti. E
a questo punto ̶ poiché l’Introduzione spesso si scrive quando il libro è già
scritto ̶ aggiungiamo, sinteticamente, alcuni concetti
della conclusione alla quale, ovviamente, siamo giunti di già:
1. Quasi certamente, il brano di Mt. 16 non è autentico; è frutto di una manipolazione, di
un’interpolazione o di un’aggiunta, probabilmente per opera di un copista
sostenitore del cosiddetto primato di Pietro, come afferma la maggior parte
degli storici, degli esegeti e dei biblisti.
2. Se il brano è autentico (cosa probabile, ma non
molto), lo studio “ortodosso” (che parte dal presupposto dell’autenticità del
testo), ma privo di pregiudizi, non evidenzia alcun primato di Pietro. (Questo
è il tema del primo capitolo.)
3. Ci potremmo aspettare, a maggior ragione, un primato
attribuibile a Paolo di Tarso. Ma neppure questo è possibile.
4. La successione apostolica cessa (da qualsiasi punto
di vista teologico) con la morte degli Apostoli, o almeno con la morte dei
testimoni auricolari e oculari di Gesù con riferimento al suo insegnamento e
alla sua risurrezione. Agli Apostoli, e più precisamente ai testimoni oculari e
auricolari, non succedono (in senso
teologico o dottrinale) altri Apostoli; né i vescovi sono successori degli Apostoli. Agli Apostoli succede l’Assemblea dei credenti guidata dallo Spirito, che è Cristo (2 Corinti 3,18). Sotto questa guida la Chiesa si dà
un’organizzazione minima, suggerita dall’insegnamento di Gesù, il Capo, e unico
Mediatore.
A
proposito di quest’ultimo punto, Ernesto Renan, intorno al 1870, scriveva: «Questo [dell’elezione di Mattia] fu il
solo esempio di una surrogazione cosiffatta. Gli apostoli furono quindinnanzi
riguardati come eletti una volta per sempre da Gesù senza avere successori. Il
pericolo di un collegio permanente che tenesse per sé tutta la vita e la forza
dell’associazione fu rimosso, allora, con profondo istinto. La concentrazione
della Chiesa in una oligarchia non venne che molto più tardi» [cfr. nota 35].
Se
con questo studio del «Tu sei Pietro», allargato alla teologia del Nuovo
Testamento, abbiamo raggiunto il nostro intento, che è soprattutto quello di
evidenziarne il “vero” significato, o se
almeno abbiamo detto qualcosa di nuovo e di valido, lo diranno i nostri lettori
con la loro capacità di giudicare con spirito d’indipendenza e obiettività.
Roma, 12 ottobre 2008.
m. m.
☻
CAPITOLO PRIMO
ESEGESI “ORTODOSSA” DI MATTEO 16,13-23
[13] Poi Gesù, venuto nelle parti di
Cesarea di Filippo[a], domandò ai suoi discepoli: Chi dice la
gente che sia il Figliuol dell’uomo? [b]
[a]Il brano comincia con l’avverbio
“poi”, perciò si distingue dagli avvenimenti precedenti o si connette. Matteo ha molte espressioni temporali
che sembrano evidenziare l’intenzione (o la convinzione) dell’autore di esporre
un racconto “storico” scandito da una precisa cronologia dei fatti: «E, partitosi di là, venne...» (11,9); «In quel giorno Gesù,
uscito di casa...» (13,1); «In quel
tempo Erode, il tetrarca, udì...»
(14,1); «E partitosi di là, Gesù si ritirò nelle parti di Tiro e di Sidone...» (15,21), eccetera. Ma molto
probabilmente il primo vangelo è costituito sostanzialmente da una raccolta dei
detti o discorsi (logia) di Gesù, che
nella maggior parte dei casi difficilmente potrebbero avere un esatto riscontro
storico-cronologico; raccolta che un giudeo che parlava greco, originario della
Palestina, convertito alla fede cristiana, raccolse intorno all’anno 80.13
Qui, comunque sia, il testo dice che Gesù si recò nei pressi di Cesarea di
Filippo.
Cesarea è nome di numerose città
dell’antichità. Nel nostro caso si tratta di quella situata ai piedi del Monte
Hermon, in Palestina, nei pressi delle sorgenti del Giordano e abbellita,
appunto, dal tetrarca Erode Filippo. Marco
[8,27-33] nel suo breve racconto parallelo indica la stessa località, mentre Luca [9,18-22] non ne menziona il nome.
[b]Gesù domanda: Chi dice la gente che sia il Figliuol dell’uomo? «La gente». Il
testo greco dice: Τίνα λέγουσιν οἱ ἅνθρωποι ε̑ἰναι τὸν υἱὸν το̑υ ἀνθρώπου,
che potremmo tradurre: Chi fra gli uomini [fra la gente] dice [c’è
qualcuno che è in grado di dire?] che
cosa è [qual è la natura] del Figliuol dell’uomo? Gesù non vuol sapere se la gente attribuisce a lui stesso
l’appellativo di “Figliuol dell’uomo”, ma piuttosto come il Figliuol dell’uomo
è comunemente concepito, e quindi a chi potrebbe essere paragonato.14
Ai discepoli (come ai lettori di questo brano), che Gesù è il Figliuol dell’uomo
risulta quasi evidente dalla stessa domanda del Nazareno, nella quale l’idea è
pressoché implicita.
[14] Ed essi risposero: Gli uni dicono
Giovanni Battista; altri, Elia; altri, Geremia o uno de’ profeti[a].
Egli disse loro: E voi, chi dite ch’io sia? [b]
[a]La gente afferma che il significato
(noi diremmo la “natura”) dell’espressione “Figliuol dell’uomo” è quello di profeta, profeta di Dio: un Giovanni
Battista, un Elia, un Geremia; il “Figlio dell’uomo” è un grande profeta.
[b] Ma ora Gesù non vuol più sapere
quel è l‘idea che circola tra la gente, ma qual è quella dei discepoli, l’idea
ch’essi si son fatta. «Voi, chi dite ch’io sia?». Gesù, in
pratica, ha già detto di essere il Figliuol dell’uomo; ma che cosa significa
questo? Con quale altre parole si può spiegare? Una frase un po’ oscura (ma per
i discepoli questa di cui parliamo non lo è affatto), oppure una espressione
chiusa entro una roccaforte di metafore, si può spiegare o espugnare con un’altra frase (dal senso proprio o
metaforico, non importa) purché abbia per tutti significato chiaro ed
equivalente e purché questo sia noto e ammesso senza
contestazioni. E questa frase è la risposta che daranno i discepoli (Simone per
primo).
[15] Simon Pietro, rispondendo, disse:
Simone (o Simeone) era figlio di un
certo Giovanni (o Giona nel dialetto aramaico). Era fratello di Andrea,
discepolo del Battista, e forse era tale anche lui stesso. Gesù gli si
rivolgerà (in aramaico) con l’appellativo di “Kêfã’ [Rupe], che poi in greco fu
tradotto con Pétros.15 Qui Matteo,
anticipando i fatti, chiama “Pietro” colui che non ha ancora questo soprannome.
[16] Tu sei il Cristo [a], il
Figliuol dell’Iddio [Jhwh] vivente.[b]
[a] La risposta di Simone, detto Pietro, di
primo acchito sembra duplice; vale a dire, come se la natura del Figliuol
dell’uomo si potesse definire o esprimere con due appellativi complementari. Sappiamo invece che il
termine “Cristo” e l‘espressione “Figlio di Dio” sono equivalenti e
interscambiabili: ciascuno è sinonimo dell’altro, perché “Figli di Dio” erano
detti gli Eletti, gli Unti, i Messia, in greco i Cristi: vale a dire i Giudici, i Profeti, i Sacerdoti, i Re, i Capi di
Israele (sicché Dio era il Padre di Davide, e Davide era il Figlio di Dio)16.
[b]Nel testo, uiòs toû Theoû è il sinonimo e il rafforzativo di Khristòs. Perciò Figlio-uiòs non aggiunge nulla di nuovo a Messia-Khristòs.
[17] E Gesù, replicando, gli disse: Tu
sei beato, o Simone, figliuol di Giona[a], perché non la carne e il sangue
t’hanno rivelato questo[b], ma il Padre mio che è nei cieli. [c]
[a] Chi è beato? Letteralmente è beato (μακάριος) colui che è felice. Ma perché Simone è felice? Chi
o che cosa lo ha reso felice? È felice [b] perché non è la carne e il sangue, cioè la natura umana (Paolo direbbe: non è l’uomo psichico: 1 Corinti 15,44) che gli ha rivelato (che gli ha fatto comprendere)
che Gesù è il Cristo, [c] ma Dio, il Padre; il quale è il padre di Gesù, dal
momento che Gesù è υἱός (cioè l’erede17: Ebrei
1,2). Jhwh, Iddio, è l’Iddio di Gesù,
il Padre del Messia e dei suoi “fratelli”, cioè di tutti (Ebrei 1,9,11,12; Giovanni
20,17).18
Ma, più da vicino, perché colui al
quale Dio ha rivelato una verità è felice? Al di là del fatto, e per il fatto
scontato in sé, è sottinteso, in generale, che colui che riceve una
“rivelazione” divina, abbia preso coscienza dello spirito (del ruah-pneuma) che è dentro
l’uomo, dentro di sé; perché lo spirito di Dio è immanente, “parla” attraverso
la coscienza: dice Paolo ai Corinti: «Non sapete voi... che lo spirito di Dio abita in
voi?». Esso è in tutte le cose (1 Corinti
3,16; cfr. Salmo 139 e Luca 17,21). Ma lo è in modo particolare
in colui che ne è consapevole, che ne ha preso coscienza, e non lo ha “spento”
(1 Tessalonicesi 5,19). «Tutti quelli che sono condotti dallo
spirito di Dio, sono figliuoli di Dio [υἱοὶ θεοῦ]» (Romani 8,14). E sono figliuoli di Dio come lo è Cristo Gesù (in
questo caso υἱοὶ [come sinonimo
di erede] e non τεκνον, τεκνίον, νήπιος..., cioè fanciullo, bambino); il quale Gesù, in quanto Messia, è Unigenito (Giovanni 3,16) perché c’è un solo vero Messia; ma i credenti sono
anch’essi generati da Dio; «ἐκ θεοῦ
ἐγεννήθησαν», come Cristo (Giovanni 1,13; Ebrei 5,5); che perciò è chiamato anche Primogenito (Romani 8,29): il primo dei fratelli (il Primo dei Figli di Dio, degli eletti, cioè degli unti: 2 Corinti 1,21-22) e il «primogenito
dai morti», cioè il primo dei risorti (Colossesi
1,18). Dunque Cristo è Unigenito e Primogenito allo stesso tempo: il Primo e
l’Ultimo Adamo (1 Corinti 15,45; Apocalisse 1,17-18). Alla risurrezione,
nel giorno della parusia, i credenti
(i fratelli di Cristo: Ebrei 2,11)
avranno e saranno la stessa natura del fratello maggiore, cioè perfettamente «a immagine di Dio» (cfr.
il già citato Romani 8,29 e i testi
paralleli).19
[18] E io altresì ti dico: Tu sei
Pietro[a], e su questa pietra edificherò la mia Chiesa[b], e
le porte dell’Ades non la potranno vincere.[c]
[a]Cosa fa qui Gesù? Cambia il nome a
Simone? Gli dà un soprannome? Né l’uno né l’altro. Gli dice semplicemente (ma
non è poco): «Tu sei una rupe, una roccia, un grosso macigno, sei forte; perché
hai
espresso la tua fede, hai detto sinceramente ciò che lo spirito, la tua
coscienza illuminata, ti ha suggerito [1
Corinti 12,3]; hai parlato secondo verità; hai risposto in modo giusto alla
mia domanda; puoi essere felice della tua risposta, sei beato». Tuttavia Gesù
continuerà a chiamarlo quasi sempre Simone (Giovanni
21,15-18). Sono soprattutto gli apostoli e gli altri discepoli che da ora in
poi lo chiameranno “Pietro”, oppure “Simon Pietro”.
[b]Cristo annuncia ora l’intenzione di
edificare la sua «chiesa». Ma che
cosa vuol dire questa parola? Cosa indica questo termine? Per i cristiani che
si sono succeduti nel tempo, fino ad oggi, la parola chiesa proviene dal greco del Nuovo Testamento, ma la sua vera
origine è più lontana; il termine ekklēsia
[assemblea] indicava l’insieme dei convocati nella riunione popolare della pólis greca. Perciò il primo significato
non è religioso, ma politico. Ovviamente non è questo il senso che davano
Cristo e i suoi ascoltatori, e neppure il significato che prenderà da lì a
poco, che è quello che diamo noi oggi (o quasi). Se non si ammette che il testo
sia stato aggiunto al Vangelo secondo
Matteo in un’epoca nella quale il termine “chiesa” aveva già il significato
che si affermò successivamente, quello che risulta dal resto del Nuovo
Testamento, se cioè si ammette l’autenticità del brano (e particolarmente del
v. 18), bisognerà domandarsi che cosa Cristo e i suoi ascoltatori intendessero,
dato che non potevano intendere esattamente ciò che intendiamo noi oggi.
Infatti, nella cultura ebraica dell’epoca di Gesù, non esisteva l’idea di chiesa,
propria della cultura greca, né quella che ben presto si affermerà in seno al
cristianesimo da poco nato. Gli autori sacri e la comunità primitiva, non hanno
ricavato il termine ekklêsia
direttamente dalla tradizione politica della Grecia, ma dalla lettura della
Bibbia [Antico Testamento] tradotta in greco, detta dei LXX, dove, per esempio, l’espressione ebraica “assemblea di
Jhwh” (Deuteronomio 23,2) è tradotta
con “ekklêsia Kiryou”, chiesa del Signore [di Jhwh]. Il vero “teologo” dell’idea di chiesa è l‘apostolo Paolo, che però –
considerando la sua giovane età – quasi sicuramente non conobbe personalmente
Cristo, se non nella visione avuta nel
32 sulla via di Damasco, a seguito della quale si convertì.20
Il suo primo scritto risale all’anno 50. Parla della Chiesa soprattutto
nell’epistola agli Efesini che, anche
se l’autenticità è contestata da alcuni, potrebbe essere dell’anno 59, vale a
dire circa 30 anni dopo la morte di Gesù. Dunque siamo lontani dai giorni della
predicazione di Cristo. Se il brano è autentico (in particolare il v. 18),
tenendo conto che è la “traduzione” in greco dell’aramaico parlato da Gesù e
dai suoi discepoli, quasi certamente Cristo avrà parlato di Keništa’, che può indicare una comunità
(giudaica) locale oppure il “resto messianico”. Ora la concezione messianica
giudaica comportava l’idea di una comunità messianica: infatti, non può esserci
Messia senza comunità messianica; e Simon Pietro ha appena riconosciuto che
Gesù è il Messia. Gesù perciò pensa a quella comunità messianica (l’assemblea
di Jhwh, di cui sopra) che chiama anche con altri termini, come per esempio
«piccolo gregge» (Luca 12,32), che
appunto si può benissimo identificare con la Keništa’, che impropriamente potremmo chiamare “chiesa”, e che qui Matteo “traduce” con questo termine,
appunto con ekklêsia (assemblea)20 bis.
Pertanto, “tradotto” con parole nostre,
cioè in italiano, e mettendoci nei panni degli ascoltatori di Gesù e dello
stesso Pietro, il Maestro dice a Simone:
Tu sei rupe, sei forte; e su questa forza
morale [la forza della fede] io
edificherò il mio piccolo gregge. La Chiesa (il “piccolo gregge”) è formata
dai credenti, da coloro che hanno fede. Senza fede non ci sarebbe chiesa
cristiana, perché «senza fede è
impossibile piacere a Dio» (Ebrei
11,6). E qui le parole di Gesù seguono alla dichiarazione di fede di Simone; a
questa dichiarazione sono legate come l’effetto alla causa21. Perciò Gesù sta
dicendo, implicitamente, che la Chiesa si costruisce (si edificherà) sulla
fede; e non soltanto sulla fede della prima
persona credente in modo particolare, ma sulla fede di tutti i discepoli, sia individualmente e sia come insieme.
Certamente in ordine di tempo (sia pur di stretta misura, inizialmente) a
partire dalla fede esplicita di Pietro, del primo credente; ma nel tempo su
quella di tutti: di Pietro, degli altri apostoli e degli altri
discepoli, fino ai giorni nostri; cioè di tutti coloro che ebbero, che hanno
avuto, che hanno, o che avranno, quella stessa fede (e lo dichiarano) che ebbe
Simone quando pubblicamente (!)
affermò per primo che Gesù è il Messia, il Figliuol dell’uomo, l’unico Maestro,
appunto il Figlio di Dio, il Re. Vi
è, infatti, un solo Maestro, il Messia Gesù (un solo Signore), e un solo Padre,
il Dio (Matteo 23,8; 1 Corinti 8,6). Se la Chiesa avesse
anche Pietro come fondamento particolare (sia pur in second’ordine rispetto al
Signore), Cristo non sarebbe l’unico Maestro; condividerebbe con Pietro e con i
suoi veri o presunti successori l’essere “fondamento” della Chiesa, l’essere
Maestro e Guida (Matteo 23,8 già
citato). O almeno ne risulterebbe un mediatore nella persona di Pietro e dei
suoi successori; ma invece Paolo dice che «v’è
un solo Dio ed anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo»
(1 Timoteo 2,5). Infatti, è proprio
su Cristo (soltanto su Cristo) che Dio edifica la sua Chiesa. Essa si va
costruendo e si innalza “posando” sul Messia (sul Messia!) pietra su pietra (roccia [pétra] su roccia [su pétra]),
cioè tutti coloro che credono, i quali sono – come dice lo stesso apostolo
Pietro – «pietre vive»: líthoi
zōntes, non “statue di pietra”
[non líthoi], non discepoli
impietrati, ma vere (uniche) pietre vive
[zōntes] (1 Pietro 2,5). In sostanza
ogni credente è (o dovrebbe essere) “pietro” esattamente come l’apostolo Simone
figliuolo di Giona. Cristo è, oltre
che generatore della fede anche l’oggetto della fede, come persona; è la pietra angolare; mentre né Pietro né gli altri discepoli sono
oggetto o generatori di fede. Essi sono coloro che la esprimono, mentre Cristo
è la persona per la quale e nella quale è espressa; è l’unica persona sulla
quale l’edificazione della Chiesa poggia e poggerà. Dice Paolo agli Efesini: «...voi siete concittadini dei santi [dei
credenti] e membri della famiglia di Dio [della Chiesa], essendo stati
edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo Gesù Cristo
stesso la pietra angolare [ἀκρογωνιαίου, la più grande, la massima],
sulla quale l‘edificio intero, ben collegato insieme [cfr. 4,15-16], si va innalzando per essere un tempio santo
nel Signore [Gesù]. Ed in lui [nel Signore Gesù] pure voi (efesini) entrate a
far parte dell’edificio, che ha da servire di dimora allo spirito per il Dio [per
Jhwh]» (Efesini 2,19-22; cfr.1Corinti 3,11; Efesini 1,22-23). Dunque, i profeti e gli Apostoli (e di
quest’ultimi Pietro è il primo tra pari
ma non il capo) sono le fondamenta dell’edificio perché a questo compito Gesù
li ha scelti (Ebrei 5,4; Marco 3,13-19; 1 Corinti 12,28). Non si tratta però di “fondamenti-persona” come lo è Cristo, ma di
“fondamenti-fede”, cioè di credenti;
Cristo non è un credente come gli apostoli, ma il fondamento della fede. Cristo ha fondato la Chiesa su se
stesso (è il fondamento), ma per farlo si è servito di ogni discepolo e
degli Apostoli, più precisamente della
loro fede, di quella fede che genera azione, senza la quale non ci sarebbe
stata fondazione della Chiesa. Ora, l’immagine dell’edificio in costruzione
(ovvero del tempio santo)
nell’epistola agli Efesini (che ha per soggetto la Chiesa e i rapporti di
Cristo con essa) evidenzia tre
distinzioni o tre categorie: 1) la “pietra
angolare” (Cristo); 2) le prime
“pietre” della costruzione dell’edificio (i profeti e gli apostoli [continuità
ideale tra Antico e Nuovo Testamento]) che Cristo stesso ha scelto (Marco 3,13-19; Giovanni 15,16); 3)
tutte le altre “pietre” dell’edificio (gli altri credenti). Nella metafora del
tempio, dunque, non c’è una “pietra” particolare che rientri nelle tre
categorie summenzionate (neppure per implicito), né tanto meno che costituisca
una speciale categoria ecclesiastica a sé. Se ci fosse stata una quarta
categoria, per di più così importante come certamente sarebbe stata quella
dell’ipotetico “vicario di Cristo”, del capo visibile (e infallibile nella
dottrina), l’autore dell’epistola agli Efesini, che come abbiamo già detto fu
scritta probabilmente intorno all’anno 59 (circa trent’anni dopo la confessione
di Pietro [Mt. 16,18] di cui stiamo trattando), lo avrebbe riferito mettendolo
in evidenza, come sarebbe convenuto per una funzione così importante. Invece
nulla di tutto questo. Anzi, in 4,11 l’autore dell’epistola (molto
probabilmente Paolo) enumera i “ministeri” nella Chiesa, fondati da Cristo, e
parla di apostoli, profeti, evangelisti, pastori e dottori [teologi]. E del
Papa, ovvero del vicario di Cristo, del capo degli apostoli? Non dice nulla; lo
ignora completamente. E questo fatto è riscontrabile in tutto il Nuovo
Testamento, nel quale si parla spesso delle varie “funzioni ministeriali” (anziani,
diaconi, vescovi [pastori], evangelisti...
ecc., vedi sopra), ma non si parla mai della funzione che ci aspetteremmo di
trovare al primo posto, cioè quella (trasmissibile) del vicario di Cristo. E
non soltanto non se ne parla, ma dei ministeri di cui si parla, qui come
altrove, se ne parla come se colui o coloro che ne parlano escludessero
(inconsapevolmente, o a ragion veduta?) anche la semplice possibilità dell’esistenza di una “funzione vicaria” di Cristo
(oggi diremmo più semplicemente del Papa) attribuita ad uno degli apostoli. Se
non fosse per il fatto che ci siamo proposti di trattare questo capitolo
partendo da quei presupposti ortodossi che ammettono l’ispirazione divina della
Sacra Scrittura (che implica anche l’autenticità), e se fosse vero che il testo
di Matteo in questione si debba
necessariamente interpretare secondo la lettura, sufficientemente tarda, della
Chiesa Cattolica romana, taglieremmo corto concludendo che il testo
(soprattutto i vv. 16-19) è una interpolazione molto lontana dalla prima
redazione del vangelo, che cioè non è autentico. Ma di questo parleremo nel
terzo capitolo. Qui diciamo invece che il testo non ha il significato che
recepiscono i cattolici romani, e che dunque non è in contrasto con l’epistola
agli Efesini e con il Nuovo Testamento, e non c’è perciò motivo per affermare
che non sia autentico.
Nella rivelazione di Gesù a Giovanni (cioè nell’Apocalisse), si parla dei
fondamenti del muro della nuova Gerusalemme, sui quali sono scritti i dodici
nomi dei dodici apostoli; non è detto quali siano i nomi perché sono
sottintesi, e certamente c’è anche il nome di Simon Pietro. Perciò, nella
visione di Giovanni, Pietro è uno dei fondamenti, uno dei dodici; non sta in
disparte assiso su un trono come un Papa, ma con gli altri; ovvero il suo nome
non è scritto su un trono, ma sul muro della città, come quello degli altri undici apostoli. Se così non fosse, i
“dodici” nomi sarebbero “undici” e non “dodici”. Inoltre, è significativo il
fatto che nella metafora i fondamenti del muro della nuova Gerusalemme sono
adornati da pietre (...«pietro», «pietre»...), e precisamente da «pietre preziose / líthō timíō»; ogni
fondamento una pietra, ognuna diversa dalle altre ma tutte ugualmente preziose (Apocalisse 21,14,19,20): nel
Nuovo Testamento tutti gli apostoli e non soltanto Simone sono pietre, pietre vive, preziose; così pure i cristiani di
Efeso sono pietre, fanno parte integrante
dell’edificio (Efesini 2,22);
anzi, tutti i credenti sono pietre perché tutti dichiarano con fede che Gesù di Nazareth è il Messia, e con ciò fanno parte
dell’Edificio. Nella metafora della nuova Gerusalemme, la “pietra Simone” (ovvero la “fede
Simone”) è un fondamento come gli altri apostoli, come la fede degli altri,
perché, così come confesseranno gli altri,
egli “confessa”: «Tu [Gesù di Nazareth]
sei il Messia», che è appunto l’espressione della fede di tutti i credenti
(Pietro per primo, concediamo), di tutti coloro che avendola espressa sono o
saranno battezzati: l’etiope
incontrato dall’apostolo Filippo sulla via che da Gerusalemme conduce a Gaza,
confessa: «Io credo che Gesù [detto]
Cristo è il Figliuol di Dio [cioè il Messia, il Re]» (Atti 8,37). Vero è che questa confessione di fede è contestata da
molti come inautentica, ma è accettata come
autentica da altrettanti commentatori (tra i quali il Cullmann); essa, anche se
fosse inautentica, implicitamente rispecchierebbe il fatto che all’epoca in cui
sarebbe stata introdotta negli Atti
(verosimilmente intorno all’anno 90, cioè in epoca assai vicina alla redazione
originale del “libro”) era la confessione di fede richiesta al battezzando.22
Comunque sia, con questa dichiarazione di fede il battezzando si rivela “pietra
viva”, ovvero “pietro” o “pietra”, cioè “rupe”.
Cristo, invece, è la pietra angolare,
il fondamento, la pietra massima sulla quale poggia tutto l’edificio, perché è
l’oggetto della fede e perché è «duce e perfetto esempio di fede» (Ebrei 12,2). Egli è la vera pietra: la
roccia (1 Corinti 10,4). E la pietra
angolare (la massima) è una, la quale non può avere e non ha né sostituti né
vicari. Perciò, nel Nuovo Testamento, è detto esplicitamente che Dio è il capo
di Cristo e che Cristo è il capo della Chiesa (1 Corinti 11,3; Col. 1,18); mentre non è mai detto che Pietro è il
capo della Chiesa o il vicario del capo, e neppure è detto ch’egli sia stato il
capo degli apostoli; né tanto meno risulta che gli apostoli siano stati
considerati propriamente capi della
chiesa del loro tempo. Tutti i veri cristiani pensano e credono con la testa (o
con la mente) di Cristo, non con quella degli altri discepoli, non con quella
di Giacomo, Pietro e Giovanni..., anche se questi servitori di Dio erano e sono
giustamente reputati colonne della chiesa (Galati
2,9). L’apostolo Paolo dice che per conoscere che cosa Dio vuole dal credente,
cioè per conoscere le cose dello spirito, ci vuole la mente di Cristo, e
conclude appunto che «noi [cristiani] abbiamo la mente di Cristo» (1 Corinti 2,16). Noi crediamo esser vere
le cose spirituali scritte dagli autori del Nuovo Testamento perché come loro
anche noi abbiamo la mente di Cristo, e non perché essi (gli autori) abbiano
ricevuto da Dio o da Cristo un mandato “storico” particolare, trasmissibile,
per il quale avrebbero un genere di autorità che li metterebbe al di sopra
degli altri cristiani e per il quale dovremmo comunque dar loro assoluto
credito sulla parola a prescindere da ogni considerazione teologica, biblica e
filosofica. «Nessuno – dice Paolo – conosce le cose di Dio, se non lo spirito
di Dio. Or noi [noi credenti, noi tutti] abbiamo ricevuto... lo spirito che viene
da Dio...» (1 Corinti 2,11-12).
Dunque, poiché tutto questo è affermato con chiarezza nel Nuovo Testamento
[torneremo su questo argomento], qui vorremmo sapere che cosa i discepoli
abbiano compreso dalle parole di Gesù, e ancor più precisamente che cosa abbia
inteso dire il Messia con le parole «su questa pietra [su questa rupe]
edificherò la mia chiesa [il mio piccolo gregge]». La spiegazione comincia a
delinearsi già dalle parole che seguono nel testo stesso di Matteo. Dobbiamo qui ricordare che
Cristo altrove [in Luca 6,48] parla
della casa fondata sulla roccia, che la tempesta non può abbattere proprio
perché è fondata sulla rupe, sulla roccia, dove roccia sta per fede. Così alla
confessione di Pietro, Cristo risponde con la metafora della rupe: la vera fede
è simile alla roccia sulla quale è fondata quella casa imbattibile. La metafora
della rupe, con la quale Gesù risponde alla confessione dell’apostolo, allude
perciò più alla fede di Simone che non alla persona, sebbene la fede di Simone
non possa essere disgiunta da Simone. La fede rende l’apostolo una roccia
(perché è vera fede); questa “roccia-persona” è invincibile perché invincibile
è la fede, ed è così non soltanto per Simone, ma anche per tutti i credenti.
Ogni credente è «pietro» grazie alla fede. L’apostolo non può avere e non ha
alcun merito per la forza che gli viene dalla fede, perché è rivelazione del
Padre (v. 17), e così è per ogni credente. L’apostolo Paolo, scrivendo ai
Filippesi dice che è Dio che produce nell’uomo il volere e l’agire, secondo la
sua benevolenza (2,13). Il volere e l’agire umani non conformi alla volontà di
Dio, non sono secondo la benevolenza del Padre; e ciò evidenzia che in quelle
persone che esprimono quel volere e quell’agire umano lo Spirito è stato
“spento” o “contristato” (cfr. 1 Tessalonicesi
5,19; Efesini 4,30).
[c]Le porte dell’Ades non potranno
vincere la Chiesa. Quale relazione consequenziale
può esserci tra la confessione di fede di Simon Pietro e il fatto che la morte
(le porte del “soggiorno dei morti”)
non potrà prevalere sulla Chiesa? Questa frase, di primo acchito, ma anche col
senno di poi, sembra dire che la fede di Pietro (proprio quella sua, personale), con tutto ciò ch’essa implica o
potrebbe implicare e con tutto ciò ch’essa produce o potrebbe produrre, durerà
per sempre, e che dunque debba essere trasmissibile dato che l’apostolo non è
immortale. Ma non è così, perché la fede di Pietro dura pochissimi minuti,
talché Gesù, cinque versetti più avanti, come vedremo, gli dirà: «Vattene via da me, Satana, tu mi sei
di scandalo. Tu non hai il senso delle
cose di Dio, ma delle cose degli uomini»
(v. 23). E la conseguenza del modo di pensare troppo umano (“satanico”) di
Pietro sarà il suo triplice “rinnegamento” (cfr. Giovanni 18,12 e ss.). Il fatto che le porte dell’Ades non
prevarranno sulla Chiesa, che non l’annienteranno, non si riferisce dunque
esclusivamente alla fede di Pietro
e/o al mandato (comunque concepito!) conferitogli da Cristo (a lui certo,
ma anche agli altri apostoli e
discepoli), fede e mandato che (secondo la teologia cattolica romana) si
trasmetterebbero automaticamente e infallibilmente ai successori, e che i
successori esplicherebbero infallibilmente; semmai si riferisce al fatto che si
tramanderà la fede di tutti i credenti, quella dei veri credenti, di quelli che “hanno il senso delle cose di Dio” (e
perciò – per questa fede – la Chiesa non potrà essere annientata, come non può
essere annientata una casa sulla roccia), anche la fede di Pietro stesso, dato
che l’apostolo sarà riabilitato, appunto, nella fede che qui per primo ha
dichiarato e contraddetto subito dopo, e che altresì ha vanificato poi con il
triplice rinnegamento: cfr. Giovanni 21,15 e ss. In ogni caso è certo che, alla
fine dei tempi, i veri cristiani saranno pochissimi rispetto all’intera
umanità (la vera Chiesa sarà sempre un “piccolo gregge”). Gesù stesso l’ha
profetizzato nei seguenti termini: «Quando
il Figliuol dell’uomo verrà [cioè alla “parusia”],
troverà la fede in terra?» (Luca 18,8). Ma questi pochi cristiani
(relativamente pochi) avranno la caratteristica dei veri credenti,
possiederanno la vera fede, quella per la quale la Chiesa non è stata
annientata dalle porte dell’Ades ed è giunta alla meta, fino alla parusia.
[19]Io ti darò le chiavi del regno
dei cieli[a]; e tutto ciò che avrai legato sulla terra sarà legato nei cieli, e
tutto ciò che avrai sciolto in terra sarà sciolto nei cieli[b].
[a]Qui è necessario dire in modo chiaro
e sintetico che cosa si debba intendere con l’espressione “regno dei cieli”,
per capire che cosa voglia dire la metafora delle “chiavi” che Gesù promette di
dare a Pietro, e allo scopo di stabilire se si debba intendere o no come un
compito o un mandato esclusivo per l’apostolo.
Diciamo subito che nella Sacra
Scrittura le espressioni “Regno dei cieli”
e più spesso “Regno di Dio” sono
equivalenti perché indicano
sostanzialmente la stessa cosa, anche se ognuna delle due ha delle sfumature
e delle caratteristiche sue proprie per le quali si differenzia dall’altra per
qualche aspetto formale. Non è questo il luogo per fare uno studio approfondito
sulla nozione di “Regno di Dio” nell’Antico e nel Nuovo Testamento.
Sinteticamente possiamo dire che la qualifica “dei cieli” è una metafora equivalente alla qualifica “di Dio”, perché “dei cieli” indica la provenienza23 come genere, cioè “divino”, appunto Regno di Dio. Sia
nell’uno che nell’altro caso, il Re è Dio, il quale regna nell’Universo nel suo
insieme (Salmo 139), nel mondo umano
(Daniele 4,17) e nell’intimo delle
persone («il Regno di Dio è dentro di
voi»: Luca 17,21); ma regna o
regnerà anche e soprattutto, in eterno, nel “nuovo cielo” e nella “nuova terra”
(2 Pietro 3,13), cioè nel Nuovo Mondo
che sarà instaurato da Cristo all’avvenimento della sua presenza (1 Corinti
15,24), per usare un termine popolare: nel Paradiso che ha da venire. Ma l’espressione, o la qualifica, “dei cieli”, da un punto di vista
scritturale, in se stessa è pregna di significato, capace di spiegare la
metafora delle chiavi che Cristo ha dato a Simon Pietro [soltanto a Simon
Pietro?].
Abbiamo visto al v.18 che Gesù annuncia
che edificherà la sua chiesa. Subito dopo, al versetto successivo, dice che
darà a Pietro le chiavi del regno dei cieli. È evidente che soprattutto in questo contesto il termine “chiesa” e
l’espressione “regno dei cieli” non indicano la stessa cosa. Abbiamo visto che
l’assemblea cristiana (o il “piccolo gregge”) è formata da tutti coloro che
professano la fede di Cristo e in Cristo. Il “regno dei cieli”, in questo
contesto, è invece il luogo dei salvati, il Paradiso che ha da venire [vedi più
avanti il commento al v. 19 b].
Dunque, la chiave del regno dei
cieli, che Cristo promette di dare a Pietro, non significa che l’amministrazione della Chiesa è affidata
all’apostolo, non significa che egli qui è eletto da Gesù come capo visibile
della Chiesa (lui e i suoi successori), non significa che è investito
dell’autorità di “vicario di Cristo”; significa piuttosto che Gesù dà a Pietro,
come a tutti coloro che avranno la fede
di Pietro, la certezza, la garanzia, di entrare nel regno dei cieli, vale a
dire di essere tra i salvati. Nella metafora si parla di porte e di chiavi (le
chiavi aprono o chiudono le porte: vv.18,19; cfr. Apocalisse 1,18) ed è chiaro che non si tratta di conferire un potere giuridico e giurisdizionale
sorretto dall’infallibilità: i
cristiani, Pietro e tutti i credenti (nel tempo e nello spazio), sono beati
perché hanno avuto, hanno ed avranno da Cristo la chiave per entrare, alla
risurrezione, in quel regno che sarà instaurato alla parusia. Molto
probabilmente Pietro e gli altri apostoli non avranno inteso le parole di
Cristo esattamente in questi termini, perché sanno troppo del senno di poi, ma
sicuramente avranno inteso il concetto equivalente nella forma più semplice e
più accessibile, cioè che il Messia apriva loro la strada della salvezza, dava
loro la chiave per entrare nel mondo dei salvati. Qui la chiave (o le chiavi)
serve (o servono) per entrare in un luogo riservato, riservato a chi possiede
legittimamente la chiave per aprire la porta ed entrarvi. Non è affatto
credibile che la metafora espressa con le parole “chiave del regno dei cieli” possa alludere alla Chiesa, al “piccolo gregge” e al suo governo
(che Cristo avrebbe affidato a Pietro). Se questa interpretazione, anche
considerata formalmente sui generis,
fosse almeno credibile, potrebbe dare un valore all’interpretazione
tradizionale della metafora delle chiavi secondo la quale indicherebbe il
potere di chi comanda e dispone, o di chi ha ricevuto dal Re l’incarico di
governare o di regnare in sua vece, e
quindi in questo caso di Pietro e dei suoi successori sulla Chiesa. Però non sappiamo se la concezione, in generale,
sulla quale poggia questa interpretazione della “chiave” intesa come “potere”
(giuridico e giurisdizionale) possiamo
considerarla familiare nella cerchia di Gesù e dei suoi discepoli, considerato
che non ha un riscontro esplicito nel Nuovo Testamento. A nostro parere questa
interpretazione, cara alla chiesa cattolica romana, sarebbe completamente del
senno di poi. Comunque sia, qui evidentemente il termine “chiave”, di fatto,
sta per “salvezza” e l’espressione “regno dei cieli” sta per “nuova creazione”.
Il “regno dei cieli” non indica la Chiesa, né qui né altrove nel Nuovo
Testamento; e la chiave o le chiavi, pertanto, non indicano un potere sulla
Chiesa conferito a Pietro, bensì una garanzia di vita eterna, per Pietro stesso
e per tutti i credenti: i salvati da Cristo possiedono la chiave per aprire la
porta del regno dei cieli ed entrarvi, alla risurrezione. Questa è la metafora!
Alcuni noti autori ed esegeti affermano
che l’idea delle “chiavi”, come metafora, sarebbe di origine ellenica. Èaco,
giudice dei morti agli Inferi, era detto “portachiave” o “portatore della
chiave”. Ciò potrebbe farci pensare che il brano di Mt. 16 abbia subìto influssi provenienti dal cristianesimo
ellenico, che non era esattamente la cultura ortodossa ebraica. Ci sembra, perciò,
che questa considerazione giochi piuttosto a favore della inautenticità del
testo. Inoltre, alcuni si appoggiano a Isaia
22,22: «Metterò sulla sua spalla
24 la chiave della casa di Davide: egli
aprirà, e nessuno chiuderà; egli chiuderà, e nessuno aprirà». E aggiungono che
era consuetudine presso i Giudei usare l’espressione “dare le chiavi del regno” per conferire la dignità di Gran Visir.
Tutto questo non crediamo che possa trasportarsi pedissequamente nella cultura
contemporanea di Gesù e particolarmente della cerchia degli apostoli, per ovvi
motivi, e perché il riferimento al testo di Isaia appartiene ad un’epoca molto
lontana nel tempo rispetto ai fatti narrati nel N.T. Ma soprattutto perché il
concetto suggerito dalle chiavi nel brano di Mt. 16 è quasi esplicito: le chiavi aprono e chiudono. Ma affermare
che l’implicito della metafora, di “aprire
e chiudere”, si riferirebbe al
conferimento di un potere, e di un potere sulla Chiesa, di natura giuridica e
giurisdizionale, è un’affermazione che ci lascia assai dubbiosi: la Chiesa non
è un regno terreno che abbisogna di un Gran Visir, cioè di un capo terreno e
visibile. Né del resto sappiamo come gli Apostoli abbiano effettivamente
recepita la metafora dalle parole di Gesù: su questo i vangeli tacciono completamente.
E questo non gioca a favore del conferimento a Pietro di quel supposto potere.
Com’è possibile che gli altri Apostoli, lì presenti, non abbiano detto nulla in
proposito, né ai né bai? Abbiamo visto in Apocalisse 1,18 («Io sono il primo e l’ultimo,
e il Vivente; e fui morto, ma ecco son vivente per i secoli dei secoli, e tengo
le chiavi della morte e dell’Ades») che l’idea di aprire e chiudere
(la quale potrebbe forse riecheggiare il testo di Isaia) è implicitamente nel
potere proprio ed esclusivo del Risorto; è lui che apre e chiude, ma
non apre
o non chiude una sentenza di vita o di morte, di perdono o di
condanna, né stabilisce norme dottrinali, né tanto meno tramite Pietro; ma
piuttosto conferisce la vita, ovvero rende nulla la morte: è Colui che dice
«Venite, voi, i benedetti del Padre mio; ereditate il regno che vi è stato
preparato sin dalla fondazione del mondo» (Matteo
25,34). Certo questo comporta appunto un potere (conferitogli dal Padre, da
Dio: Matteo 18,28), ma pensare che
Cristo lo abbia trasmesso o conferito a Pietro significherebbe affermare
qualcosa che è completamente assente nel N.T. A possedere quelle chiavi è il
Messia (…io tengo le chiavi…): «Io
sono la risurrezione e la vita» (Giovanni
11,25), nessun altro lo è, neppure Pietro, qualsiasi veste giuridica o funzione
religiosa gli vogliamo attribuire; nessuno
apre, nessuno chiude. Infatti, in Apocalisse
3,7 il Risorto dice ancora: «[Io sono] il
santo, il verace, colui che ha la chiave di Davide, colui che apre e nessuno
chiude, colui che chiude e nessuno apre». Qui il riferimento al testo di
Isaia sopra citato è evidente. Davide è antenato e tipo del Messia (di Cristo):
è Figlio di Dio, è Re, Capo, Unto, Dio è suo Padre (cfr. Salmo 2). Egli aveva perciò un potere (era l’Unto di Dio): il
potere del Messia. Ma Gesù di Nazareth ha quel potere al massimo grado, e non
lo esercita come potere terreno («il
mio regno non è di questo mondo»: Giovanni
18,36), ma per chiudere ed aprire (io apro e nessuno chiude…): chiude le porte dell’Ades (annienta la
morte) e apre la porta della nuova creazione,
della vita eterna. Egli quella chiave (la chiave per entrare) la dà
direttamente e singolarmente a ciascun credente, a Pietro, agli Apostoli, a
tutti i discepoli, ai veri cristiani di tutti i tempi; ma ovviamente la dà in
senso metaforico, apre in senso metaforico, vale a dire nel senso che dà la
salvezza, un dono, non un potere; è
lui e soltanto lui che apre, e nessun altro: Io chiudo e nessuno apre, io apro e nessuno
chiude. Nessuno apre o chiude, tranne Cristo. Egli è il Mediatore, l’unico mediatore. Nessuno può essere
mediatore al posto suo. Perciò Paolo afferma: «Vi è un solo Dio ed anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini,
Cristo Gesù uomo» (1 Timoteo 2,5).
L’azione metaforica di chiudere ed aprire è diretta, non è mediata. Non si può
ammettere che Pietro sia stato nominato mediatore del mediatore. A questa idea
vi si oppongono diversi testi biblici, alcuni dei quali li abbiamo già citati.
La chiave di cui qui si parla non è la chiave della Chiesa, ma del
regno dei cieli, della nuova creazione. La Chiesa, semmai, può essere (o è)
l’annunciatrice del regno dei cieli, l’assemblea dei credenti è il “piccolo
gregge” guidato da Cristo Gesù mediante lo Spirito [Giovanni 14,17,26], che in qualche modo anticipa il regno dei cieli
annunciandolo. I cristiani pronunciano, ancora oggi, la preghiera insegnata da
Gesù, nella quale leggiamo l’invocazione: «venga
il tuo regno» (Matteo 6,10). Il Regno di Dio deve ancora venire.
Cristo, nella sua persona (Matteo
12,28), ne dà una anticipazione come corpo
spirituale imperituro («spirito vivificante»), ma che non è ancora
identificabile alla completa futura realtà che appartiene alla parusia [o presenza visibile] di Cristo
stesso, il Signore, all’escatologia, al Messia che nell’ultimo giorno di questo mondo “ritorna” per instaurare il
suo regno. Perciò Giovanni dice che «non
è ancora reso manifesto quel che saremo; sappiamo però che quando egli [Cristo]
sarà manifestato, saremo simili a lui [cioè “corpi spirituali”
imperituri], perché lo vedremo come egli è» (1 Giovanni 3,2). Né del resto la Chiesa è mai chiamata “regno dei
cieli”. Alcuni sostengono che la presenza di Cristo, in senso proprio e reale,
prima della sua morte (cioè in senso storico), e dopo la risurrezione (in senso
spirituale e attuale), comporterebbe che il Regno dei cieli è già instaurato, e
che questo coincide con la Chiesa. Non è così! Certamente c’è una tensione
forte e continua tra il già realizzato (vale a dire il Messia Gesù venuto,
morto e risorto; la “caparra” della vita eterna; la Chiesa dei già salvati; la predicazione
dell’evangelo…) e ciò che ancora
dev’essere realizzato (la realtà della
Nuova Creazione; cioè il corpo pneumatico;
l’immortalità... ecc.);25 ma questa tensione, in se stessa, ovviamente non è pienamente e realmente il Regno di Dio; e d’altra
parte, ciò che deve essere ancora realizzato è comunque di gran lunga più
importante di ciò che è realizzato; è preponderante: il Regno futuro, il Regno dei cieli, deve ancora venire;
attualmente tutti gli uomini sono ancora mortali: il Regno futuro è la
conclusione del piano di Dio per la salvezza
dell’uomo, è la meta ultima, è quel fine senza il quale ciò che è già realizzato,
sebbene fondamentale e grandioso in se stesso ed anche determinante ai fini
della salvezza umana, diventerebbe inutile:
«Noi [cristiani] – dice l’autore della “2a
Pietro” – aspettiamo [ancora] nuovi cieli
e nuova terra nei quali abita la giustizia» (2 Pietro 3,13). Questo è il Regno di Dio nella sua pienezza e
novità: è la realtà totalmente nuova che ha da venire (Apocalisse 21,5); non è la Chiesa. È
quella realtà che si realizzerà allorché «la
morte e l’Ades furono [saranno] gettati nello stagno di fuoco... e non ci sarà
più la morte...» (Apocalisse
20,14; 21,4).
Se dunque il “regno dei cieli” non è la
Chiesa, la chiave del regno dei cieli, che Gesù promette di dare a Simone, non
rappresenta il potere dell’apostolo Pietro sulla Chiesa, ma certamente una
promessa di sicura salvezza, ed ovviamente non soltanto per Simone, ma anche
per tutti i credenti; direttamente per ciascuno. In questo contesto il
simbolismo, o la metafora, della chiave o delle chiavi non riguarda il
conferimento di un potere (tanto meno conferito soltanto a Pietro e ai suoi
successori, ammesso che vi siano dei successori nel senso della teologia
cattolica romana), ma la certezza di poter aprire una porta (in senso
metaforico), quella del regno dei cieli. Ed è Gesù, il Messia, che decide a chi
e a quanti dare la chiave, per il potere concessogli da Dio (Matteo 28,18): egli la dà al credente, a coloro che lo accettano come Cristo,
come Messia, di cui Simone è il primo, il primo a proclamare, o a testimoniare
apertamente, la propria fede in Cristo Gesù; ma non è il solo; perciò Gesù dirà
a Marta: «chiunque crede in me, non morrà mai» (Giovanni 11,25), vale a dire tutti,
perché tutti possono credere all’esortazione di Cristo, che è rivolta a tutti;
e tutti lo possono accettare come il Figliuolo dell’Iddio vivente, come Messia.
Perciò, nelle metafore del Nuovo
Testamento, alla vita e alla morte in
senso escatologico si accede mediante le chiavi atte a chiudere o ad aprire: alla morte si accede aprendo la porta
dell’Ades (di cui tutti possediamo già la chiave per natura), ma Cristo
possiede quella per chiuderla per sempre (Apocalisse
1,18; Atti 10,42; Apocalisse 21,4); alla vita si accede
aprendo la porta del regno dei cieli (Matteo
16,19). La Chiesa non entrerà nel regno della morte, perché le porte dell’Ades non la potranno vincere
(v. 18), non si apriranno per essa, in quanto i credenti che formano la Chiesa
possiedono già, individualmente, il
dono della chiave del regno dei cieli (quella naturale dell’Ades ha perso la
sua forza: 1 Corinti 15,54-57) grazie
a Cristo e non perché ci sarebbe un capo visibile (nella persona del vescovo di
Roma) che condurrebbe infallibilmente
l’Assemblea (o la “navicella”) in porto. Nella metafora che spesso si usa, specialmente
nell’ambito del cattolicesimo romano, la nave non è i naviganti; mentre nella
realtà evangelica la nave e i naviganti (se si vuole usare questa metafora) si
identificano, sono la stessa cosa. La salvezza non è “salvezza della Chiesa” in
astratto (o salvezza tramite la Chiesa), come se la Chiesa fosse altro dai
credenti, ma delle persone, di chiunque crede in Cristo Gesù. Si tratta dunque
di chiudere o di aprire delle porte (ovviamente in senso metaforico), da ciò
l’immagine delle chiavi. Una chiave serve ad aprire una porta (o a chiuderla).
La chiave, perciò, non indica un potere vicario
(non almeno in questo contesto del Nuovo Testamento), ma la possibilità di
ciascun credente (e di ogni uomo, di tutti) di accedere individualmente alla
vita; possibilità che è certezza grazie alla promessa di Cristo e non di un
apostolo (Giovanni 11,25-26). Il
Messia ha dato o dà ad ogni credente la chiave che apre la porta della vita
eterna. Ogni cristiano quella chiave la possiede già; Gesù, dandola a Simone,
ha certamente inteso darla a tutti coloro che professano la stessa fede
dell’apostolo. Simon Pietro è il primo (in quel preciso momento l’unico) ad accettare, e a proclamare pubblicamente, che Gesù è il Messia.
Perciò il Maestro gli dice: «Io ti darò le chiavi del regno dei cieli»
(v. 19a). Se a dare quella risposta
al Nazareno fossero stati contemporaneamente più di uno, per esempio tre
apostoli; vale a dire, se ce ne fossero stati due o tre (o anche più) che si
fossero mostrati pronti e svelti come Simone, certamente Gesù avrebbe detto
loro «Io vi darò le chiavi del regno
dei cieli». Infatti, il Nazareno ha rivolto la domanda a tutti: «E voi,
chi dite ch’io sia?» (v. 15b); e
se tre avessero dato la stessa risposta di Pietro, all’unisono o quasi, che
cosa avrebbe dovuto dire Gesù, secondo i sostenitori del primato di Pietro?
Avrebbe dovuto dire: Tre sono
troppi; ne scelgo uno solo, Simone. In effetti è soltanto Pietro a rispondere;
ma certamente in un secondo momento (e forse poco dopo, nella stessa occasione)
anche tutti gli altri avranno avuto l’opportunità di dare la stessa risposta e
l’avranno data. Lo dichiara Simone stesso con le parole riportate dal vangelo
di Giovanni: «Simon Pietro gli rispose [a
Gesù]: “Signore, da chi ce ne
andremmo? Tu hai parole di vita eterna. E noi
abbiamo creduto e abbiamo conosciuto [cioè testimoniato, o confessato] che tu
sei il Cristo [il Messia], il Figlio del Dio vivente”» (6,68-69). «Noi», dunque; non solo Pietro. E si badi bene: quel “noi” pronunciato da Simone non allude a ciò che, forse, anche gli
altri discepoli esprimevano in modo
silenzioso in quel momento; non sta
interpretando lì per lì ciò che gli
altri discepoli avevano in animo, non “legge” il loro pensiero tramite
l’ispirazione dello Spirito. È evidente, invece, che l’apostolo si riferisce ad
un precedente momento “storico”, al passato:
noi abbiamo creduto... Si riferisce a un fatto ben preciso (più o meno
vicino o più o meno lontano nel tempo, non importa): a quel momento “storico” nel quale i discepoli avevano già dichiarato
di credere, e dichiarato in modo
esplicito, ciascuno con la propria voce,
cioè individualmente. Pertanto, il
replicare di Gesù alla confessione di Pietro (Matteo 16,19) si estende nel tempo (indietro e in avanti) e si
rivolge agli altri undici apostoli e a tutti i credenti; anche perché quel tipo
di risposta, come è arcinoto, costituisce la confessione di fede richiesta al
catecumeno per il battesimo26, che non può essere data se non
personalmente e individualmente, ed è il preciso equivalente della confessione
di Pietro. Al battesimo la confessione di fede non può essere espressa se non
dal catecumeno stesso, perché (lo ribadiamo) in generale e in ogni caso è assolutamente
e strettamente personale. Qui Pietro non ha risposto per tutti, ma per se
stesso [Gesù: Tu sei beato, o Simone...]; però quella fede ciascuno degli apostoli
l’ha comunque espressa
individualmente e autonomamente, sicuramente nel proprio animo (nella stessa
occasione della confessione di Pietro) e “storicamente”, per esplicito, con la
propria viva voce (come risulta da vari luoghi
del Nuovo Testamento); ed ogni cristiano l’ha espressa o la esprimerà al
battesimo. Pietro non ha parlato per tutti i discepoli, non ha parlato come
capo degli apostoli, né vi parlerà in seguito, perché non c’è stato e non c’è
nessun capo degli apostoli, tranne Cristo. Il titolo di “duce”, cioè di “capo”,
nel Nuovo Testamento è dato a Gesù Cristo; non
è mai dato a Pietro, né a nessun altro. Quando Pietro risponde alla domanda
di Gesù (v. 16), nulla ci fa supporre che abbia ricevuto l’illuminazione dello
Spirito in esclusiva: lui solo fra tutti i presenti. Possiamo dire che risponde
prontamente perché precede gli altri, e precede gli altri perché risponde
prontamente; ma non per questo possiamo concludere che parla a nome degli
altri, nella veste giuridica di chi avrebbe l’autorità di parlare ufficialmente
a nome di tutti, né tanto meno come vicario di Cristo, considerato che il capo
della Chiesa, il Signore Gesù Cristo, era lì presente in carne ed ossa.
Insomma, non è possibile che il primo che parla si debba per questo considerare
eletto vicario di Cristo. Lo Spirito è in tutti i credenti, così come era in
Pietro; “parla” a tutti (a tutti gli uomini) attraverso la
coscienza di ciascuno e specialmente di coloro che sono consapevoli della sua
presenza immanente27 e che scelgono di non “spegnerlo” (1 Tessalonicesi 5,19), sicché «nessuno può dire “Gesù è il Signore” se non per
lo Spirito Santo» (1 Corinti
12,3). E poiché tutti i cristiani l’hanno detto e lo dicono, come Pietro,
sarebbero per questo tutti “vicari di Cristo”? No di certo. Nessuno lo è;
neppure Simon Pietro. Ovvero, tutti lo sono se in ogni uomo, e soprattutto in
ogni condiscepolo, si deve vedere Cristo (Matteo
25,40); e se il vero credente deve tenere un comportamento conforme a quello di Gesù secondo l’esortazione di Cristo stesso e
degli apostoli Paolo e Pietro (Matteo
11,29; Filippesi 2,5; 1 Pietro 2,21, ecc.), allora in un certo
senso ogni cristiano è “vicario” di Cristo, fa le sue veci. Ma questo è un
altro discorso, che appartiene all’ideale del comportamento cristiano.
Il testo di Matteo 16,19 generalmente è tradotto in due modi diversi, e tutti e
due letteralmente fedeli
all’originale:
1) Traduzione CEI (che è la traduzione italiana quasi
ufficiale della Chiesa Cattolica romana): «A te [a Simone] darò le chiavi del regno dei cieli».
2) Traduzione di Giovanni Luzzi (che è quella adoperata
da noi in questo libro): «Io ti darò [a Simone] le chiavi del regno
dei cieli».
Ora, tradurre dal testo greco «A te
darò le chiavi...», oppure «Io ti
darò le chiavi...», è ugualmente
legittimo, ma in italiano certamente non è la stessa cosa: c’è una importante sfumatura. Infatti, dire «a te darò» può
implicare che non darà ad altri («a
te... e non ad altri»), che Gesù
avrebbe fatto una scelta, ed una scelta singolare e discriminatoria. Mentre dire «io ti darò» non esclude che darà anche ad altri («ti darò... come agli altri»); diventa una promessa che può legittimamente
considerarsi come fatta a tutti; e così è effettivamente. Pertanto, alla luce del testo di Giovanni 6,68-69 qui sopra citato, ci sembra di poter e di dover
preferire l’esatta traduzione protestante del Luzzi (che è anche, e prima
ancora, del calvinista Giovanni Diodati) che risponde anch’essa al senso del
testo greco, e di conseguenza dobbiamo ricusare quella cattolica della CEI
perché, su questo punto, ci sembra capziosa e tendenziosa, pur nella fedeltà al
testo greco. Prova ne sia che una traduzione cattolica più recente, a cura di
Angelo Lancellotti ed Altri, si adegua a quella protestante28. Perciò ribadiamo che
si può dedurre pressoché esplicitamente [da Matteo
18,18 e da Giovanni 20,23] che Gesù
quelle stesse parole indirizzate a Simone le ha dette anche agli altri apostoli
e implicitamente, e più in generale, ai discepoli.
[b] Tutto
ciò che avrai legato sulla terra sarà legato nei cieli; e tutto ciò che avrai
sciolto in terra sarà sciolto nei cieli.
Qui è necessario ribadire ancora il significato dell’espressione “nei cieli”, “dei cieli”, “celeste”, o
semplicemente del termine “cielo”,
perché se per il termine terra sembra
legittimo ed ovvio prenderlo alla lettera (ma d’altra parte neppure questo va
preso alla lettera), non è certamente il caso di prendere in senso letterale il
termine cielo. In cielo ci sono
soltanto le nuvole (quando ci sono); se poi vogliamo riferirci, più precisamente,
allo spazio infinito che circonda la Terra, o nel quale la Terra è immersa,
allora diciamo propriamente che in cielo ci sono gli astri, cioè le stelle e i
pianeti; non c’è altro. Ovviamente possiamo usare ugualmente la metafora che
afferma che Dio è in cielo, in terra e in
ogni luogo (il salmista dice che lo spirito di Dio è ovunque, finanche nel
profondo del mare e nel “soggiorno” dei morti: Salmo 139), perché è appunto spirito infinito, o meglio ancora: è il
Semplice fuori di ogni composto. Dunque, l’uso e il significato del termine
cielo in senso specifico è un altro,
è qualcosa che va al di là del senso letterale.29 Ed è importante
precisarlo, per poter comprendere l’altra metafora: “legare e sciogliere”.
Nella Sacra Scrittura il termine cielo
è usato in alcuni casi, implicitamente o esplicitamente, per indicare in senso
metaforico e antropomorfico la “dimora” di Dio e di Cristo risorto; mentre, in
senso più preciso [vedi sopra, alle pp. 23 e ss.] indica la «nuova creazione»
(un nuovo cielo e una nuova terra, il
Nuovo Mondo: Apocalisse 21,1; 2 Pietro
3,13), vale a dire ciò che in termini popolari extra-biblici chiamiamo
normalmente «paradiso»; il luogo (se tale si può definire) dei salvati che sarà
instaurato ed inaugurato alla fine dei tempi, alla parusia di Cristo e alla risurrezione dei morti; è il Regno di Dio
(Matteo 25,34; Luca 11,2; 2 Timoteo 4,18
e moltissimi altri testi). Non è dunque la Chiesa. Il testo che parla di
“legare e sciogliere” sostanzialmente dice che le azioni che il credente compirà
sulla terra (e Simone è il primo dei credenti, nel senso che è il primo
a confessare pubblicamente che Gesù è
il Messia in risposta ad una esplicita domanda del Maestro rivolta a tutti i
discepoli) determineranno conseguenze nella nuova creazione (più precisamente nel giorno della parusia), nel Regno di Dio o dei Cieli: in particolare, chi avrà perdonato
(cioè “sciolto”) sarà perdonato, e chi non avrà perdonato (cioè chi avrà
“legato”) non sarà perdonato30. Vari testi esprimono questo concetto; qui,
per brevità, ne citiamo solo tre: Matteo 6,14: «[Gesù dice:] Se voi
perdonate agli uomini i lori falli, il Padre vostro celeste perdonerà anche a
voi; ma se voi non perdonate agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà i
vostri falli». Luca 6,37: «Perdonate e vi sarà perdonato». Colossesi
3,13: «Come il Signore vi ha
perdonati, così fate anche voi». Ed è evidente che i perdonati e i
perdonatori sono i prediletti, nella
“nuova creazione” (nel regno dei cieli o di Dio).
Inoltre, l’idea del perdono come dovere
del cristiano, è ribadita da Giacomo [il «fratello del Signore»?] là dove
scrivendo ai condiscepoli dice che bisogna confessare i peccati gli uni agli
altri, cioè reciprocamente: «Confessate i
vostri falli gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri...» (Giacomo 5,16). E certamente gli “altri”
non sono i pastori della Chiesa (che avrebbero in esclusiva il dovere di sciogliere e di legare); le parole “uni”
e “altri” indicano che colui che ha commesso i falli (le offese, i peccati)
deve confessarli a colui o a coloro che ha offeso e chiedere loro perdono; e
che gli offesi, a loro volta, devono perdonare. Insomma qui si ribadisce
l’ordine di Gesù, sopra citato, perdonate
e vi sarà perdonato. È “legato” colui che non chiede perdono, che non
confessa i propri peccati; è “sciolto” colui che chiede perdono e confessa i
propri peccati. Ugualmente colui che perdona “scioglie”, mentre colui che non
perdona si “lega” da sé perché non ha sciolto.
Tutto ciò è chiaro anche nello stesso
vangelo di Matteo [18,15-18], nel
quale troviamo le seguenti parole attribuite a Gesù: «Se il tuo fratello ha peccato contro di te..., se non ti ascolta...,
dillo alla chiesa [εἰπὸν τῇ ἐκκλησίᾳ∙
(all’assemblea locale)], eccetera... e conclude: tutte le cose che avrete
legate sulla terra, saranno legate nel cielo; e tutte le cose che avrete
sciolte sulla terra, saranno sciolte nel cielo». È evidente che Gesù si
riferisce agli individui (ad ogni
credente), ad ogni membro delle future chiese
locali, a cominciare dai credenti di quel momento storico; e in ultima
istanza, all’Assemblea cristiana universale nello spazio e nel tempo. Dunque non si riferisce soltanto a Pietro, perciò ne parla al plurale. Sono i
discepoli, tutti i discepoli (apostoli compresi), che ricevono il mandato e
l’esortazione a “sciogliere” per il regno
dei cieli, che diventa “legare” se non perdonano, se non sciolgono. Ogni
credente possiede la chiave con la quale “scioglie” ed è “sciolto”, o con la
quale “lega” o è “legato”, ovvero con la quale si “lega” da sé; e la possiede
come la possiede Pietro e come la possiedono gli altri discepoli, perché la
riceve direttamente da Cristo,
l’unico Mediatore (1 Timoteo 2,5).
Pertanto, ogni credente, ogni seguace di Gesù, riceve non soltanto il mandato
di predicare l’evangelo, ma anche l’esortazione a “legare” e a “sciogliere” (a
sciogliere piuttosto che a legare) che è implicita nella predicazione
dell’evangelo stesso, perché è predicazione del perdono divino. Anche dal cap. 20 del vangelo di Giovanni (come da
altri capitoli dello stesso vangelo e da altri luoghi del Nuovo Testamento) apprendiamo in modo chiarissimo, per
esplicite e implicite affermazioni, che il Risorto Gesù Cristo dà il “mandato”
a tutti i discepoli e non soltanto
agli apostoli, e non soltanto a Simon Pietro. Non si parla di “apostoli” nel cap. 20 di Giovanni (che è il luogo
in cui il Maestro conferisce ufficialmente il mandato, confermandolo); si può
dedurre da alcuni nomi (Giovanni, Pietro, Tommaso...) che anche gli apostoli erano presenti. È evidente che
l’evangelista con il termine “discepoli” intende i credenti, senza alcuna distinzione. Ora Gesù si presentò proprio in
mezzo ai discepoli [vv. 19, 25...],
tra i quali certamente vi era Maria Maddalena che troviamo menzionata
all’inizio del capitolo e nel prosieguo del racconto, e probabilmente anche
altre donne, che non erano apostoli né in senso stretto (o teologicamente
proprio) né alla lontana (o in senso generico)31, e dichiarò loro (ai
discepoli!): «Come il Padre mi ha mandato,
anch’io mando voi»; quindi soffiò su loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati, saranno
rimessi; a chi li riterrete, saranno ritenuti» (vv. 21-23). Dio perdona colui che è stato
perdonato dal condiscepolo (perché se il condiscepolo lo ha perdonato, vuol
dire che gli ha chiesto perdono), e perdona altresì il discepolo che ha
perdonato il condiscepolo. Non saranno perdonati i peccati che non saranno
stati confessati ai discepoli [vedi sopra].
Gesù Cristo, sin dall’inizio della sua predicazione aveva dato mandato a
settanta discepoli di predicare a due a due l’evangelo nelle città della
Palestina: «Il Signore designò altri settanta discepoli, e li mandò a due a due
dinanzi a sé, in ogni città e luogo dove egli stesso era per andare... “guarite gli infermi e dite loro: Il regno di
Dio si è avvicinato a voi”» (Luca 10,1,9). Ed è evidente che anch’essi, da buoni discepoli (oggi diremmo: da
buoni cristiani) avranno “sciolto” e purtroppo anche “legato”; o almeno avranno
esortato i loro ascoltatori a “sciogliere” e a farsi “sciogliere”. In
definitiva, legare e sciogliere è l’ordine che Gesù ha dato e dà a tutti
i discepoli, cioè a tutti i suoi seguaci. L’azione di “sciogliere” implica la reciproca
confessione dei peccati e il reciproco perdono; mentre “legare” implica che non c’è confessione e dunque non c’è perdono.
Concludendo, le chiavi aprono (o
chiudono) la porta del Regno dei Cieli; danno accesso al nuovo cielo e alla
nuova terra, dove abita la giustizia (2 Pietro
3,13). Dire “sciogliere” e dire “legare” è come dire “aprire” e “chiudere”.
Colui che ascolta il messaggio del perdono di Dio contenuto nella predicazione
dell’evangelo di Cristo, è esortato a “sciogliere” e a “legare”, a perdonare e
a farsi perdonare confessando le proprie colpe direttamente a coloro che ha
offeso (Giacomo 5,16), e a camminare
lungo il cammino tracciato da Gesù (1
Pietro 2,21). Così facendo, non incorrerà nella riprovazione dei
confratelli, non sarà “legato” (Matteo18,15-18)
e le porte del Regno dei cieli si apriranno anche per lui, nello stesso giorno
della parusia di Cristo, cioè subito
dopo la risurrezione (Matteo16,19;
25,34). In ogni caso, l’espressione legare
e sciogliere, anche prescindendo dalla nostra interpretazione, non è esclusiva
prerogativa di Pietro, e neppure degli altri Apostoli, ma è propria di ogni
cristiano, cioè di ogni discepolo di Gesù.
[20] Allora vietò ai suoi discepoli di
dire ad alcuno ch’egli era il Cristo.
Quest’ordine, con il quale Gesù vieta
ai suoi discepoli di dire ad alcuno ch’egli è il Messia, è riportato
dall’evangelista anche al capitolo successivo, in occasione della
trasfigurazione (17,1-13). Qui gli
apostoli (o meglio ancora: i discepoli) odono una voce che dice: «Questo è il mio diletto Figliuolo [= Messia], nel quale mi sono compiaciuto; ascoltatelo» (v. 5; cfr. Luca 3,22; 4,18-19).
Notiamo per inciso che la voce non dice
“questo è mio figlio incarnato” (nel senso di “Dio fatto uomo”).
Un’affermazione di tal genere (o una equivalente), così inaudita tra gli
israeliti, è assente anche tra i primi cristiani, non esiste in tutto il Nuovo
Testamento (né, ovviamente, nell’Antico) perché ha la sua sede naturale nelle
religioni politeiste; non ce l’ha nel monoteismo. Le espressioni
neotestamentarie “Figliuolo”, “Diletto Figliuolo”, “Unigenito Figliuolo”,
“Primogenito”, “Figlio dell’Altissimo”, “Figlio di Dio” e simili, che sono
riferite implicitamente o esplicitamente a Gesù di Nazareth, sono sempre e in ogni caso riconducibili al
termine “Messia” e al suo significato, inteso come “Unto” (gr. Christόs), cioè l’Eletto secondo l’uso
tradizionale proprio della cultura ebraica (ne abbiamo già accennato). Così
nell’Antico Testamento Davide, essendo eletto re, è unto ed è definito “Figlio
di Dio”, e Dio (l’Elettore) è definito “Padre di Davide” (cfr. Salmo 89), e così pure i Giudici di
Israele erano detti “Figli di Dio”, anzi più precisamente “Figli
dell’Altissimo” (così come Gesù) e perfino “dèi” (cfr. Salmo 82; Luca 1,32; Giovanni 10,34). Ora il Nazareno, per quanto riguarda l’appellativo
scritturale «Figlio di Dio», ricorda
ai suoi ascoltatori (e ai suoi accusatori) che nella Scrittura [nell’Antico
Testamento] per l’appunto i giudici erano detti Figli di Dio, ma tuttavia non erano Dio (v. 7); e dunque implicitamente
nega di essere Dio e nega altresì di aver detto, comunque, di essere Dio32.
Su questo argomento ritorneremo più avanti.
Al cap. 16 è Pietro a dire “Tu sei il
Messia, il Figlio del Dio vivente”; al cap. 17 invece è la voce
[antropomorfica] di Dio, il Padre (il Creatore), che afferma che Gesù è il
Messia, e in quanto tale (in quanto Messia) deve essere ascoltato. In Gesù di
Nazareth, Dio si è compiaciuto
[sentimento antropomorfico qui attribuito a Dio]. Dio prova nei confronti di Gesù compiacimento, soddisfazione,
approvazione, si rallegra di lui, si congratula con lui. Perché? Perché Gesù di
Nazareth sin dalla nascita ha tenuto
fedelmente il comportamento dell’Uomo assistito dallo Spirito (Luca 1,15; 2,40); è Colui che ha
superato la triplice tentazione che Adamo (il primo Uomo) non volle o non poté
o non seppe superare33.
Il Nazareno (il secondo Uomo) è il Santo di Dio (Giovanni 6,69); da Dio coronato di
gloria e di onore («a motivo della morte
che ha sofferto»: Ebrei 2,9; Filippesi
2,8-11), adottato o eletto “Figlio” (Messia, Unto, Cristo); duce
e perfetto esempio di fede, è stato fatto Signore (Matteo 3,16-17; Ebrei
12,2; Atti 2,36). Il racconto degli Atti
ci dice che è Pietro (il più svelto tra i discepoli) ad annunciare ai suoi
connazionali che «Iddio ha fatto [ha
eletto] e Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (Atti 2,36). La voce che proclama
l’adozione divina di Gesù è udita da tutti i discepoli, non soltanto da Simon
Pietro dunque; ma è quest’ultimo (il più pronto) che, rispondendo alla domanda
che il Salvatore rivolge a tutti i presenti, afferma: «Noi abbiamo creduto e
abbiamo conosciuto che tu (Gesù) sei
il Cristo, il Figliuolo del Dio vivente» (Giovanni 6,69). E l’autore della Seconda Epistola di Pietro lo ribadisce: «Noi stessi udimmo quella
voce che veniva dal cielo, quando eravamo con lui sul monte santo» (2 Pietro 1,17-18). Tutti, dunque,
accettano Gesù come Messia, e tutti lo dichiarano esplicitamente. Ora però, il
Maestro, sia in Mt.16 e sia alla trasfigurazione, vieta ai suoi discepoli
di dire ad alcuno ch’egli è il Cristo. Perché? Non sappiamo perché, precisamente.
Potremmo fare delle congetture, più o meno appoggiate dai testi biblici che
disponiamo su questo tema. Ma qui ci preme mettere in evidenza che qualunque
sia stato il motivo, resta il fatto che in Mt.16
il centro del discorso era il riconoscimento che Gesù di Nazareth è il Messia. Gli altri appellativi o meglio
gli altri sinonimi, come “Figliuol dell’Uomo”, “Figlio di Dio” (o “Figlio
dell’Altissimo”), eccetera... sono
impliciti nell’idea di “Messia”, proprio perché sinonimi. “Messia” è l’essenza della missione di tutti i profeti, dei
giudici, dei sacerdoti, dei re, dei capi di Israele, e in modo eccellete di
Gesù di Nazareth. Ed anche il Messia per eccellenza è un uomo; un uomo
“soltanto uomo”; vero uomo. Credere,
come Pietro, che Gesù è il Messia, non dà al credente una dignità e un compito
particolari rispetto agli altri credenti perché
tutti i credenti sono credenti; tutti
i battezzati credono (e lo dichiarano) che Gesù è il Messia. La risposta di
Simone, con la quale l’apostolo dichiara che Gesù è il Cristo, non gli può
conferire e non gli conferisce una speciale dignità e una speciale veste
giuridica identificabile in quella di “vicario di Cristo” o anche semplicemente
di capo degli Apostoli. Le parole che Gesù pronuncia a seguito della
confessione di Simon Pietro non sono adatte, neppure alla lontana, a fondare
ciò che tempo dopo si è chiamato e si chiama “istituto papale” o semplicemente
“Papato”, perché quelle parole si adattano ad ogni credente, ad ogni discepolo,
e non riguardano esclusivamente Pietro, perché Gesù sta parlando della
fondazione della Chiesa e non dell’elezione del vicario di Cristo. Certamente è
legittimo ipotizzare che, prescindendo da tutte le considerazioni che abbiamo
testé fatto, Gesù abbia voluto conferire a Pietro (e ai suoi successori) uno
speciale mandato carico di dignità e responsabilità, ponendolo così al di sopra
degli altri discepoli e apostoli. Ma questa ipotesi non ha alcun appoggio
scritturale, anzi le parole di Gesù stesso l’hanno implicitamente esclusa: «Chiunque fra voi vorrà essere primo [capo],
sarà servo di tutti. Poiché anche il Figliuolo dell’uomo non è venuto per
essere servito, ma per servire...» (Marco
10,44-45). Gesù non dice: Se Pietro vuole
essere il primo... ecc.; oppure: Se
qualcuno di voi vorrà essere il primo [in tal caso significherebbe che non
c’era di già un capo, tranne Cristo] allora dovrà essere il servitore di
tutti; solo così potrà assumere la dignità di capo. Nulla di tutto questo!
Il discorso di Gesù non dice che colui o coloro che aspirano ad essere “capo”
devono avere le doti adatte ad assumere questa carica e che le devono mostrare
nei fatti; sta dicendo che nessuno dei discepoli deve aspirare a questo compito
e alla dignità ch’esso comporta, e se vi è qualcuno che tuttavia vi aspira, farebbe
meglio ad aspirare di essere il servitore di tutti, perché ciascun credente (e
particolarmente ciascuno dei Dodici) deve essere non il capo, ma il servitore
degli altri; tutti i discepoli devono essere animati dallo stesso spirito di
umiltà di cui era animato il Maestro. «Un
discepolo non è da più del maestro; ma ogni discepolo perfetto sarà come il suo
maestro» (Luca 6,40).
[21-22] Da quell’ora Gesù cominciò a
dichiarare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molte
cose... ed essere ucciso, e risuscitare il terzo giorno[a]. E
Pietro, trattolo da parte, cominciò a rimproverarlo, dicendo: Tolga ciò Iddio,
Signore; questo non ti avverrà mai[b].
[a] Questo testo (che qui abbiamo
abbreviato) non ha bisogno di molte spiegazioni. Da quel momento, cioè dal
momento in cui i discepoli (Simone per primo) riconoscono Gesù come Messia (il
Cristo, il Figliuolo dell’uomo), Gesù apre il discorso che riguarda il suo
futuro; predice ciò che gli accadrà; comincia a rendere coscienti i suoi
discepoli di ciò che dovrà soffrire e della sua morte, nonché della sua
risurrezione.
[b] Ad un certo punto Pietro (ancora
lui per primo), con tono di rimprovero, pretende di rassicurare il Maestro: «Questo non ti avverrà [o non ti
accadrà] mai». È da notare, tra l’altro,
che secondo Giovanni è Simon Pietro
che (anche qui per primo) all’arrivo delle guardie guidate da Giuda Iscariota,
colpisce una di loro con la spada (18,10). Insomma, Pietro si lascia condurre
dal suo impulso, non riflette, non ha capito molto dei discorsi di Gesù. Il suo
comportamento e il suo modo di pensare non sono ciò che dovrebbero essere se
fosse stato il capo degli Apostoli o addirittura il vicario di Cristo; egli non
“ascolta” lo Spirito. O meglio, non sempre si lascia guidare dal «Padre che è nei cieli» (v. 17). Ogni
ministro di Dio (come più tardi ognuno degli anziani delle chiese o gruppi già costituiti) aveva il compito
proprio dei collaboratori di Cristo, i Dodici anche quello per la fondazione
della Chiesa. Ognuno di loro avrebbe dovuto “pascere le pecore”, compito di
grande responsabilità (cfr. 1 Pietro
5,1-4), e predicare l’evangelo di Cristo. E ciò comportava (come comporta) il
dovere di praticarlo; ma Pietro agisce secondo il suo modo personale di vedere
le cose. Eppure è lui che per primo ha dichiarato: «Tu sei il Cristo, il Figliuolo dell’Iddio vivente», e ciò per
rivelazione divina (Matteo 16, 16 e
17).
[23] Ma Gesù, rivoltosi, disse a
Pietro: Vattene via da me, Satana; tu mi sei di scandalo[a]. Tu
non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini[b].
[a] Ecco, sorgono le difficoltà. Se
Pietro era stato nominato “Vicario di Cristo” (prescindendo da questa
espressione, che non esiste nel N.T.); e se questa funzione comportava
l’infallibilità di chi la impersonava, come si spiega il comportamento di
Pietro? Quando esclama «Tu sei il Cristo,
il Figliuolo dell’Iddio vivente» (v. 16) certamente è il «Padre che è nei
cieli» che glielo ha rivelato (v. 17); ma quando esclama «Questo non ti avverrà mai» (v. 22) Simone diventa Satana (v. 23).
Qui il discorso sarebbe molto lungo, e i sostenitori del Papato hanno pronte
molte risposte, una delle quali è che il Papa è infallibile soltanto quando
decreta in materia di fede e di dottrina. Ma ci domandiamo: l’assistenza di
quello Spirito che è in tutti gli uomini, e particolarmente nei discepoli di
Cristo (che sono coloro che non lo “spengono”: 1 Tessalonicesi 5,19), si svolge secondo intensità e modi
diversi, a seconda della categoria delle persone? E come mai là dove (nel
Vicario di Cristo) ci aspetteremmo giustamente che fosse presente nel migliore
dei modi è invece limitato (si fa per dire) soltanto alle cose strettamente di
fede e di dottrina e non è esteso al comportamento? Del resto, quando Pietro
dice “questo non ti accadrà mai” non
sta “decretando” in materia di fede e di dottrina? Non sta negando la necessità del “sacrificio” di Cristo? In
Gesù la persona è sempre e totalmente
secondo lo Spirito di santità; Gesù è «ripieno
dello Spirito Santo» (Luca 4,1);
il suo Vicario poco o niente!? Ma con questo discorso ci siamo allontanati un
po’ dall’esegesi. È importante, invece, rilevare che [b] dal v. 23 (come da
tutto il brano) risulta con molta chiarezza che Simone non è stato nominato
vicario di Cristo, e neppure capo degli apostoli. Gesù lo chiama col nome del
diavolo: «Voltatosi, disse a
Pietro: “Vattene via da me Satana; tu non hai il senso delle cose di Dio, ma
delle cose degli uomini”».
Ancora sul termine πέτρος.
Il testo greco, sia nelle edizioni di Nestle-Aland e K. Aland e Altri, e sia nell’edizione di Westcott-Hort, porta «Πέτρος», con l’iniziale maiuscola, ma si
tratta di una scelta degli editori. L’originale non ha questa distinzione; non
usa le maiuscole. Noi abbiamo seguito l’originale con maggiore fedeltà per
evidenziare che il termine non è un nome di persona; non è neppure un nome
creato in quel momento da Gesù.
La “riabilitazione” di Pietro.
Per questi motivi i teologi parlano di
“riabilitazione”. Pietro deve essere
riabilitato, perché sappiamo che nessuno dei discepoli (dei veri discepoli) può perire (Giovanni 17,12). Paolo dirà nella sua
epistola ai Romani: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo?»; niente e nessuno!
(8,35 ss.). E l’evangelista Giovanni dice che Gesù amò i suoi [discepoli] sino
alla fine (13,1). Ed inoltre: «Come il
Padre mi ha amato – dice Gesù – così
anch’io ho amato voi...» (15,9). E Pietro è un vero discepolo, che ama il suo Maestro ed è amato dal suo Maestro;
perciò Luca racconta che non appena
l’apostolo ebbe compiuto il rinnegamento, pianse; ci fu il pentimento immediato
(22,62). Il risultato è che Simon Pietro è riammesso da Cristo nel corpo
apostolico, o forse si potrebbe dire che non ne è stato mai propriamente fuori: Signore,
tu sai ogni cosa; tu conosci che io t’amo (Giovanni 21,17).
Le parole con le quali Gesù, per così
dire, riabilita Pietro, non possono intendersi come le intendono i sostenitori
del primato di Pietro; come se l’apostolo fosse stato reintegrato nella sua
funzione di capo visibile della Chiesa, e neppure come se fosse stato riammesso
nella funzione di capo degli apostoli, perché i testi che abbiamo esaminato fin
qui non affermano che Cristo ha eletto Pietro alla funzione di suo vicario o a
quella di capo degli apostoli. Perciò la riabilitazione riguarda il suo apostolato,
unicamente l’apostolato. Pietro è riammesso là dove il suo comportamento lo
aveva portato fuori. Il testo integrale è in Giovanni 21,15-17. Le frasi oggetto della controversia sono di due
generi. Gesù dice a Simone per tre volte: «M’ami
tu più di questi [altri discepoli]?»; e «pasci
i miei agnelli... pastura le mie
pecorelle... pasci le mie pecore».
I cattolici romani fanno delle riflessioni molto sottili, ma anche molto
audaci. Il motivo per il quale Gesù per
tre volte chiede a Pietro “mi ami più di questi, più degli altri apostoli?”
potrebbe avere la sua spiegazione nel fatto che il Papa nel rapporto d’amore
con Cristo deve essere ad un livello più alto degli altri apostoli. Pietro,
perciò, sarebbe il primo Papa, e come tale deve amare ed ama Gesù Cristo più
degli altri apostoli. E poi le parole “agnelli”, “pecorelle”, “pecore” –
secondo i cattolici romani – indicherebbero i ministri della Chiesa espressi
nella loro gerarchia, che Pietro (il Papa) pascerebbe, darebbe loro il
nutrimento spirituale adatto allo scopo. Un commento di questo genere ci sembra
più adatto per la Divina Commedia, piuttosto che per il Nuovo Testamento. Ora,
i commentatori di Dante, in qualche caso, possono far dire al Poeta ciò che
vogliono, ma non sempre i lettori li prendono sul serio, perché è evidente che
Dante non pensava neppure lontanamente a ciò che i commentatori, a volte, gli
attribuiscono. Ma il Nuovo Testamento è un’altra cosa. Noi potremmo limitarci a
dire che il commento dei cattolici romani lascia il tempo che trova, e finire
qui questo discorso perché il testo si commenta da sé. Le espressioni «tre
volte», e «più degli altri», potrebbero riferirsi al fatto che Pietro rinnegò
Gesù per tre volte, mentre gli altri discepoli furono sostanzialmente fedeli.
Gesù vuole da Simon Pietro una dichiarazione esplicita di fedeltà e d’amore
supplementare e abbondante, perché l’Apostolo si possa sentire reintegrato nel
corpo apostolico. Gli agnelli, le pecorelle, le pecore, sono il gregge. La forma che troviamo espressa qui, nel
testo del cap. 21 dell’evangelo di Giovanni, è puramente letteraria e non
teologica. La Chiesa di Gesù, negli evangeli, è indicata come il piccolo gregge (Luca 12,32), di cui Cristo è, appunto, il Pastore (Giovanni cap. 10). Le pecore perciò sono
i discepoli, vale a dire i cristiani. Prova ne sia che nella “prima
epistola di Pietro”, le tre
parole (implicite) sono indicate con un solo termine, «gregge». Ecco il testo: «Io esorto dunque gli anziani che sono fra
voi, io che sono anziano con loro e
testimone delle sofferenze di Cristo e che sarò pure partecipe della gloria che
ha da essere manifestata: Pascete il gregge
di Dio che è fra voi, non forzatamente, ma volonterosamente secondo Dio; non
per un vile guadagno, ma di buon animo; e non come signoreggiando quelli che vi
son toccati in sorte, ma essendo gli esempi del gregge. E quando sarà apparito il sommo Pastore, otterrete la corona della gloria che non appassisce» (1 Pietro 5,1-4). Il gregge non è la gerarchia ecclesiastica (nella Chiesa di Gesù
Cristo non c’è gerarchia); quel Pietro che scrive (per gli storici autore
incerto, proprio San Pietro per i cattolici romani) è anziano fra gli anziani,
il conduttore di una comunità (non di tutta la Chiesa); ogni comunità aveva uno
o più anziani: la chiesa di Gerusalemme ne aveva almeno tre, Giacomo [il
fratello del Signore], Cefa [Pietro] e Giovanni (Galati 2,9). Simon Pietro non
è il capo visibile dell’Assemblea, non è il capo degli apostoli, non è il
vicario di Cristo, non è neppure vescovo (stando all’epistola
citata); si presenta come «apostolo di Gesù Cristo» e anziano [presbýteros] fra gli anziani.
Nel gregge in senso proprio, ogni
individuo, ciascuno nell’essenza comune che caratterizza la specie (cioè prescindendo dalle
differenze individuali), è “pecora”: il gregge è l’insieme delle pecore. Fuori
della metafora, il termine “gregge” indica la Chiesa, vale a dire l’Assemblea dei credenti, il cui capo è Cristo, pietra
angolare, che è lo Spirito. Ogni
apostolo, ogni ministro dell’evangelo, ogni predicatore, più precisamente e più
in generale ogni credente è “pecora”; nella parabola della pecora smarrita
(Luca 15,1-7) si parla di pecore e
non di agnelli, né di pecorelle. Al termine “pecora” corrisponde il termine
“pietra” nell’altra metafora della Chiesa intesa come un tempio in costruzione:
ogni credente (e non soltanto ogni apostolo od ogni ministro dell’evangelo) è
una “pietra” (pietra Pietro Pétros, roccia rupe pétra); più precisamente, i
credenti sono “pietre vive”
(λίθοι ζῶντες), tutti sono “Pietro”. Pascere il gregge, i confratelli,
cioè ciascun credente, ciascuna “pecora”, è compito di tutti i cristiani in
ottemperanza all’amore che deve regnare tra i credenti e che include
l’edificazione spirituale e l’aiuto reciproci (Colossesi 3,16) perché sono tutti pietre vive, attive, ma pure
bisognosi ciascuno del sostegno dell’altro, e tutti di Cristo.
Certamente questo compito (quello di
pascere il gregge) è anche e soprattutto di coloro che hanno ricevuto da Dio il
dono di amministrare l’evangelo; nel testo sopra citato, infatti, l’autore si
rivolge soprattutto agli anziani, che
sono i conduttori delle chiese, delle comunità. Sono loro che devono pascere il gregge, secondo l’esortazione che
troviamo nel testo sopra citato; non è Pietro in particolare o esclusivamente,
né tanto meno Pietro risulta preposto a pascere coloro che devono pascere il
gregge; questo non è scritto da nessuna parte.
Il fatto che Pietro (ammesso che sia
lui l’autore dell’epistola) abbia preso l’iniziativa di scrivere per esortare
gli altri anziani a pascere il
gregge, non implica che lui sia il capo degli anziani. Anche Paolo, Giovanni e altri autori sacri, scrivono similmente a
Pietro per esortare gli altri, e nessuno di loro è per questo capo degli
anziani o degli Apostoli, o vicario di Cristo. Gli agnelli (nel testo che
riguarda la riabilitazione di Pietro), le pecorelle e le pecore sono tutte gregge (vale a dire sono la Chiesa,
l’Assemblea dei credenti), ogni individuo del gregge è pecora, perché pecora è la specie; non c’è la specie agnello e neppure c’è la specie pecorella; l’insieme è gregge, perciò il capo dell’Assemblea è pastore,
il Sommo Pastore, il quale quando apparirà (alla parusia), nella Nuova Creazione, darà alle pecore la vita eterna,
che nella metafora del testo sopra citato è indicata con l’espressione “corona
della gloria che non appassisce”. Una metafora simile la esprime l’apostolo
Paolo quando dice che Gesù, il Giusto Giudice, darà a lui e a tutti quelli che
avranno amato la presenza (la
parusia) di Cristo, la “corona di giustizia” (2 Timoteo 4,6-8).
Dunque, l’autore dell’epistola, Pietro
(?), non si qualifica come “pastore” (né tanto meno come vicario del Pastore)
bensì come presbýtero. Un lettore
privo di pregiudizi non potrebbe mai concludere che quel “Pietro” che scrive la
prima epistola che porta questo nome sia “Vicario di Cristo”, dal momento che
si qualifica semplicemente presbýtero;
per di più presbýtero con gli altri presbiteri.
L’interpretazione che danno i cattolici romani (del brano che riguarda la
riabilitazione di Pietro e del brano della prima epistola di Pietro 5,1-4) è basata sul pregiudizio
che dà per già dimostrato ciò che invece si vorrebbe dimostrare.
Altro testo che si porta a sostegno del
primato di Pietro, che riguarda in qualche modo la riabilitazione
dell’Apostolo, è Luca 22,32, nel
quale Gesù, prevedendo che Pietro l’avrebbe rinnegato per tre volte, predice
pure il pentimento dell’Apostolo; gli dice: «Ho pregato per te affinché la tua
fede non venga meno; e tu, quando sarai convertito, conferma i tuoi fratelli».
Lo storico e biblista Charles Guignebert scrive: «Luca 22,32: “Rinsalda i fratelli” e Giovanni 21,15 sgg.: “Pasci le mie pecore”,
null’altro provano se non l’affetto di Gesù per Pietro e la fiducia in lui,
ammesso che dobbiamo considerarli autentici»34.
Noi aggiungiamo che il termine greco
στήρισον (in Luca. 22,32), che il Guignebert
traduce con “rinsalda”, e altri traducono con “conferma” o con “dai forza”,
vocabolario greco alla mano si può tradurre anche con il sinonimo “incoraggia”,
che ha una diversa sfumatura, importante, che chiarisce meglio il discorso di
Gesù. Da ciò la seguente traduzione libera: «Io
ho supplicato [il Padre] per te, perché tu sappia conservare la tua fede.
[Cosicché] incoraggerai i tuoi fratelli quando sarai tornato a me». Con la conversione (si intende dopo il
rinnegamento) Pietro avrebbe con ciò stesso (con il suo pentimento esemplare; con l’esempio di colui che si pente) incoraggiato la fede degli
altri Apostoli; il suo ritorno a Cristo, e il rientro nel corpo apostolico,
avrebbe rafforzato la fede dei fratelli. Questo è il semplice discorso di Gesù;
non è (e neppure presuppone) il conferimento o la conferma di un incarico
speciale, quello di condurre la Chiesa come capo; semmai è una esortazione a
convertirsi per incoraggiare gli altri Apostoli, scoraggiati per la sua
defezione. Che senso avrebbe ammettere che dopo il pentimento Pietro avrebbe
«confermato» i suoi fratelli? Semmai dovrebbe essere il contrario: un capo (in
questo caso Pietro) che ha “rinnegato” l’Idea ha bisogno di essere confermato, riconosciuto, dai suoi
seguaci, dai suoi sottoposti, e non di confermare lui i suoi sottoposti. Un po’
meglio suona la traduzione «rinsalda», ma noi optiamo per il verbo incoraggiare, e soprattutto optiamo per
la traduzione libera, perché quest’ultima è conforme a tutto il Nuovo
Testamento; l’altra traduzione, quella più letterale, se fosse l’unica
possibile dovremmo concludere che il testo non è autentico, che sarebbe
un’aggiunta propria del senno di poi.
LA SUCCESSIONE APOSTOLICA NEL
NUOVO TESTAMENTO.
Centralità
del tema.
Il tema della successione apostolica è
implicitamente legato alla interpretazione che diamo del brano di Mt. 16, e in maniera diretta alla
risposta che potremmo dare alla seguente domanda: “Qual è la vera chiesa di
Dio?”. Purtroppo, storicamente, non esiste una risposta chiara, esplicita e
assoluta. Conosciamo il Cristianesimo nel suo insieme; oggettivamente non conosciamo la “vera chiesa” di Dio e di Gesù
Cristo.
Sarebbe “vera chiesa”, storicamente e
dottrinalmente, quella che è “erede legittima” della chiesa primitiva che è sorta dopo la risurrezione di Cristo e che
troviamo soprattutto negli Atti degli
Apostoli. Ma che cosa vuol dire essere “erede legittima”? Quali sono le
caratteristiche essenziali e dottrinali, capaci di connotarla per una
comparazione con il Cristianesimo reale? A torto o a ragione, gli storici, ma
soprattutto i teologi che sono coloro che se ne sono occupati di più, si basano
su molte caratteristiche, più o meno chiare, ma mai così convincenti da
risolvere il problema.
Fra le varie caratteristiche che
entrano in gioco a questo proposito, secondo alcuni teologi, quella
fondamentale (la più importante) è illustrata dal tema della “successione
apostolica”. Se ci fosse la prova, sia in senso storico che in senso teologico, che vi siano stati e
che vi siano anche oggi “ministri di Dio” successori degli Apostoli costituiti
da Gesù Cristo (per intenderci bene: successori dei Dodici), avremmo risolto il
problema, o quasi. Diciamo “quasi” perché sarebbe comunque da misurare la loro
fedeltà all’evangelo, e controllare ch’essi non siano quei «lupi rapaci» di cui
l’apostolo Paolo ha predetto la venuta secondo quanto riferisce l’autore degli Atti (20,29-31). Ma il N.T. ammette una
“successione” in senso stretto e teologico?
In questo capitolo ci proponiamo di
presentare questo tema nel modo più sintetico possibile, e solo attraverso le
citazioni della Sacra Scrittura. Dimostreremo che non c’è “successione”
apostolica (in senso teologico), perché non
può esserci per sua stessa natura. È il santo Spirito che guida i credenti,
e quindi la Chiesa che essi formano. La successione è formalmente di nessuna
importanza dopo la morte degli Apostoli, perché il fatto per eccellenza è ormai accaduto: Cristo ha fondato la Chiesa
con i dodici Apostoli, e non c’è successione.
Essi erano i testimoni auricolari ed oculari, nominati da Gesù per essere con
lui fondatori della chiesa. A questo scopo avevano ricevuto l’insegnamento
direttamente da Cristo, ed erano testimoni della sua risurrezione. Con la loro
morte, non possono più esserci testimoni auricolari ed oculari; non ci sono
Apostoli, né sarebbero necessari perché lo Spirito che era nei Dodici è ora in
tutti i credenti; ed è appunto tramite lo Spirito che Cristo guida la sua
chiesa, della quale è il Capo.
La Chiesa è quella i cui membri hanno
la vera fede di Gesù. Per sapere qual è la vera fede di Gesù Cristo in modo
chiaro e preciso non c’è altro mezzo se non quello di guardare alla
“tradizione” scritta che i credenti della chiesa primitiva ci hanno lasciato,
dato che non ci sono più testimoni oculari e auricolari di Gesù. Altre forme di
“tradizione” non possono essere più autorevoli della testimonianza scritta.
Certo «la fede viene da ciò che si
ascolta [non dalla lettura?], e ciò
che si ascolta viene dalla parola di Cristo» (Romani 10,17). Ma leggere è, sostanzialmente, lo stesso che
ascoltare. Inoltre: abbiamo l’appoggio degli Atti, là dove l’autore riferisce che gli apostoli Paolo e Sila
predicarono in Berea. Gli abitanti di quella città ascoltarono la loro parola
con molto interesse, ma andarono subito a controllare nella Scrittura se ciò
che i due predicatori avevano detto corrispondeva al vero (Atti 17,11). Gesù ricorreva spesso alla Scrittura, dandole una
autorità decisiva: «Sta scritto»,
diceva (Matteo 4,4). Entra nella
sinagoga di Nazareth e legge il passo del profeta Isaia che lo riguardava, e
conclude dicendo: «Oggi, si è adempiuta
questa Scrittura, che voi udite» (Luca
4,21). Dunque “udito” si, ma udito della Scrittura, la quale non può essere
annullata, a differenza delle cose soltanto “dette” che possono essere
dimenticate o travisate. Lo dice Gesù stesso: «La Scrittura non può essere annullata» (Giovanni 10,35). E il Gesù risorto ordina, tramite un angelo, a
Giovanni: «Quello che vedi, scrivilo in
un libro e mandalo alle sette chiese...» (Apocalisse 1,11). Nei primi versetti dell’Apocalisse leggiamo: «Beato chi legge e beati quelli che
ascoltano le parole di questa profezia...» (Apocalisse 1,3); ciò che si ascolta non può essere diverso o
contrario a ciò che è scritto; se le due cose concordano i lettori e gli
ascoltatori tutti sono beati; se non concordano deve prevalere ciò che è
scritto. Perciò Lutero, pur dando grandissima importanza alla parola, affermava
il valore prevalente, in materia di fede e di dottrina, di ciò che è scritto,
enunciando il principio della “sola Scriptura”.
Che cosa vuol dire “apostolo”? Qual è
l’origine di questa parola? E qual è il suo significato dedotto dal Nuovo
Testamento? Poiché i “libri” neotestamentari furono scritti in greco, anche se non in quello classico,
dobbiamo partire proprio da questa lingua.
In Erodoto leggiamo: «Aliatte,
informato del rifiuto della Pizia, mandò
un ambasciatore a Mileto per
trattare una tregua...» (Storie I,21). Erodoto, come del resto
altri antichi autori di lingua greca, usa il verbo apostéllein [nel N.T. è apostéllô
e der.] che significa inviare, mandare; da cui apóstolos, che vuol dire
appunto inviato, mandato. L’apostolo di cui si parla in Erodoto è apostolo di
Aliatte e deve assolvere il compito affidatogli da Aliatte. In questo senso,
nella Sacra Scrittura tutti i profeti sono apostoli di Dio. Infatti, Iddio
disse a Mosè: «Dirai così ai figliuoli
d’Israele: L’Io sono m’ha mandato da
voi» (Esodo 3,14). E il profeta
Isaia nel suo “libro” dice: «Udii la voce
del Signore [Iddio] che diceva: “Chi manderò? E chi andrà per me?” Allora io risposi: “Eccomi, manda me!”»
(6,8). Il greco ἀπόστολος, nel N.T., corrisponde al termine dell’Antico
Testamento, come nei testi sopra citati e in altri. Così dal Quarto Vangelo
apprendiamo che Giovanni il Battezzatore era apostolo di Dio: «Vi fu un uomo mandato [apestalménos] da
Dio, il cui nome era Giovanni» (Giovanni
1,6). Anche Gesù Messia è apostolo di Dio, perché è mandato da Dio ad adempiere
il compito proprio del Messia; egli è apostolo per eccellenza. Il Nazareno
diceva di se stesso: «La mia dottrina non
è mia, ma di Colui che mi ha mandato»
(Giovanni 7,16), come era avvenuto
per Mosè tredici secoli prima, e come Mosè stesso aveva preannunciato riguardo
a Cristo (Esodo 3,14; Deuteronomio 18,15,18). Perciò Gesù è
chiamato apostolo nell’epistola agli Ebrei: «Fratelli santi, che siete
partecipi d’una celeste vocazione, considerate Gesù, l’Apostolo [apostólon] e
il Sommo Sacerdote della nostra professione di fede...» (3,1). Così, allo
stesso modo, i discepoli di Cristo sono apostoli di Gesù Cristo; perché sono
mandati da Cristo ad assolvere il compito proprio di ogni discepolo che si può
riassumere nella predicazione dell’evangelo e nell’esempio di vita conforme a
quella predicazione. Dice Gesù ai discepoli: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi» (Giovanni 20,21); «Andate per tutto il mondo e predicate l’evangelo ad ogni creatura» (Marco 16,15). In questo senso dunque,
che è il primo significato del termine, tutti i discepoli (oggi diremmo: tutti
i cristiani) sono apostoli, anche quando non sono profeti; certo non tutti sono
mandati direttamente da Dio, ma tutti
sono mandati da Cristo. Quando Gesù, da risorto, in Giovanni cap. 20, rinnova il “mandato” ai credenti, si rivolge
appunto ai discepoli, non parla di
“apostoli”, né sono definiti tali dall’evangelista, perché è sottinteso che
tutti i discepoli sono apostoli. Gesù l’ordine (il mandato) di predicare, di
testimoniare, l’ha dato in vari modi e in varie occasioni sempre ai discepoli. Anche quando l’ha dato agli “apostoli”
definiti tali in modo particolare, l’ha dato loro in quanto discepoli: non ha
mai detto “a voi apostoli, oppure a
voi dodici (o undici), dò in esclusiva l’ordine di predicare... ecc.”.
Ai testi sopra citati aggiungiamo altri
tre casi molto significativi, scelti fra tanti: L’episodio di Gerasa,
dell’indemoniato che divenne discepolo appena miracolato sicché voleva seguire
Gesù; e Gesù lo manda a predicare, o
meglio a testimoniare, che tale è la predicazione dell’evangelo: «Vai a casa tua dai tuoi, e racconta loro le
grandi cose che il Signore [Iddio] ti ha fatto...» (Marco 5,19). E Luca è più
esplicito: «Torna a casa tua, e racconta
le grandi cose che Iddio ha fatte per te. Ed egli se ne andò per tutta la
città, proclamando quanto grandi cose Gesù aveva fatte per lui» (8,39). Ai
settanta discepoli (che sono definiti semplicemente “discepoli”, ma sono
apostoli nel senso generico di “inviati”) Gesù dice: «Io vi mando come agnelli in
mezzo ai lupi... guarite gli infermi... e dite loro: Il regno di Dio si è
avvicinato a voi...» (Luca
10,1-20). E nei confronti di un discepolo che temporeggiava a predicare, Gesù è
perentorio: «Vai ad annunziare il regno di Dio» (Luca 9,60). Dunque, tutti
i discepoli sono apostoli, cioè inviati
ad annunziare il regno di Dio, mediante l’evangelo.
2. Il secondo significato del termine “apostolo” nel Nuovo
Testamento.
Ma
vi è certamente un secondo significato del termine “apostolo”, più
specifico, che comprende il primo ed è compreso dal primo: è quello proprio dei
discepoli che sono stati scelti direttamente da Gesù per stare con lui; e chi è
scelto ha certamente qualcosa di particolare rispetto a chi non è scelto,
rispetto a chi rimane soltanto discepolo: «Poi
Gesù salì sul monte e chiamò a sé quei ch’egli stesso volle, ed essi andarono a
lui. E ne costituì dodici per tenerli con sé e per mandarli a predicare...»
(Marco 3,13-19; cfr. Matteo 10,1-8; Luca 9,1-2). Questi dodici forse
non erano proprio 12; forse erano di
più o di meno; noi però abbiamo qualche dubbio in proposito, siamo più propensi
ad accettare il numero in senso letterale. Certamente qui assume comunque un
valore simbolico, che racchiude in sé, ed evidenzia, l’importanza del mandato
(e, come vedremo, esclusivo e necessariamente
temporaneo) dei Dodici o dei Non-dodici discepoli-apostoli. L’importanza
simbolica del numero si deduce anche dal fatto che gli evangelisti ne
esibiscono i nomi, e sono 12 nomi. Dodici erano le tribù di Israele. E dodici
sono i nomi degli apostoli scritti sui fondamenti del muro della nuova
Gerusalemme secondo la rivelazione data da Gesù a Giovanni (Apocalisse cap. 20). Ora, abbiamo detto
che “apostoli” sono tutti i discepoli, e dunque è impossibile precisare il
numero di coloro che sono apostoli semplicemente nel primo significato. Ma per
i “Dodici” è precisato. Pertanto quando i vangeli dicono il numero di coloro
che sono stati scelti direttamente da Gesù, significa in qualche modo
attribuire loro (o meglio al loro “mandato”) un valore in più rispetto agli
altri “mandati” innumerevoli, rispetto cioè ai discepoli in quanto
semplicemente “discepoli”, se così si può dire. Perciò, perlopiù nel linguaggio
teologico troviamo che si indica con il termine “apostolo” coloro che, appunto,
sono stati scelti direttamente da Gesù per
stare con lui, mentre gli altri credenti più numerosi sono indicati
semplicemente con il termine “discepoli”, che per noi è sostanzialmente sinonimo.
I Dodici furono scelti per stare alla scuola di Cristo, al fine di fondare la
Chiesa. “Apostolo” comprende comunque il significato di “discepolo”, ma
“discepolo” può non comprendere quello di “apostolo” se non nel senso generico
di “inviato” (cioè nel primo significato). Infine, nel Nuovo Testamento non è
sempre possibile distinguere il significato generico di “inviato” (che è
equivalente a “discepolo”) dal significato di “apostolo” nel senso dei Dodici,
quando non appaia evidente dal contesto. È importante, tuttavia, ricordare che
nei vangeli le occasioni nelle quali Gesù dà l’ordine (cioè il mandato) di predicare l’evangelo
ovunque, le troviamo anche prima della formazione del “gruppo” dei dodici
apostoli, il quale mai ci risulta (neppure dagli Atti) che si sia attivato in quelle funzioni che gli vengono
attribuite dalla teologia cattolica romana. Gli apostoli (i Dodici) sono la
prima chiesa costituita (la prima Assemblea dei credenti in assoluto, il primo
nucleo) che inizialmente ebbe la sua sede in Gerusalemme; perciò sono le
fondamenta, alle quali si aggiungono gli altri discepoli. Un edificio si
costruisce ovviamente partendo dalle fondamenta, e la Chiesa nel N.T. è
paragonata ad un tempio che si va edificando, mentre Cristo è la pietra angolare, il capo (Efesini 2,19-22). Troviamo comunque dei casi nei quali alcuni
discepoli diversi dai Dodici sono chiaramente chiamati “apostoli” nel senso dei
“dodici” (ne vedremo uno più avanti).
Tuttavia, nonostante nel N.T. il
significato del termine “apostolo” sia generalmente chiaro e preciso, e
nonostante sia chiaro che i Dodici sono le fondamenta della Chiesa (fuori
metafora: i primi veri cristiani), sulle quali o sui quali poggia l’edificio
del Tempio di Dio, la questione è di fatto molto controversa. A noi, almeno di
primo acchito, in pratica non ci sembra che vi sia differenza sostanziale tra
il concetto di “discepolo” e quello di “apostolo” nel N.T., ad eccezione per
alcuni elementi (l’essere tenuti con sé
da Gesù; la potestà di risuscitare i
morti... e implicitamente il compito di fondare la Chiesa). I sostenitori del
primato di Pietro, cioè i cattolici romani, dicono che gli apostoli sono i
capostipiti degli attuali vescovi...
e dei cardinali; e che in essi, e nei
loro successori, sta
quell’autorità detta, appunto, “apostolica” per la quale possono esplicare ed
esplicano i compiti propri dei Dodici, tra i quali vi sarebbe quello di
eleggere il Papa. Essi sono i testimoni della risurrezione di Cristo e,
aggiungono ancora i cattolici romani, hanno tramandato e tramandano questa
testimonianza ai loro successori, che essi stessi curano di costituire. Ma la
questione è proprio qui, nella successione. E non ci sembra che la teologia
“romana” possa trovare l’avallo nel Nuovo Testamento. Apprendiamo dal “libro”
degli Atti che gli Apostoli,
assolvendo il mandato conferitogli da Gesù (Matteo
10,8), guarivano gli ammalati e risuscitavano i morti (Atti 9,32-43). Gli odierni “successori” degli Apostoli (ammesso che
ce ne siano) guariscono gli ammalati? risuscitano i morti?
3. Regole e limiti temporali per la successione apostolica.
Ci devono essere, ci possono essere, ci
sono legittimi successori dei
Dodici? Vediamo, dunque, se il concetto
di “apostolo” come è affermato dalla chiesa cattolica romana, e soprattutto il
concetto di successione apostolica,
si possono ricavare o no dal N.T. Da quanto abbiamo detto fin qui ci risulta
che gli Apostoli erano, sono e rimangono fondamenta dell’edificio della Chiesa
[da ora in poi quando parleremo degli Apostoli nel significato dei Dodici scriveremo il termine con l’iniziale
maiuscola]. Ma che cosa significa per noi essere e rimanere fondamenta della
Chiesa? Né più e né meno ciò che la metafora suggerisce: sono i primi; le prime pietre,
i primi veri cristiani che sotto la guida del Messia hanno fondato la Chiesa;
di più: sono coloro che sono stati sempre con Gesù durante la vita di
predicazione del Maestro e che hanno ricevuto l’insegnamento direttamente da
lui, e sono stati testimoni della sua risurrezione. Certamente anche tanti
altri hanno avuto l’insegnamento direttamente dal Cristo e sono stati testimoni
della sua risurrezione (per esempio Maria Maddalena, i due discepoli di Emmaus,
ecc.), ma i Dodici sono stati sempre (per tutto il tempo) con Gesù, e sono stati scelti da lui, il quale ne
scelse appunto 12 (Marco 3,13-19). Le
fondamenta di un edificio persistono durante e dopo l’edificazione
dell’edificio; fuori della metafora vuol dire che i veri cristiani, che si
succederanno nel tempo, per essere tali devono avere la stessa fedeltà degli
Apostoli, dei fondatori. I Dodici insomma hanno svolto bene il compito
affidatogli da Gesù, quello di essere suoi collaboratori nella fondazione della
Chiesa, predicando, esortando, operando; con Cristo come capo e vero fondamento
(pietra angolare); hanno seguito le orme del Maestro in modo esemplare, sicché
i discepoli del Cristo di tutti i tempi, se vogliono stare sul loro fondamento,
devono a loro volta seguire le orme di Gesù Cristo, che è la Guida massima,
come ha scritto l’apostolo Pietro: «...a questo siete stati chiamati... onde seguiate le sue orme [di
Cristo]» (1 Pietro 2,21). Gesù
stesso dice: «Io non prego soltanto per
questi [discepoli (Apostoli compresi)],
ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola» (Giovanni 17,20). Perciò Paolo, può dire
agli Efesini: Siete «membri della
famiglia di Dio, essendo stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei
profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare, sulla quale l’edificio
intero, ben collegato insieme, si va innalzando...» (Efesini 2,19-22). Ed ancora: «Noi
cresciamo in ogni cosa verso colui che è il capo, cioè Cristo» (4,15); «Siate miei imitatori, come anch’io lo sono
di Cristo» (1 Corinti 11,1). Ora
è evidente che se gli Apostoli, in quanto primi
credenti chiamati (scelti) da Cristo stesso, avevano l’obiettivo di fondare la
Chiesa, con Gesù e sotto la sua autorevole guida, ed essere un esempio per
tutti, questo compito (quello della fondazione) sarebbe terminato al momento in
cui fosse stato raggiunto lo scopo, e certamente
prima della morte dei Dodici; ed è evidentissimo che l’obiettivo è stato
realizzato. Perciò è plausibile l’ipotesi secondo la quale i credenti della
chiesa primitiva abbiano pensato, più o meno coscientemente (o in modo
inconscio, non importa) all’avvenire dell’evangelo tramandando la parola degli
Apostoli per iscritto, su ispirazione di Cristo, che è l’ispirazione dello
Spirito (2 Corinti 3,17; 2 Pietro 1,21). Nella Sacra Scrittura
leggiamo che Dio spanderà il suo spirito su ogni carne (su ogni uomo): Gioele
2,28; Isaia 44,3; Ezechiele 39,29; Giovanni 7,39; Atti cap.
2. Perciò, l’opera dello Spirito Santo ha un posto molto importante nel Nuovo
Testamento: esso è il Consolatore, l’Ispiratore e la guida del cristiano: Gesù
ha detto che dopo la sua morte e risurrezione Dio lo avrebbe dato a ciascun
credente e a tutti per sempre, è lo Spirito della verità (cfr. Giovanni 14,15-17 e il già citato 2 Pietro 1,21). Possiamo dire, perciò,
che la chiesa primitiva volle far conoscere anche ai posteri, con racconti di prima mano, la meravigliosa storia di questa fondazione, che cioè si
scrivessero i fatti riguardanti la vita esemplare di Gesù e il suo
insegnamento, e la storia dei primi predicatori dell’evangelo e della Chiesa
apostolica (quella del tempo degli Apostoli), e che questi scritti circolassero
tra i credenti, e fossero letti nelle assemblee cristiane, e raccolti,
custoditi e tramandati con amorevole cura, e quindi copiati con grande impegno
e scrupolosa esattezza, e diffusi nelle chiese. Questo significa che lo Spirito
Santo era già all’opera, come aveva promesso Gesù. Questa ipotesi è avvalorata
dal fatto che si accorda con l’esistenza reale degli scritti del Nuovo
Testamento che la chiesa primitiva ha prodotto e che, in copia, sono giunti
fino a noi e che sono considerati dai credenti di ogni tempo “parola di Dio” (come
l’Antico Testamento). Ma questo avveniva appunto, con ogni probabilità, sotto
l’incalzare del fatto che la predicazione dell’evangelo tramite la viva voce degli
Apostoli (cioè dei testimoni oculari ed auricolari scelti da Gesù) sarebbe
ovviamente cessata con la morte degli Apostoli stessi. Certamente, considerati
nel loro insieme, gli scritti neotestamentari non sono sistematici, ognuno dei
quali ha una sua motivazione che ha spinto l’autore a scrivere; e solo pochi
dichiarano esplicitamente di voler raccontare dei fatti riguardanti Gesù e la chiesa primitiva con l’intento
implicito di tramandarli. Tuttavia questo fatto non contraddice lo scopo
centrale, per il quale la Chiesa li ha comunque tramandati fino a noi: far
conoscere agli uomini di tutti i tempi la parola degli Apostoli, cioè di
Cristo. Ne troviamo conferma, per così dire, tra le righe del Nuovo Testamento stesso (e anche dell’Antico),
specialmente dalla lettura dei seguenti testi (da leggere preferibilmente
nell’ordine indicato): Apocalisse 1,11,19;
Esodo 17,14; 24,4; Isaia 30,8; Daniele 5,5; Luca 1,1-4; Atti 1,1-2; Atti 17,11; Romani 15,4;
16,25-26; 2 Timoteo 3,16; Apocalisse 1,3; 1Corinti 10,11; Matteo
24,15; Giovanni 10,35; Ap.lisse 22,18-19.
Da che cosa deduciamo (implicitamente)
che la chiesa primitiva aveva chiaramente presente il fatto che con la morte
degli Apostoli non ci sarebbe stato più il corpo
apostolico e quindi neppure la predicazione dell’evangelo dalla viva voce dei testimoni oculari e
auricolari, fondatori (con Cristo) della Chiesa, cioè di coloro che erano stati
con Gesù? Dobbiamo andare in Atti
1,15-26. La parte centrale di questo brano è la seguente: «”Bisogna dunque che tra gli
uomini che sono stati in nostra compagnia tutto il tempo che il Signore Gesù
visse con noi, a cominciare dal battesimo di Giovanni fino al giorno che egli,
tolto da noi, è stato elevato in cielo, uno diventi testimone con noi della sua
risurrezione”. Essi ne presentarono
due: Giuseppe, detto Barsabba, che era soprannominato Giusto, e Mattia... La
sorte cadde su Mattia, che fu incluso tra gli undici apostoli [che in tal modo
ritornarono ad essere dodici]».
Da questo brano apprendiamo almeno tre
fatti essenziali: 1) che a stare
sempre con Gesù tutto il tempo ch’egli visse fino alla risurrezione, oltre ai
Dodici discepoli, ve ne furono altri
(un numero imprecisato), che ovviamente stavano con lui spontaneamente e per
loro iniziativa, dato che Gesù ne aveva scelti soltanto dodici. 2) Che questi altri erano considerati vicini al modo di essere dei Dodici, ma non
proprio come i Dodici. 3) Che, in caso di necessità (per es. il
tradimento e la morte di Giuda), potevano esserci altri Apostoli al modo dei Dodici, ma soltanto a certe condizioni; e le
condizioni erano le seguenti: a) Che
fossero stati in compagnia degli Apostoli (e quindi di Gesù) dal battesimo di
Giovanni fino all’assunzione in cielo del Risorto; b) Che fossero stati diretti
testimoni della risurrezione di Cristo (quest’ultimo punto può considerarsi implicito
nel precedente).
Si trattava di risolvere l’esigenza di
completare il numero degli Apostoli dopo il tradimento e la morte di Giuda
Iscariota, di modo che risultassero ugualmente dodici. E le modalità che gli
Apostoli seguirono per nominare il dodicesimo Apostolo, cioè Mattia, implicano
che essi avevano presente il fatto, ovvio quanto si vuole, che dopo la loro
morte, e dopo la morte di quanti altri avevano seguito Gesù allo stesso modo di
Mattia, non ci sarebbero stati altri apostoli, non ci sarebbero stati altri
testimoni oculari e auricolari. Or
dunque, se era necessario (!) che il candidato all’apostolato avesse ricevuto l’insegnamento direttamente da Gesù per tutto il tempo del ministero terreno del
Maestro, e che avesse altresì visto il Cristo risorto, allora con la morte degli Apostoli, cioè dei
testimoni oculari ed auricolari, di coloro che avevano visto con i propri
occhi e ascoltato e udito con le proprie orecchie, non potevano (e non possono)
esserci nuovi Apostoli (si intende al modo dei Dodici); e, se si vuol
prescindere dal termine “apostolo”, possiamo dire che non potevano e non
possono esserci ministri di Dio aventi una funzione equivalente a quella degli
Apostoli, quella di fondamenta della Chiesa, cioè di testimoni oculari e auricolari35.
Ed è inutile ricorrere – come fanno i cattolici romani – al fatto (o alla
supposizione?) che gli Apostoli avrebbero imposto le mani per la consacrazione
ad un certo numero di credenti che si trovavano nella stessa condizione di
Mattia; che quest’ultimi a loro volta le avrebbero imposte ad altri credenti
che non erano stati con Gesù e non lo avevano visto risorto, e così via per
successione fino ad oggi. L’imposizione delle mani e la consacrazione, non
possono creare “oggi”, in una persona, quella realtà storica di “ieri”, cioè del passato più o meno lontano: se uno non
ha avuto l‘insegnamento direttamente
da Gesù e non ha visto il Risorto,
non sarà l’imposizione delle mani, o qualsiasi altra cosa, a cambiare questa
realtà; non può essere testimone oculare e auricolare, e non può dunque essere
Apostolo o, in caso di necessità, succedere agli Apostoli nella loro propria funzione. Non ci risulta dal N.
T. che gli Apostoli o Paolo o altro ministro dell’evangelo o uno degli autori
del N.T., abbiano o abbia detto o scritto che si sarebbe potuto fare a meno
delle due regole da noi evidenziate qui sopra (quelle che gli Undici hanno
scrupolosamente adottato per l’elezione di Mattia); che cioè sarebbe bastato
istruire il candidato e imporgli le mani. Insomma, il corpo apostolico muore
con la morte degli Apostoli, questo è fuori dubbio, perché l’autenticità e la
legittimità della loro missione è di essere testimoni oculari e auricolari; è
tale colui che ovviamente vede e ode direttamente. Ma l’opera che i Dodici
hanno compiuto con Cristo e per Cristo, non muore, grazie allo Spirito; perché ad operare è Cristo, che è lo Spirito
imperituro (2 Corinti 3,18).
Questa è una conclusione che ci sembra
inattaccabile, ed è tale anche perché ne abbiamo una ulteriore prova
nell’apologia che Paolo fa del suo apostolato,
come vedremo qui di seguito.
4. L’apologia dell’apostolato di Paolo.
Si può dire, senza tema di sbagliare,
che Paolo, e ancor prima di lui la chiesa primitiva, interpretavano come noi la sostanza espressa dai testi biblici
(in particolare Atti 1,15-26) che
abbiamo citato a proposito delle condizioni necessarie per poter essere
consacrati Apostoli; o meglio, noi l’interpretiamo come loro, anche alla luce
di ciò che Paolo ha scritto. Non sappiamo se Saulo, divenuto Paolo, conosceva i
termini della questione proprio sulla base storica
dell’elezione di Mattia. Ma quella era la sostanza della contestazione.
Paolo di Tarso, che come è noto non
faceva parte dei dodici Apostoli, nelle sue epistole si qualifica come Apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio. Nell’uso di quel tempo, la presentazione dell’autore, nel nostro caso di Paolo, era la
prima cosa che si scriveva; seguiva il luogo di destinazione e il nome del
destinatario o dei destinatari dell’epistola. Ora, anche se nelle epistole di
Paolo la presentazione di se stesso non era, ovviamente, costantemente uguale
in tutto, conteneva sempre l’espressione “per
volontà di Dio”, per lo meno in quelle nelle quali l’autore si presenta
come apostolo di Gesù Cristo (quasi
in tutte). È evidente che l’espressione “per
volontà di Dio” ha, per Paolo, una importanza che va al di là della forma.
Per questo, di primo acchito, ci domandiamo se il termine “apostolo” adoperato
da Paolo abbia per lui il significato generico di inviato (da Gesù Cristo); o al contrario, quello di apostolo proprio dei Dodici Apostoli. In
quest’ultimo caso dovremmo chiederci se egli lo applicava a se stesso
legittimamente o meno. La stessa domanda circolava tra i cristiani del suo tempo;
anzi, un gruppo di credenti della Galazia contestava a Paolo il diritto di
autoproclamarsi Apostolo. Certamente si sbagliavano (e lo vedremo qui di
seguito), ma è grazie a questo errore, e alla risposta che Paolo dà, che
possiamo dedurre la validità di quelle regole che abbiamo più sopra esposto.
L’inizio dell’epistola ai Galati presenta meglio questo problema e ne dà la
spiegazione implicita che poi, Paolo, riprende più avanti nell’epistola stessa.
Intanto possiamo qui rilevare questo: che l’opposizione verso l’apostolato di Paolo era indubbiamente
giustificata se si sceglie come base le regole apostoliche che abbiamo
evidenziato, qui sopra, da Atti
1,15-26. Siamo qui di fronte alla prova della validità rigida di quelle regole
che evidenziano che con la morte degli
Apostoli e con la morte di quei discepoli che, come Mattia, erano stati con
Gesù (pur non essendo Apostoli) e lo avevano visto risorto, non è più possibile
scegliere e nominare nuovi Apostoli, cioè nuovi discepoli fondatori (nella
metafora: “fondamenta”) della Chiesa che siano quindi testimoni oculari e
auricolari. Abbiamo detto che tutti i discepoli sono “inviati” (apostoli).
E per diventare discepoli (cioè inviati)
bisogna credere che Gesù di Nazareth è il Cristo, il Figliuolo del Dio vivente.
In questo senso non è necessaria l’imposizione delle mani, semmai è necessario
il battesimo. Mentre per essere Apostoli nel senso dei Dodici è necessario essere testimoni oculari ed
auricolari: testimoni diretti per
essere stati sempre con Gesù per tutto il suo ministero e per averlo visto
risorto; e solo in questo caso può essere fatta l’imposizione delle mani.
Dunque, sono questi gli elementi della contestazione. È su questa base che
viene contestato il diritto di Paolo a presentarsi come apostolo di Gesù
Cristo. E dunque, quella è la base per poter essere “apostolo”. Lo si deduce
chiaramente dalla stessa difesa che Saulo di Tarso fa del suo apostolato. Paolo
ha visto Gesù? Ha avuto l’insegnamento direttamente da lui? Lo ha visto
risorto? Se la risposta è “no”, non può essere Apostolo. Se la risposta è “sì”,
può essere Apostolo.
Ecco l’inizio dell’epistola ai Galati: «Paolo, apostolo non da parte di uomini né per mezzo di un uomo, ma per
mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti...». Ed
ecco l’inizio della 1a epistola ai
Corinzi (che è la forma che troviamo in quasi tutte le epistole paoline): «Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo
Gesù per volontà di Dio...». Dunque, Paolo dichiara di essere apostolo non
da parte di uomini, né per mezzo di un uomo; cioè non per volontà umana, ma per volontà divina.
Di primo acchito, da questi testi,
sembra risultare che si possa essere Apostoli comunque (senza regole?), anche per volontà umana, in quanto
consacrati da uomini, per loro mezzo. Infatti, Paolo dice che lui
non è stato nominato o consacrato Apostolo tramite un uomo. Dunque,
implicitamente, sembra voler dire che altri sarebbero stati nominati Apostoli
(legittimamente o no?), tramite gli uomini. E questo è vero (e legittimo)
almeno nel caso di Mattia, fatta salva l’ispirazione dello Spirito. In effetti
egli intende dire che è stato consacrato Apostolo da Cristo stesso (è suo
diretto Inviato) per volontà di Dio, ma che ciò
non è avvenuto in fragranza delle regole che stabiliscono le condizioni necessarie per essere consacrati
Apostoli; e che perciò anche nel suo caso (almeno nel suo caso), la scelta
(e la consacrazione) è avvenuta secondo le regole apostoliche: egli ha avuto l’insegnamento direttamente da
Gesù, e ha visto il Cristo risorto; è testimone oculare ed auricolare. In
tal modo egli, pur sui generis,
legittima quelle regole e, implicitamente, nega che vi possano essere Apostoli
nominati o consacrati fuori da quelle. Se così non fosse, l’apostolo di certo
avrebbe detto soltanto che egli era apostolo per volontà di Dio. Invece scrive
una epistola anche per spiegare la legittimità della sua consacrazione
apostolica; la quale è legittima – dice Paolo, in sostanza e implicitamente –
non soltanto perché ciò è avvenuto per mezzo di Gesù Cristo e per volontà di
Dio (il che sarebbe più che sufficiente, come infatti è), ma anche perché è avvenuta sulla base delle condizioni
necessarie richieste al credente per poter essere Apostolo. Condizioni
temporanee, indubbiamente, destinate a cessare con la morte dei testimoni
oculari e auricolari,
specialmente dopo l’elezione di Mattia [«dodici e non più di dodici»], perché con il raggiungimento dello scopo
era destinata a cessare la loro propria funzione.
L’apologia di Paolo, infatti, è basata sul fatto che egli [primo elemento] ha
visto il risorto (almeno una volta), sulla via di Damasco, a seguito del quale
rimase quasi cieco per un certo tempo; un fatto che grazie al racconto del
Nuovo Testamento è oggi noto a tutti, è ciò che ha determinato la conversione
di Saulo-Paolo. Abbiamo in Atti cap.
9 un racconto dettagliato di questa conversione. Ad un certo punto è detto che
il Signore – dopo essere apparso a Saulo – manda un discepolo, di nome Anania,
in suo soccorso con queste parole: «Va’,
perché egli è uno strumento che ho scelto
per portare il mio nome davanti ai popoli...» (v. 15). Questa è già una
consacrazione apostolica. Paolo stesso – in 1
Corinti 9,1 – parlando di se stesso dice: «Non sono libero? Non sono apostolo? Non ho veduto Gesù [risorto],
il nostro Signore?». E più avanti dice: «[il Cristo risorto] apparve a Cefa, poi ai dodici. Poi apparve a più
di cinquecento fratelli [condiscepoli] in una volta, dei quali la maggior parte
rimane ancora in vita e alcuni sono morti. Poi apparve a Giacomo, poi a tutti
gli apostoli [a tutti gli “inviati”, ai discepoli]; e, ultimo di tutti, apparve anche a me...» (15,5-8).
Dunque, Paolo ha visto il Risorto, e questa è una delle due condizioni per
essere legittimamente Apostolo. Probabilmente lo ha visto pure allorché
ricevette l’insegnamento da Cristo stesso, dal Signore risorto. «Vi dichiaro, fratelli, – dice ai Galati
– che il vangelo da me annunziato non è
opera d’uomo; perché io stesso non l’ho ricevuto né l’ho imparato da un uomo
[qualsiasi], ma l’ho ricevuto per rivelazione (ἀποκαλύψεως) di Gesù Cristo» (Galati 1,11-12). Questa rivelazione [secondo elemento] l’ha avuta
in Arabia, probabilmente nel deserto, dove si era recato poco dopo
l’apparizione di Cristo Gesù sulla via di Damasco. A seguito dell’apparizione
di Gesù, dice Paolo, «Io non mi
consigliai con nessun uomo, né salii a Gerusalemme da quelli che erano stati
apostoli prima di me, ma me ne andai subito in Arabia...» (1,16-17); perché
«Dio m’aveva prescelto fin dal seno di
mia madre» (v. 15). Solo quando erano passati almeno diciotto anni
[1,18,21;2,1, e il contesto] dal- l’entusiasmante apparizione di Cristo, Paolo
vide per la prima volta tre (o due?) Apostoli: «Giacomo, Cefa e Giovanni, che sono reputati colonne, [i quali] diedero
a me e a Barnaba la mano in segno di comunione perché andassimo noi agli
stranieri [ai Gentili], ed essi ai circoncisi [ai Giudei]» (Galati 2,9). All’apparizione di Cristo
avuta in Arabia, l’apostolo vi allude forse anche in 1 Corinti 12,2-4, là dove dice di se stesso: «Conosco un uomo in Cristo che quattordici anni fa… fu rapito fino al terzo
cielo… e udì parole ineffabili che
non è lecito all’uomo di pronunziare...». Cosicché, da 1 Corinti, da Galati, e
soprattutto dagli Atti apprendiamo
che Paolo vede il Cristo risorto e riceve altresì l’insegnamento del vangelo direttamente dal Maestro, è testimone oculare ed auricolare; con il che si
evidenzia anche la seconda condizione per essere Apostolo legittimamente. La
difesa che Paolo fa del suo apostolato è la prova che nessuno poteva (e può)
essere Apostolo fuori delle regole che abbiamo sopra evidenziato e discusso. Se
ne deduce pertanto che gli Apostoli non possono avere successori in senso
teologico che non siano testimoni diretti oculari ed auricolari. Se,
per ipotesi, qualcuno dice di essere Apostolo, dovrà rispondere a due domande
precise: Hai ricevuto l’insegnamento direttamente
da Gesù? Hai visto con i tuoi occhi il Risorto? Se la risposta è negativa, non
può essere propriamente Apostolo. Al
massimo potrebbe essere un successore degli Apostoli in senso cronologico, ma non in senso teologico.
Stando semplicemente all’apologia che
Paolo fa del suo apostolato, rimane ancora senza risposta esplicita il quesito
“se gli Apostoli potevano essere più di
12 oppure no”. Vale a dire, se il numero degli Apostoli si debba
considerare soltanto simbolico; oppure letterale e “chiuso”: dodici e non più
di dodici. Se si ammette che Paolo era un Apostolo esattamente come i Dodici,
allora il numero si dovrebbe considerare “aperto”; ma di norma o come
eccezione? Molto probabilmente (e in base a quanto abbiamo già detto e a quanto
diremo) come eccezione, se si considera che Paolo fu “appartato da Dio” fin
dal seno materno per essere
Apostolo, come egli stesso ha scritto e come vedremo qui appresso, e
considerato altresì che di nessun altro possiamo dire che fu (o che è) “appartato da Dio” fin dal seno materno per essere aggiunto
agli Apostoli. In ogni caso resta valido e confermato il principio che un
Apostolo per essere tale deve essere testimone oculare e
auricolare. Paolo lo era.
5. Il primato apostolico di Paolo.
Ma soprattutto spiccano in lui alcune
caratteristiche (una in particolare) che non soltanto lo fanno vero Apostolo di
Gesù Cristo (come abbiamo già visto), ma lo fanno anche vero profeta di Dio al modo dei grandi
profeti dell’Antico Testamento. Pensiamo soprattutto alla caratteristica che è
costituita dal fatto esplicito che
Iddio lo aveva appartato fin dal seno di sua madre perché annunciasse alle
genti il Messia Gesù venuto, morto e risorto.
Il Cristianesimo, sin dalle origini,
sin dalla predicazione di Cristo, aveva in se stesso tutti gli elementi
necessari per divenire propriamente una religione universale. Le sue radici,
che affondavano nell’ebraismo, avevano già dato rami che si protendevano verso
il mondo. Ora bisognava che dessero anche i frutti. Ma gli elementi
universalistici della nuova fede rimanevano molto sopiti in essa, fino alla
risurrezione di Cristo, ed anche un po’ più in là. I predicatori dell’evangelo
erano restii a rivolgersi alle genti; tanto che il proposito di Pietro,
manifestato a seguito di una visione (Atti
cap. 10 ss.), di predicare l’evangelo anche ai Gentili, non ebbe inizialmente
una grande accoglienza, finché non sopraggiunse, provvidenzialmente, l’attività
evangelistica di Paolo. Possiamo immaginare il Cristianesimo come una setta
chiusa nell’ambito del Giudaismo? E forse tale sarebbe divenuto, e rimasto,
senza Paolo, sostenitore della predicazione dell’evangelo a tutti i popoli.
L’Apostolo Paolo è il più convinto
assertore della predicazione dell’evangelo alle genti (senza però escludere gli
Ebrei), e dichiara esplicitamente che Dio lo ha appartato a questo compito sin
dal seno di sua madre: «Iddio – dice
l’Apostolo – che m’aveva appartato fin
dal seno di mia madre... si compiacque di rivelare in me il suo Figliuolo [il
Messia] perch’io lo annunziassi fra i Gentili...» (Galati 1,15-16). Ora, nella Sacra Scrittura si parla della
preconoscenza di Dio quando si vuol mettere l’accento su qualcosa di
straordinario, su qualcosa che non accade per caso (ammesso che qualcosa possa
accadere per caso) ma per volere di Dio, come può essere il fatto di un grande
profeta che ha da svolgere un compito importantissimo nel nome di Jhwh (Geremia 1,4). Oppure quando si tratta
della salvezza di Israele (Romani
11,2 trad. Diodati, Luzzi, King James, gr. προέγνω), o di quella dei fedeli
credenti (Romani 8,29-30). A questi
casi appartiene quello del profeta Geremia. Il quale scrive: «La parola dell’Iddio mi fu rivolta,
dicendo: Prima ch’io ti avessi formato nel seno di tua madre, io t’ho
conosciuto; e prima che tu uscissi dal suo seno, io t’ho consacrato e t’ho
costituito profeta delle nazioni» (Geremia
1,4-5). Ѐ la stessa cosa anche per Paolo: è appartato (e perciò conosciuto) da
Dio sin dal seno della madre ed è consacrato Apostolo delle nazioni prima della
nascita. Di quale fra gli Apostoli si dice questo nel Nuovo Testamento? Di
nessuno. Paolo è stato scelto da Dio ancor prima di nascere. I Dodici
sono stati scelti da Gesù, e quando erano adulti da tempo. Dunque, se c’è un
Apostolo che potrebbe vantare il privilegio di possedere le qualità per essere,
non diciamo vicario di Cristo, bensì capo degli Apostoli (di quei Dodici),
questo è Paolo e non Pietro, né nessun altro. Ma dagli studi approfonditi del Nuovo
Testamento apprendiamo che non c’è stato e non c’è nessun capo degli Apostoli nel senso comune del termine, né tanto meno un vicario di Gesù Cristo. Tuttavia
sentiamo di dover insistere sull’argomento, se non altro come ipotesi, ma non
su basi storiche; piuttosto sulla base di un primato morale, appunto, che
avrebbe potuto determinare, in Paolo, l’iniziativa per una conduzione dell’attività
degli Apostoli nell’ultima parte della sua vita. Se ci fosse stato un primato morale personale in seno alla chiesa primitiva, questo
non avrebbe potuto essere che di Paolo, e non soltanto per le considerazioni
che abbiamo fatto qui sopra.
Abbiamo già difeso ed evidenziato la
validità dell’apostolato di Paolo: egli è vero Apostolo, come i Dodici, ma
abbiamo avvertito che i motivi che Paolo stesso porta in sua difesa sono sui generis. Naturalmente non vogliamo
demolire ciò che abbiamo costruito, vogliamo invece affermare che le ragioni
che Paolo porta in sua difesa non soltanto sono sostanzialmente in conformità
alle regole per essere o per essere nominati Apostoli, ma sono ad un livello
superiore, come abbiamo già osservato. E il livello superiore sminuisce quello
inferiore, perché lo contiene pienamente sotto altra forma. Infatti, il primo
punto, la prima regola, è: che il
discepolo sia stato in compagnia degli Apostoli (e quindi di Gesù) dal
battesimo di Giovanni fino all’assunzione in cielo del Risorto. Ma Paolo
non è stato in compagnia degli Apostoli e di Gesù per tutto quel tempo; anzi
non vi è stato affatto in quel tempo. Ha conosciuto da vicino almeno alcuni
degli apostoli (collaborando con loro) nel periodo più maturo della loro
predicazione. Ha ricevuto il vangelo direttamente da Cristo, ma da Cristo
risorto; non è stato con lui quando predicava per le contrade della Palestina,
per tutto il tempo (a quell’epoca, forse, non era ancora nato o era un ragazzino;
e alla lapidazione di Stefano era ancora all’inizio del suo atteggiamento
ostile verso i seguaci di Gesù; la sua conversione era di là da venire). Perciò
mancando la lettera a sostegno del
primo punto delle regole, Paolo non potrebbe essere Apostolo. Sennonché, egli è
stato scelto da Dio ad essere Apostolo, e forse ancor prima che i Dodici
fossero scelti da Cristo. Gesù appare a Paolo e lo istruisce in merito al
vangelo che deve predicare a tutte le genti. E dove c’è il “maggiore”, il
“minore” cessa. D’altra parte, le regole dell’agire umano, anche nella
religione, non possono limitare la sovranità delle iniziative di Dio in
attuazione dei suoi progetti. Pertanto, Paolo è un Apostolo come i Dodici
(seppure sui generis), ma è anche e
soprattutto un profeta del livello di Geremia, conosciuto da Dio e appartato al
compito di profeta sin dal seno di sua madre. Profeta è anche il Giovanni
autore dell’Apocalisse, a cui Gesù
risorto fa conoscere la rivelazione che Dio ha fatto a Gesù stesso; ma di lui
non si dice che è consacrato prima che nascesse. In senso generico profeti sono
anche gli altri apostoli; profeta è chiunque ha ricevuto da Dio il compito di
parlare al suo posto, nel suo nome (colui
che parla al posto di un altro). Ma solo di Paolo si dice, nel Nuovo
Testamento, che è appartato e consacrato sin dal seno di sua madre. E questo
primato ci sembra più che sufficiente per affermare che Paolo avrebbe potuto
essere il capo degli Apostoli. Un primato che comunque sarebbe cessato con la
morte di Paolo stesso. Non vi è dubbio che il primato morale è di Paolo, e ciò
appare più evidente verso la fine della sua carriera di Apostolo, quando Paolo
stesso può tirare le somme della sua vita, e noi oggi possiamo valutare in
pieno l’opera di questo gigante della fede attraverso la lettura del Nuovo
Testamento e soprattutto delle sue epistole. Scrive: «Quanto a me io sto per essere offerto a mo’ di libazione, e il tempo
della mia dipartenza è giunto. Io ho combattuto il buon combattimento, ho
finito la corsa, ho serbata la fede; del rimanente mi è riservata la corona di
giustizia che il Signore [Gesù], il giusto giudice, mi assegnerà in quel
giorno; e non solo a me, ma anche a tutti quelli che avranno amato la sua
apparizione (ἐπιφάνειαν)» (2 Timoteo 4,6-8).
6. L’imposizione delle mani.
Il significato dell’imporre le mani
risale alle credenze in uso presso antiche culture. Si pensava che la potenza
dell’uomo risiedesse nelle sue mani. In effetti vi è qualcosa di vero in
questo; le mani sono una delle tre caratteristiche che, considerate in un tutto, costituiscono una parte importante di ciò
che fa la differenza tra l’uomo e gli altri animali, cioè: l’intelligenza, la parola e, appunto, le mani. Esse sono
determinanti per il progresso dell’umanità. Ma nei popoli antichi era errata la
credenza secondo la quale la potenza che risiede nelle mani dell’uomo [ma che genere di potenza?] si potesse
comunicare agli altri per contatto, per l’appunto mediante l’imposizione delle
mani. Nell’Antico Testamento l’usanza di imporre le mani riguardava varie
occasioni, ma soprattutto si praticava per la benedizione (Genesi 48,14 e ss.). Anche Gesù la praticava (Marco 10,16 e testi par.). Invece sono pochi i casi in cui si
praticava per conferire un potere civile o religioso. Nel N.T. sono abbastanza
numerosi i casi in cui si impongono le mani per il dono dello Spirito Santo o
per le guarigioni, ma pochissimi quelli per eleggere dei credenti a un ufficio
religioso. In tutti i casi, sia nell’Antico che nel N.T., è da escludere che si
possa alludere ad una concezione magica, a un potere consistente nella capacità
(sia pur concessa da Dio, miracolosamente)
di comunicare, al soggetto sottoposto all’imposizione delle mani, una realtà misteriosa, materiale o
immateriale. E si esclude altresì che
l’imposizione delle mani, come risulta dal N.T., possa conferire al soggetto al
quale si impongono, la condizione propria dell’Apostolo di Gesù anche quando questa condizione non c’è di
fatto, la quale deve essere essenzialmente e tautologicamente del testimone di genere oculare ed auricolare, che testimonia di ciò che ha
effettivamente visto e udito. Perciò, non abbiamo la garanzia che la parola del
“nuovo” apostolo, che non ha né visto né udito, potrebbe provenire da Cristo,
come se fosse pronunciata dalla bocca di uno dei dodici Apostoli, Mattia compreso. Non si può trasmettere al [vero o
presunto] successore degli Apostoli una determinata azione, quella di vedere e
udire Cristo. “Vedere” e “udire” sono
propri della persona individuale, propri di ciascun individuo per sé,
specialmente se concernono una testimonianza.
Né la formazione (o istruzione) del
soggetto “candidato apostolo” può aggiungere qualcosa all’imposizione delle
mani che risulti capace di rendere il candidato testimone essenzialmente oculare ed auricolare. La formazione (o come dicono
i cattolici romani: la costituzione)
potrà fare del candidato un ministro di Dio, un predicatore del vangelo ben
preparato, un carismatico anziano di
chiesa, un vescovo (o pastore), od anche semplicemente un sincero credente, ma
non un testimone oculare e auricolare, salvo che non sia già e propriamente un testimone oculare e
auricolare come lo era Mattia. E dunque, in ogni caso, non può essere o divenire
Apostolo, perché Apostolo può essere il testimone oculare e auricolare. Se
consideriamo i termini “predecessore” e “successore” soltanto nel loro
significato cronologico, si potrà fare l’ipotesi plausibile che, nella chiesa
primitiva, il successore (che non
fosse testimone oculare ed auricolare) accettava sulla parola ciò che
affermava il predecessore (accettava
la sua testimonianza), sicché diventava un credente
per il quale Cristo prega, secondo la stessa promessa del Salvatore: «Io non prego soltanto per questi [qui
presenti], ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola»
(Giovanni. 17,20), cioè della parola
dei Dodici e di quanti altri hanno visto e udito il Signore, vale a
dire dei discepoli. Non si potrà affermare che chi ascolta la parola del
vangelo possa divenire testimone oculare
e auricolare di Cristo per il fatto
(e se) a porgere quella parola è un Apostolo o, a maggior ragione, se è un
successore storico (o semplicemente e
tautologicamente cronologico) degli Apostoli, che avrebbe
l’intenzione di trasmettere il suo proprio apostolato [?] imponendo le mani al
candidato. Quando Cristo parla di coloro che crederanno grazie alla parola dei
predicatori del vangelo, si riferisce ovviamente ai discepoli, e quindi anche agli Apostoli in quanto discepoli,
e ai loro successori in senso cronologico,
e non nel senso di testimoni oculari
e auricolari tramite i Dodici testimoni diretti
oculari e auricolari; perché l’udire
e il vedere non si trasmettono ai
successori, i quali perciò sono tali (cioè successori) solo in senso
cronologico o temporale e non nel senso di testimoni
diretti. Se escludiamo i Dodici e gli altri predicatori loro contemporanei,
e se escludiamo altresì i loro successori immediati,
tutti gli altri predicatori del vangelo sono successori cronologici, e
trasmettono la fede degli Apostoli
che essi stessi hanno appreso da altri predicatori, ma che hanno accettato tramite l’avallo dei sacri scritti. Il Vangelo di Giovanni dal quale è tratto il
versetto qui sopra citato — come abbiamo già detto — non parla mai di Apostoli.
Tutti i discepoli sono “apostoli” nel primo significato (che abbiamo precisato
più sopra), perché tutti sono mandati a
predicare il Regno di Dio. Anzi, in questa circostanza Gesù non soltanto non li
chiama “apostoli”, ma non li chiama neppure “discepoli”; li chiama precisamente
“uomini”, Giovanni 17,6: «Ephanérōsá
sou tò ὄnoma toîs ẚnthrōpois oȕs
édōkás moi ẻk toû kósmou… Io ho
manifestato il tuo nome [cioè “Padre”] agli uomini
che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi e tu me li hai dati.».
Il Salvatore si riferisce a tutti i credenti che hanno ascoltato e accettato la
sua parola, e ai futuri credenti che l’ascolteranno e l’accetteranno dai
discepoli, perché tutti gli uomini credenti sono “apostoli” cioè mandati; è sufficiente leggere il
contesto (almeno i capitoli 16 e 17). Nessuno può avere il monopolio della
predicazione del vangelo di Cristo, talché se coloro che hanno avuto un mandato specifico dalla comunità
cristiana a predicare si rifiutassero di farlo, altri predicatori, per così
dire non ufficiali, per ispirazione dello Spirito, prenderebbero il loro posto
(Marco 9,38-40; Luca 19,40). Ma ogni predicatore deve fondare la sua propria
predicazione sulla testimonianza scritta, perché è l’unica testimonianza che
può qualificare il predicatore del vangelo e la predicazione; la Scrittura (or
sono molti secoli) è la testimonianza accettata da tutti i cristiani, cioè da
tutti i credenti, i quali possono beneficiare della presenza interiore di
Cristo o dello Spirito, cioè del Logos, che è l’Autore delle sacre scritture e la guida del
cristiano.
Spesso sono gli Apostoli a praticare
l’imposizione delle mani (lo fece anche Anania, che non era Apostolo, allorché
andò in soccorso di Paolo [Atti
9,17]; lo faceva Paolo stesso, che non era uno dei Dodici), ma ovviamente non
poteva che essere così: i Dodici erano i principali protagonisti della
predicazione del vangelo, cioè dell’attività missionaria (ma non i soli); erano
pienamente impegnati nella fondazione della Chiesa; per questo obiettivo erano
stati costituiti da Cristo. Ma nessuno fra i predicatori del Vangelo (tutti i
credenti lo erano) aveva in esclusiva il compito di imporre le mani, il quale,
oltre tutto, non era un ordine impartito da Gesù in modo particolarmente e
solennemente esplicito (come si direbbe di un “sacramento”), ma piuttosto una
usanza ereditata dalla cultura ebraica, che i discepoli avevano adottato
certamente sull’esempio del Maestro piuttosto che su un suo ordine particolare
al quale bisognava ubbidire per essere buoni cristiani.
Ricordiamo infine l’episodio della
guarigione del cieco nato, operata da Cristo con le modalità differenti da
quelle che adotteranno i discepoli. Giovanni
riferisce che Gesù «sputò in terra,
fece del fango con la saliva e ne spalmò gli occhi del cieco, e gli disse: Va’,
lavati nella vasca di Siloe (che significa: mandato). Egli dunque andò, si
lavò, e tornò che ci vedeva» (Giovanni
9,6-7). Qui Gesù non ha imposto le mani? Il gesto di imporre le mani è già
assolto nell’atto di spalmare il fango negli occhi del cieco, oppure no?
Sia nell’Antico che nel Nuovo
Testamento il gesto di imporre le mani non comunica nulla di per sé al
soggetto, ma simboleggia ciò che è avvenuto o che sta avvenendo per volere
dell’Onnipotente, vale a dire il dono che Dio conferisce al soggetto al quale
sono imposte le mani, e ciò non può dipendere da un gesto umano, sia pur di un
Apostolo. Il gesto simbolico dell’imposizione delle mani è conseguenza del dono
di Dio e mai il dono di Dio è conseguenza automatica dell’impo-sizione delle
mani (cfr. Atti 8,14-25).
Non è per sostenere il primato di Paolo
(né tanto meno quello di Pietro) che abbiamo scritto questo capitolo in questo
libro. Ma per evidenziare, e qui concludere, che con la morte degli Apostoli e
con la morte dei discepoli che si trovavano nella stessa condizione di Mattia,
non ci sono altri Apostoli, non c’è una successione di credenti che abbiano udito e visto. Gesù non ha scritto nulla. Perciò i convertiti, agli inizi,
credevano sulla parola di Cristo e poi su quella degli Apostoli (i fondatori,
le fondamenta) e di quanti altri avevano visto e udito, ma non trascuravano di
trovare dei riscontri nella Scrittura, nell’Antico Testamento (Atti 17,11). Pure successivamente al periodo apostolico
credevano (e credono) anche grazie
alla parola dei predicatori del vangelo, ma in quanto questa parola, per lo
Spirito Santo, si tramanda sostanzialmente e infallibilmente attraverso i sacri
scritti, che, appunto, sono l’opera dello Spirito per eccellenza, quello
stesso Spirito che Gesù ha promesso di dare a tutti i discepoli di ogni tempo a
partire dalla sua ascensione. Dice Gesù ai
discepoli: «Il Consolatore, lo
Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e
vi rammenterà tutto quello che v’ho detto» (Giovanni 14,26). E l’Apostolo Paolo, scrivendo ai cristiani di
Corinto dice: «Non sapete... che lo
Spirito di Dio abita in voi?» (1 Corinti
3,16). Così la parola degli Apostoli (vale a dire la parola di Cristo)
giunge fino a noi; gli autori sacri ce
l’hanno tramandata per iscritto: perciò,
parafrasando un’espressione biblica (Ebrei
11,4), possiamo dire che gli Apostoli,
benché morti, parlano ancora. Le loro parole (anche quelle che sono state trascritte) sono parole dello Spirito,
perché sono parole di Cristo, «che è lo
Spirito» (2 Corinti 3,17-18).
Gli scritti contemporanei o posteriori
a quelli del Nuovo Testamento, ma fuori di esso, non possono avere e non hanno
lo stesso valore di quelli neotestamentari (cfr. nota 11).
Non risulta dal Nuovo Testamento che
Gesù o un Apostolo, od anche uno degli autori sacri, abbia detto o scritto che
la formula di consacrazione, o la preghiera, più la formazione morale e
dottrinale, suggellate dall’imposizione delle mani, fossero intese a rendere un
discepolo testimone reale, auricolare
e oculare, di Gesù; vale a dire, che avrebbero reso il soggetto udente
l’insegnamento da Cristo (durante la sua vita terrena?) e vedente il Maestro
risorto, anche quando realmente non
l’aveva né udito né visto. Neppure risulta che fossero definite come ciò che
rendeva il soggetto propriamente vedente e udente gli Apostoli, cioè coloro che
avevano visto e udito Gesù; sicché, per questo, qualcuno si potrebbe
sentire in diritto di affermare che il soggetto al quale sono state imposte le
mani potrebbe a sua volta insegnare con autorità (e infallibilmente?) la parola
degli Apostoli (che è la parola di
Cristo). Insomma, in generale, se ci sono stati e ci sono ancora effettivamente
successori degli Apostoli, cioè storicamente, questo fatto non è accaduto e non
accade sulla base di un ordine impartito da Cristo e di una normativa da lui
stabilita, e non ci garantisce che essi (i cosiddetti successori storici)
abbiano trasmesso e trasmettano la parola dei Dodici (e quindi la parola di
Gesù Cristo) con fedeltà, nonostante l’imposizione delle mani. La regola che qui sopra abbiamo dedotto dal
Nuovo Testamento è regola pronunciata dalla bocca degli stessi Apostoli, dai diretti
testimoni oculari e auricolari di Cristo. Mentre i testimoni dei testimoni, dei
testimoni, dei testimoni... ecc. non
sono veri testimoni oculari ed auricolari, e quindi non sono veri Apostoli. Il caso di Mattia è
regolare ed emblematico proprio perché rientra nella categoria di coloro che
avevano effettivamente udito Gesù e
visto il Risorto come l’avevano udito e
visto gli Apostoli (e per questo fu scelto a sostituire Giuda Iscariota, ma
non a succedergli); e tuttavia per
Mattia ci fu la preghiera e l’invocazione dello Spirito Santo; quindi tirarono
a sorte (dato che i candidati erano due) e, dice il testo degli Atti, «la sorte cadde su Mattia» (1,26).
Il solo fatto che tra i due presentati (che avrebbero potuto essere anche più
di due: cfr v. 21) ne scelsero solo uno, mostra che lo scopo era quello di
completare il numero dei Dodici (ciò, del resto, risulta con molta chiarezza dalla
lettura del testo) e non quello di perpetuare indefinitamente una successione
apostolica a catena (ininterrotta!) capace
[?] di garantire la fedeltà della parola degli Apostoli (che è quella di
Cristo) per sempre, fino ad oggi ed oltre; che sarebbe una fedeltà quasi automatica che renderebbe l’opera dello
Spirito Santo pressoché inutile. Questa idea non risulta in nessun luogo della Scrittura, nella quale si
può leggere che la guida e il garante di tutto è lo Spirito Santo, ed esso non
è esclusivo possesso di una categoria di discepoli; è di ogni credente. Paolo
ha scritto che lo Spirito abita particolarmente in ogni individuo che sia
discepolo (1 Corinti 3,16). E dal
N.T. apprendiamo che gli scritti di cui è composto sono opera dello Spirito, e
tali sono accettati da tutti i cristiani. D’altra parte, Mattia non è “successo” a Giuda, non fu
un successore degli Apostoli, bensì fu
fatto Apostolo perché era un testimone oculare ed auricolare come i Dodici
e per completare il numero 12. Gesù non ha mai dato l’ordine di costituire altri Apostoli, sia pur come successori, oltre il numero che lui
stesso ha stabilito.
I dodici Apostoli, compreso Mattia,
sono i fondatori (con a capo Cristo, pietra angolare) della Chiesa; la metafora
dell’edificio al quale la Chiesa è
paragonata nel N.T., dice che gli
Apostoli sono le fondamenta, e dice che le fondamenta sono dodici. E dodici
nomi degli Apostoli (e non migliaia) sono scritti nei dodici fondamenti della
Nuova Gerusalemme nel racconto del veggente di Patmos (Apocalisse 21). Il fatto che nel N.T. si insista sul numero dodici,
a proposito degli Apostoli, potrebbe indicare che soltanto quei dodici sono
Apostoli. Certo si tratta di un numero simbolico, il cui significato in ultima
istanza non può che essere “dodici e non
più di dodici”: alla fine del
mondo, o meglio in quello nuovo, secondo Apocalisse
21 il ricordo eterno dell’opera fondatrice svolta dai Dodici sarà espresso
ancora dalla metafora (se tale è) del numero dodici. I loro nomi saranno
scritti sulle dodici fondamenta del muro della nuova Gerusalemme. Quale altro
significato potrebbe avere questo simbolismo del numero dodici, se non quello
che non possono esserci altri Apostoli oltre quelli? Certamente non sappiamo a
che cosa il simbolismo del numero dodici si possa riferire con precisione. Potremmo ipotizzare che si riferisca alle dodici
tribù di Israele (ipotesi assai plausibile). Ma così non siamo ancora usciti
del tutto dal simbolismo o dalla metafora, perché rimarrebbe ancora da spiegare
quale relazione ci sarebbe tra le dodici tribù e i dodici Apostoli (v. la nota 35, già indicata). Tuttavia, le
dodici tribù erano proprio dodici; così avremmo almeno una indicazione
essenziale, che dovrebbe corrispondere a un numero letterale anche per quanto riguarda
gli Apostoli. E poiché le dodici tribù ovviamente sono rimaste sempre dodici,
non si capirebbe perché gli Apostoli, nella storia della Chiesa e nella storia tout court, dovrebbero essere molti di
più, se Cristo ha stabilito che devono essere proprio dodici. E ciò vale anche
per i vescovi, anzi vale proprio per
i vescovi, se sono intesi secondo la concezione della teologia cattolica romana che
è sostanzialmente diversa da quella che troviamo nel Nuovo Testamento.
Un testimone che non abbia né visto né
udito non può essere testimone oculare e auricolare. Ma un Apostolo deve essere testimone oculare e
auricolare (vero testimone); e così anche un vescovo, se si pretende di equipararlo ad un Apostolo. Dunque, se
in qualche modo ci sono dei “successori” (vescovi o non vescovi) non possono
però essere propriamente Apostoli, perché sarebbero testimoni oculari ed
auricolari che non hanno né visto
né udito (contraddizione
in termini). Se ne deduce che la guida della Chiesa e del cristiano è Cristo
stesso (in modo diretto; senza mediazione: 1
Timoteo 2,5), il quale “parla” nella Scrittura, e interiormente, tramite lo
Spirito, a ciascun uomo e a ciascun credente, ed è realmente presente (seppure
invisibile) là dove due o più cristiani si riuniscono nel suo nome (1 Corinti 2,10; 3,16; Giovanni 14,17,26; Matteo 18,20; cfr. 2 Corinti
3,17-18). Questa realtà esclude che Pietro abbia avuto da Gesù un primato per
il quale sarebbe Capo visibile della Chiesa (vicario di Cristo), lui e i suoi
successori “storici”. Se non possono esserci successori degli Apostoli
(ovviamente nel senso che abbiamo già
spiegato), neanche può esserci un
successore di Pietro Apostolo
(Vescovo o Non-vescovo, Papa o Non-papa).
In ogni caso, manca una dichiarazione
biblica esplicita dalla quale
potremmo apprendere che Cristo avrebbe eletto Pietro (e con esso i suoi successori)
alla funzione di suo Vicario. Risulta invece evidente che nessuno dei testi che
i cattolici romani portano a sostegno della loro tesi afferma implicitamente
(né tanto meno esplicitamente) che Cristo abbia eletto suo vicario Pietro o,
eventualmente, un altro degli apostoli; mentre l’interpretazione basata sull’implicito che i cattolici romani portano
avanti, è certamente assai dubbia. Molte delle cose che Paolo dice nelle sue
epistole sarebbero state una evidente occasione per parlare del Vicario di
Cristo se Cristo ne avesse eletto uno. Ma nelle sue epistole non c’è neppure un
cenno che possa alludere in modo chiaro ed inequivocabile a questa ipotesi, e
neppure alla lontana, e così è in tutto il Nuovo Testamento. Né si può pensare
che la dottrina cosiddetta apostolica
che troviamo nella teologia cattolica romana (codificata nel Catechismo),
particolarmente quella parte che riguarda il cosiddetto primato di Pietro e il
concetto di “apostolo”, sia uno sviluppo di ciò che il Nuovo Testamento già
conterrebbe come principio, perché nulla di ciò contiene il Nuovo Testamento.
Anzi, i testi che sono sotto la nostra attenzione escludono non soltanto la
legittimità degli sviluppi affermati nella teologia cattolica romana, ma anche
semplicemente l’ipotesi che nel Nuovo Testamento vi possano essere dei principî
su cui si potrebbero basare quei cosiddetti sviluppi. In Efesini 4,11-13 troviamo enumerati i ministeri nella Chiesa voluti
da Cristo: apostoli, profeti, evangelisti, pastori, dottori. E il Papa, il Vicario
di Cristo, il Capo visibile della Chiesa? Non se ne parla; è completamente
ignorato, per la semplice ragione che non c’è nessun Vicario di Cristo! Agli
Apostoli non succedono altri
Apostoli, né i vescovi (i pastori), bensì l’Assemblea dei credenti. Non ci sono
veri successori; vale a dire non c’è successione
in senso stretto, come se i successori “storici” fossero essi stessi testimoni
oculari e auricolari. Alla morte degli Apostoli (cioè dei testimoni) la Chiesa
è già fondata, e cessa la successione apostolica, ammesso che ve ne sia stata
una (eccezion fatta per l’elezione di Mattia). Il capo della chiesa (cioè
Cristo, l’Uomo) è realmente in mezzo ai (e nei) credenti tramite lo Spirito; ed
egli è l’unico mediatore fra Dio e gli uomini.
CAPITOLO TERZO.
SULL’AUTENTICITA’ DI MT. 16. OVVERO:
CRITICA DEL TESTO.
Il problema.
Quando, spogliandoci di ogni
preconcetto e di ogni convinzione di fede, cominciamo ad esaminare il testo di Mt. 16 dal punto di vista storico,
meglio ancora dal problema dell’autenticità, anche prescindendo dall’identità
dell’autore, ci imbattiamo subito in numerose difficoltà che ci costringono a
focalizzare l’attenzione soltanto sui punti e sulle questioni essenziali
sufficienti a determinare il giudizio di autenticità o di inautenticità. Faremo
questo. In ogni caso, qui mettiamo da parte il metodo e i presupposti di cui
fin qui ci siamo serviti, nonché tutto ciò che abbiamo puntualizzato, e
finanche le conclusioni a cui siamo giunti, ovviamente sempre dal nostro punto
di vista, per passare a verificare l’autenticità del testo che avevamo
accettato come autentico.
Vi sono motivi di vario genere. Alcuni
di ordine psicologico o intuitivo, altri chiaramente di ordine oggettivo, o
quasi. Per gli uni e per gli altri è necessario un impegno che ci porti a
unificare i vari punti in un tutto logico e conclusivo.
Per primo il motivo psicologico.
Chiunque abbia un bagaglio, anche minimo, di studi neotestamentari e
l’abitudine coltivata almeno per un certo tempo a leggere il N.T., rimane
quanto meno perplesso alla lettura di questo brano di Matteo, se è animato da spirito indipendente. Per un lettore
consumato degli evangeli, è inverosimile che qui, in Mt. 16, Gesù chieda ai suoi discepoli delle informazioni su chi o che cosa sia il Figliuolo dell’Uomo,
anche se vogliamo considerare retoriche quelle domande del Maestro. Si ha
l’impressione che l’autore del Vangelo, o almeno del brano in questione o di
chi avrebbe operato l’aggiunta (se di questo si tratta), per un suo particolare
motivo (quale?) abbia voluto trovare un pretesto per inserire lì,
artificiosamente, un discorso di Gesù
di Nazareth che stentiamo a credere che sia stato pronunciato proprio da Gesù.
Ci domandiamo: perché l’autore ci racconta (v. 13), quasi con l’aria di non
curanza, come per caso, che in quella occasione Gesù e i discepoli si trovavano
a Cesarea di Filippo? Che anche gli altri evangelisti facciano più o meno la
stessa cosa, non muta la nostra domanda. Cosa importa al lettore (o ai posteri)
il luogo geografico nel quale si trovavano in quella circostanza, salvo che il
discorso non abbia per oggetto quel luogo stesso? In questo caso non c’è
nessuna relazione tra il luogo e il tema del discorso. È evidente che qui
l’autore cita un riscontro “storico-temporale” che sembra motivato
dall’esigenza di dare o di aggiungere credibilità al racconto; come se volesse
mettere le mani avanti per prevenire ogni abiezione (“ricordo bene, non mi
sbaglio, eravamo a Cesarea di Filippo…”).
Si dirà: erano in un luogo come in un altro; quel discorso, quelle parole, Gesù
le avrebbe potuto dire in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento, e le ha dette
lì per caso. Tuttavia, di questo non ne siamo molto convinti. Vero è che a
detta di molti studiosi e di molti commentatori il Vangelo di Matteo sarebbe
una raccolta dei detti e dei discorsi di Gesù che l’evangelista
avrebbe raccolto e sistemato in un unico “libro” secondo un suo punto di vista
o secondo i suoi ricordi, e citare luoghi e circostanze potrebbe servire a
collegare in qualche modo i vari episodi.
Ma se si leggono i brani precedenti e i
brani seguenti si ha comunque la sensazione (solo una sensazione, ma chiara e forte) che questo brano sia proprio fuori
posto, messo lì come di qualcosa di estraneo al quale per altro si vuole
assegnare il crisma dell’autenticità. E che dire del Maestro che si informa dai
suoi scolari? Perché Cristo ha bisogno di udire nuovamente dai suoi discepoli
ch’essi credono che egli è il Messia, il Figliuolo dell’Uomo? Questa
professione di fede ciascuno dei discepoli l’aveva già espressa (vuoi
mentalmente vuoi esplicitamente, non importa; comunque per convinzione) al
momento in cui aveva accettato di seguire Gesù; e non aveva mai avuto il
divieto del Maestro di «dire ad alcuno ch’egli era il Cristo». La sequela di Cristo ha come presupposto
essenziale che il seguace di Gesù abbia ovviamente riconosciuto il Maestro come
Messia. Così è infatti.
Ci sono alcuni versetti dei vangeli dai
quali apprendiamo che i seguaci di Gesù (coloro che lo seguivano, sia in senso
letterale, sia in senso metaforico) lo seguivano perché lo avevano accettato
come Figlio di Dio, cioè come Messia, per esplicito o per implicito; e spesso è
Gesù stesso che esorta i credenti a seguirlo. Ne citiamo tre: Giovanni 1,41: «Andrea pel primo trovò il proprio fratello Simone [Pietro] e gli
disse: Abbiamo trovato il Messia (che, interpretato, vuol dire: Cristo) e lo
condusse da Gesù». Marco 1,17-18:
«Gesù disse loro [a Simone e Andrea]:
“Seguitemi, e io farò di voi dei pescatori di uomini”. Essi lasciate subito le
reti lo seguirono». Giovanni 1,45,49: «Filippo
trovò Natanaele, e gli disse: Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto
Mosè nella legge ed i profeti: Gesù figliuolo di Giuseppe, da Nazareth… Natanaele [disse a Gesù]: Maestro, tu sei il
Figliuolo di Dio, tu sei il Re d’Israele».
La considerazione fin qui fatta è di
ordine psicologico e perciò è in buona parte soggettiva, e tuttavia sembra
indicarci una meta. Passiamo allora ad altre considerazioni che ci avviano
ulteriormente verso una più sicura obiettività e in seguito verso una
conclusione oggettiva. Lo faremo consultando in special modo i quattro vangeli,
soprattutto i sinottici, perché la “confessione di Pietro” (e degli Apostoli)
la troviamo anche negli altri vangeli, ma è assai diversa, ed anche più breve,
rispetto a quella contenuta nel vangelo di Matteo.
Il termine chiesa (ἐκκλησία, assemblea)
negli evangeli si trova tre volte, e tutte e tre in Matteo e in due sole occasioni: in 16,18 e in 18,17. Gli altri
evangeli ignorano il termine. Ora considerando che il secondo luogo (18,17) sicuramente si riferisce
alla chiesa già fondata, sorretta da una organizzazione sia pur minima,
certamente quelle parole non furono pronunciate da Gesù, e il testo emana un
forte odore di interpolazione; in via subordinata dobbiamo ammettere almeno che
ha subìto una modifica da parte di uno o più copisti. Il suo parallelo di Luca 17,3 (certamente più antico) non
parla affatto di “chiesa”. Per questo motivo il secondo testo di Matteo non può prendersi a sostegno
dell’esistenza di una chiesa ai tempi della predicazione di Gesù, né tanto meno
per ricavare una definizione della chiesa del Cristo o per stabilirne una
chiara connotazione. In definitiva il termine, nei quattro vangeli, si trova
una sola volta, nella quale però Gesù afferma che fonderà la sua chiesa, mentre non si può dedurre che l’abbia
fondata; se lo ha fatto, non lo ha fatto in quel momento. La chiesa non è stata
fondata a Cesarea di Filippo. Tutto questo ci mette di già in guardia, ci
invita ad approfondire l’argomento. Com’è possibile che ciò che oggi
costituisce la “forma” fondamentale del Cristianesimo sia pressoché assente dagli
evangeli?
Ci domandiamo pertanto: qual è il
significato del termine “ẻkklēsía”? Con questa parola, nelle colonie greche
dell’Asia Minore (VII sec. a.C.) e nella stessa Grecia (VI sec.), si indicava
l’assemblea del popolo, il δῆμος [il popolo che agisce congiuntamente]. Il significato originario
pertanto è politico, indicava l’organo deliberativo in una democrazia. Ora,
sebbene questo significato abbia qualche analogia (sia pur alla lontana) con le
sinagoghe dell’età apostolica, e queste a loro volta qualche analogia
(ugualmente alla lontana) con la chiesa come noi la pensiamo oggi, sicuramente
il termine “ẻkklēsía” che troviamo in Mt.
16 non può avere formalmente lo stesso identico significato che aveva
nell’antica Grecia, né tanto meno esattamente quello che ha per i cristiani di
oggi. L’ẻkklēsía, qui (in Mt. 16), ma
anche in altri ambiti delle origini cristiane, a partire dal N.T., non è la
sinagoga, non è l’assemblea del popolo dell’antica Grecia, non è la chiesa di
oggi (o le chiese, le confessioni, le denominazioni), e soprattutto non
corrisponde alla concezione che se ne ha nella teologia cattolica romana per la
quale a noi ci risulta diversa.
Gesù e gli apostoli parlavano aramaico
e non greco. Ora sembra provato che è possibile che Gesù abbia pronunciato in
aramaico un termine in qualche misura equivalente al termine assemblea. Affermazione che ci sentiamo
di condividere. Per il significato nell’ambito delle origini cristiane in
generale, il termine non fu ricavato direttamente dalla democrazia greca, ma
dall’Antico Testamento nella traduzione greca detta dei LXX, dove leggiamo l’espressione: assemblea [congrega- zione, adunanza] «del Signore» (Deuteronomio 9,10; 18,16; 23,2 ss.; 1 Re 8,65; Michea 2,5); e
dove «Signore» è sostitutivo del nome di Dio [JHWH] la cui pronuncia potrebbe
essere sia Jheovah (o Geova) e sia Yahweh (o Iahvéh) a seconda della scuola di appartenenza dei biblisti che
ce la propongono: quella di origine tedesca che ha scelto soprattutto Jheovah,
e quella di origine statunitense che ha scelto soprattutto Yahweh. In ogni
caso, sia per Gesù che per gli altri ambiti del N.T., il concetto di popolo (almeno questo, ma qui “popolo di
Dio”) è contenuto in ogni accezione del termine “chiesa”, e risale
implicitamente alla cultura dell’antica Grecia.
Che cosa, dunque, si proponeva Cristo
di fondare o di radunare, più precisamente? Il popolo di Dio? C’era già. Il
popolo di Israele era il popolo di Dio. Se ci riferiamo alla lingua di Gesù, è
quasi sicuro ch’egli abbia parlato di Keništaʹ,
che è un termine che indica sia una comunità giudaica locale, e sia il “resto messianico”, nel senso del «resto
messianico d’Israele» al quale, secondo la tradizione ebraica, si unirebbero
anche i pagani. Insomma, quando Gesù parla di “chiesa” sta parlando del resto
messianico, che non ha nulla a che vedere con la chiesa come la intendiamo
oggi. Tuttavia, anche se il concetto di Keništaʹ
non ha quasi nulla della chiesa di oggi, possiamo ammettere ch’esso possa
rappresentare un inizio, un principio che attende dei legittimi sviluppi, cosa
che prenderà il via alla “risurrezione” di Cristo; e saranno sviluppi (anche
quelli!) che poco avranno a che vedere con la concezione della chiesa che si è andata determinando pressappoco dalla
seconda metà del primo secolo e in quelli successivi; e soprattutto nulla hanno
a che vedere con i pretesi “sviluppi” che troviamo oggi nella teologia
cattolica romana. Il resto messianico
è il popolo del Messia, ed il Messia è Gesù di Nazareth. Perciò il “resto” di
cui egli parla è il “suo resto”, «la mia chiesa». E perciò era naturale che alla risurrezione del Messia
subentrasse una più numerosa e più chiara realtà della Keništaʹ di Gesù, che questa prendesse coscienza di sé e dei suoi
compiti e provvedesse quindi a darsi un minimo di organizzazione che fosse
conforme ai principȋ della predicazione di Cristo. Così è stato. Ma, tuttavia,
siamo ancora lontani, anzi lontanissimi, dalla concezione di “chiesa” che
abbiamo oggi.
Inoltre, il concetto di “resto
messianico” nel linguaggio di Gesù, nei vangeli, ha il suo equivalente
nell’altra espressione da lui adoperata, dove la parola “resto” richiama alla
mente la parola “piccolo”: è l’espressione “piccolo
gregge” o semplicemente “il gregge”.
E quest’ultima ci sembra la metafora più adatta a connotare l’idea nazarena di
chiesa, o meglio di Keništaʹ: Matteo 26,23; Luca 12,32, ecc. Il “gregge” è il «popolo (o l’assemblea) di Dio».
Questa metafora, o questo concetto
forte e ricco di varie implicazioni, determinerà l’ufficio più importante nello “sviluppo” della chiesa a partire
dalla risurrezione di Cristo, o poco dopo: è il “ministero” di vescovo
(pastore = ποιμαίνω, pastore di pecore, colui che ha cura del gregge) che
i credenti della chiesa primitiva istituiranno a sostegno delle comunità
cristiane accanto a quello di “presbýtero” (anziano), facendone derivare
l’idea, a ragione, da Cristo stesso.
Ma si badi bene: il vescovo, il pastore
(il guardiano e protettore del gregge), è generalmente un successore
cronologico degli Apostoli, ma non lo è
propriamente nel senso affermato dalla teologia cattolica romana; può
ereditare dagli Apostoli il carisma (come i presbiteri) ma non può ereditare la
funzione di fondatore della Chiesa con Cristo e di testimone oculare ed auricolare. La funzione propria degli Apostoli
cessa con la morte degli Apostoli stessi (cfr. cap. II). Il pastore non è
neppure un sacerdote (o almeno non lo era inizialmente, e per un bel po’ di
tempo): non ci sono sacerdoti nella chiesa di Dio, tranne Cristo. Forse,
inizialmente, qualcuno dei pastori apparteneva alla cerchia di coloro che, come
Mattia, avevano visto e udito. Ma gli
altri, nel tempo, fino ad oggi, non hanno né visto né udito: non sono Apostoli.
Alle origini, il pastore (o vescovo) è
l’emanazione della chiesa locale, quella di cui è guardiano; la quale è il
corpo di Cristo, come lo è la chiesa universale. Il pastore è l’espressione
della fede dei credenti guidati dallo spirito di Cristo. Non è il pastore a
dare realtà e legittimità alla chiesa; al contrario, è la chiesa guidata dallo
Spirito a legittimare il pastore. I credenti, riuniti in Assemblea, dal basso,
possono destituire il pastore se diviene indegno.
Per questo in molte confessioni
protestanti di ieri e di oggi il pastore è eletto dalla chiesa locale, ne è
l’espressione, ma allo stesso tempo è il guardiano di quella fede che la chiesa
esprime. Non è il rappresentante di Cristo (o almeno non lo è più di quanto lo
siano gli altri cristiani), ma della chiesa nel suo insieme, che è il corpo di
Cristo. Comunque sia, ritornando al nostro discorso, poiché Gesù parla di
“piccolo gregge” se ne deduce che deve esserci un pastore: Gesù è il Pastore;
ma non un pastore eletto dalla Chiesa, bensì il Sommo Pastore come pietra angolare: il fondamento (1 Pietro 5,4; Efesini 2,20).
Se Cristo ci dice che la Keništaʹ è “gregge”, allora il Capo
della Keništaʹ è “pastore”: Cristo è
il Buon Pastore, Colui che mette la sua vita per le pecore, il Capo della
Chiesa (Giovanni Cap. 10; Ebrei 13,20; ecc.; Efesi 1,22; Colossesi
1,18; ecc.). Oggi diciamo, giustamente, che la chiesa prende corpo da Cristo, e
il pastore della comunità locale prende corpo dalla chiesa locale. Così il
conduttore della comunità locale, che nella chiesa primitiva [ma anche oggi,
nelle chiese che si rifanno alla Riforma] prendeva di più da Cristo, era il
pastore, il guardiano del “gregge”.
È chiaro che tra le parole di Gesù in Mt. 16, sulla base di quanto abbiamo
detto, si sono introdotte degli elementi estranei: parole che Cristo non ha
pronunciato e che gli sono state attribuite col senno di poi.
Qui non staremo a spaccare il capello
per distinguere esattamente, ammesso che fosse possibile, quelle pronunciate da
Gesù da quelle che gli sono state attribuite. Ma cercheremo di cogliere il
senso complessivo del suo discorso (ovviamente in italiano), depurato secondo
il nostro punto di vista dalle aggiunte dei copisti desiderosi di mettere in
bocca a Cristo le loro personali idee.
«Gesù chiese ai suoi discepoli di dire
esplicitamente chi credevano ch’egli fosse. Simon Pietro rispondendo disse: Tu
sei il Messia, il Figliuolo del Dio vivente. E Gesù, replicando, gli disse: Tu
sei beato, o Simone, figliuolo di Giona, perché non la carne e il sangue
t’hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli. Su questa professione
di fede, tua e degli altri credenti, che è forte come un macigno, come una
roccia imbattibile e che tale ti rende, io edificherò la mia assemblea (la mia
Keništaʹ) e le porte dell’Ades non la potranno abbattere, come la tempesta non
può abbattere una casa sulla roccia [Matteo
7, 24-25]. Poi rivolto a tutti i suoi
discepoli, aggiunse: non dite ad alcuno che io sono il Messia; dovrò andare a
Gerusalemme, a soffrire molte cose dagli anziani, dai capi sacerdoti e dagli
scribi, ed essere ucciso, e
risuscitare il terzo giorno. E Pietro: questo non ti accadrà mai. E Gesù:
Vattene via da me, Satana, tu mi sei di scandalo; non hai il senso delle cose
di Dio ma delle cose degli uomini».
Originariamente il testo di Mt. 16 era così? Non sappiamo. Forse era
anche molto più breve. Ma è evidente che in questa forma rappresenta una
ipotesi accettabile o quasi, specialmente alla luce di quanto abbiamo detto.
Mentre nella forma in cui si trova in Matteo,
è assolutamente incredibile, anche per l’occhio di un profano. Vediamo allora
perché, secondo noi, non sono accettabili quelle parti di Matteo che qui sopra abbiamo omesso, e quelle che abbiamo
modificato.
Vediamo prima di tutto che cosa dicono
gli altri due sinottici e il “quarto” vangelo.
a) Marco 8,27-33:
«Poi Gesù, coi suoi discepoli se ne andò
verso le borgate di Cesarea di Filippo; e cammin facendo domandò ai suoi
discepoli: Chi dice la gente ch’io sia? Ed essi risposero: Gli uni, Giovanni
Battista; altri, Elia; ed altri, uno dei profeti. Ed egli domandò loro: E voi,
chi dite ch’io sia? E Pietro rispose: Tu sei il Cristo. Ed egli vietò loro
severamente di dire ciò di lui ad alcuno. Poi cominciò ad insegnar loro ch’era
necessario che il Figliuolo dell’uomo soffrisse molte cose, e fosse reietto
dagli anziani e dai capi sacerdoti e dagli scribi, e fosse ucciso, e in capo a
tre giorni risuscitasse. E diceva queste cose apertamente. E Pietro, trattolo
da parte, prese a rimproverarlo. Ma egli, rivoltosi e guardati i suoi
discepoli, rimproverò Pietro dicendo: Vattene via da me, Satana! Tu non hai il
senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini».
Come si vede, qui non si parla di
“chiesa”. E questo è un fatto importante a prescindere dal concetto che esprime
il termine chiesa, e dalla
connotazione reale del suo significato. Ciò che concerne la chiesa in Matteo, qui è invece completamente
ignorato: non si parla di rivelazione del Padre (o dello Spirito); non si parla
della fondazione della chiesa sulla roccia (sulla fede); non si parla affatto
di chiesa; non si parla delle chiavi; non si parla di legare e sciogliere: non
c’è nulla di ciò che costituisce l’oggetto di secoli di controversia. E si noti
che quasi tutti (e forse proprio tutti) gli studiosi del N.T. affermano che il
vangelo di Marco è il più antico dei quattro, non soltanto dei sinottici dunque
ma anche di Giovanni, e ciò equivale
a dire che è il più attendibile, anche perché l’autore, Marco (l’unico non
contestato tra gli autori dei vangeli), era il segretario di Pietro. Si deve
supporre perciò che ha utilizzato informazioni di prima mano, per di più
sicuramente avallate dall’autorità di un Apostolo. Per questo si pensa, a
ragion veduta, che gli altri evangelisti abbiano attinto al suo vangelo; di ciò
si hanno sufficienti prove. Perché, dunque, Matteo
ci dice molto più di Marco? Dove ha attinto il redattore di Matteo oltre che in Marco? Come si spiega il “di
più” di Matteo? E soprattutto il “di
più” di Matteo è attendibile? Se
mettiamo sul piatto le considerazioni che abbiamo fatto qui sopra, al paragrafo
precedente, dobbiamo concludere che il “di più” di Matteo non è del redattore, ma di uno o più copisti che hanno
rimaneggiato e ampliato il testo a loro piacimento, quando giudicavano
necessario sostenere, a modo loro, l’Apostolo Pietro per bilanciare il successo
missionario dell’apostolo Paolo. Dobbiamo concludere che i versetti 18 e 19
sono certamente una interpolazione, se non un rifacimento, o meglio ancora che
il testo originario (sicuramente le copie manoscritte che oggi disponiamo) ha o
hanno subìto una vera e propria manomissione.
b) Luca 9,18-22:
«Or avvenne che mentr’egli stava pregando
in disparte, i discepoli erano con lui; ed egli domandò loro: chi dicono le
turbe ch’io sia? E quelli risposero: Gli uni dicono Giovanni Battista; altri,
Elia; ed altri, uno dei profeti antichi risuscitato. Ed egli disse loro: E voi
chi dite ch’io sia? E Pietro, rispondendo disse: Il Cristo di Dio. Ed egli
vietò loro severamente di dirlo ad alcuno, e aggiunse: Bisogna che il Figliuol
dell’uomo soffra molte cose, e sia reietto dagli anziani e dai capi sacerdoti e
dagli scribi, e sia ucciso, e risusciti il terzo giorno».
Si nota facilmente che anche il testo
di Luca si allontana da quello di Matteo. Sostanzialmente è simile a
quello di Marco. Anzi rispetto a quest’ultimo (e quindi anche rispetto a Matteo) non ha il particolare di Pietro
che prende Gesù da parte e lo rimprovera; e quindi non ha neppure le parole di
Cristo in risposta a Pietro. Insomma Luca
(composto nell’80 o poco dopo) è più breve di Marco, e a maggior ragione ancora più breve di Matteo. Ma quel che conta di più è il fatto che anche in Luca (come in Marco) non si parla di “chiesa” e non c’è nessuna delle
affermazioni che costituiscono la materia del contendere. Ora, basandoci anche
su 1,1-3, deduciamo che l’autore certamente ha attinto, tra l’altro, da Matteo (composto nell’arco “dopo il 70 -
fino all’80”) e da Marco (composto
intorno al 70)36. Dunque è strano che sia mancante di
qualche particolare che invece troviamo in Marco;
e ancora più strano che sia mancante di molte parti importanti che sono
contenute in Matteo. Dobbiamo
dedurre, o che in quell’epoca Matteo
e Marco non contenessero i
particolari che non troviamo in Luca,
o che l’autore di Luca non li abbia
considerati autentici o che non li abbia considerati degni di attenzione. In
ogni caso potremmo sospettare che quei particolari siano provenienti da una
fonte non degna di fede. Insomma il brano dal quale i teologi cattolici romani
deducono che Gesù avrebbe nominato Pietro capo visibile della Chiesa e suo
vicario, non soltanto non esiste negli altri vangeli, ma quasi certamente non è
autentico. L’ipotesi secondo la quale Matteo
e Luca avrebbero attinto anche da
un’altra Fonte Comune andata persa,
non soltanto non può essere provata, ma non risolverebbe il problema: perché Matteo attinge dalla FC a suo modo e Luca in un modo sostanzialmente diverso? Possibile che Luca abbia considerato di nessun valore
le parole che Cristo, secondo Matteo,
avrebbe rivolto a Pietro? Inoltre, rimarrebbe sempre da spiegare il silenzio
del segretario di Pietro, che dovrebbe essere comunque il più informato: stava
accanto alla persona direttamente interessata.
c) Non esiste, dunque, neppure in Giovanni. Il quale nel
piccolo brano contenuto in 6,66-69 ha:
«D’allora molti dei suoi discepoli [di
Gesù] si ritrassero indietro e non andavano più con lui. Perciò Gesù disse ai
dodici: Non ve ne volete andare anche voi? Simon Pietro gli rispose: Signore, a
chi ce ne andremmo noi? Tu hai parole di vita eterna; e noi abbiamo creduto ed
abbiamo conosciuto che tu sei il Santo di Dio».
Tutto ciò che in Giovanni può in qualche modo richiamare alla nostra mente la
“confessione di Pietro” è contenuto in questo testo. Veramente molto poco; qui
non c’è nulla di simile ai testi che i cattolici romani portano a sostegno
della loro tesi; ed anche qui non si parla di “chiesa”. Anzi, come abbiamo già
detto, da questo testo di Giovanni
(come da altri testi) si può dedurre che a riconoscere esplicitamente Gesù come
Messia non è stato soltanto Pietro ma anche gli altri Apostoli; la “confessione
di Pietro” non è soltanto di Pietro, ma di ognuno dei Dodici e di ogni
cristiano.
L’inautenticità delle parti controverse
di Matteo è dimostrata, direttamente
o indirettamente, anche da altre considerazioni, oltre quelle già esposte37.
a) Quando Pietro (in Matteo)
dichiara che Gesù è il Messia è ricompensato dalle parole di Cristo: Tu sei beato, o Simone… ecc. (16,17 e
ss.). Mentre sia Marco (8,30) che il
vangelo di Luca (9,21), sembrano
esprimere una preoccupazione di Gesù. Per quest’ultimi Pietro non ricevette
alcun elogio; anzi, gli evangelisti riferiscono che il Maestro immediatamente «vietò loro severamente di dirlo ad alcuno».
È strano che Matteo mette
immediatamente in bocca a Gesù parole di elogio per Pietro, mentre Marco e Luca riferiscono soltanto preoccupati divieti. E ciò è tanto più
strano se si pensa che Matteo ha
attinto da Marco, e Luca da Matteo e da Marco. Certo
anche Matteo riferisce che Gesù vietò
ai suoi discepoli di dire ad alcuno ch’egli era il Cristo (v.20). Ma prima del
divieto c’è l’elogio, e ci sono i testi controversi che soltanto Matteo contiene e nessun altro, neppure Giovanni, né se ne accenna in qualche
altro luogo del Nuovo Testamento. E
tutto ciò ha certamente un legame con il fatto che in Matteo Gesù parla della «sua chiesa», come vedremo qui appresso; unico caso in tutti e quattro
i vangeli.
Tutto questo ragionamento sarebbe
ugualmente valido, senza spostare una virgola, anche se volessimo considerare Matteo come se fosse il più antico e il
più attendibile dei quattro vangeli: il brano controverso risulterebbe
ugualmente inautentico; magari l’unico inautentico in Matteo, ma comunque inautentico, anche per tutte le altre ragioni
che abbiamo esposto in questo capitolo.
IL FIGLIO DELL’UOMO.
La “confessione di Pietro”, in Matteo (ma anche negli altri due
sinottici), è il risultato di una conversazione tra Gesù e i discepoli, che il
Maestro inizia proprio ponendo ai suoi in generale un interrogativo: Chi (o che
cosa) è il Figliuolo dell’uomo? Va da sé che questa è la domanda capitale di
tutto il discorso, e ogni problema di interpretazione dell’intero brano, deve
rispondere proprio a questa domanda. Gli Apostoli non sembra che avessero
un’idea chiara in proposito; e tuttavia la loro risposta, giustamente,
identificava il Figliuolo dell’uomo con il Messia annunciato e atteso dai
profeti: Tu sei il Cristo [il Messia].
E Gesù, stando ai sinottici, non smentisce affatto questa identificazione, ma,
preoccupato, vieta ai suoi discepoli di dirlo ad alcuno. Dunque, “Messia” e
“Figliuolo dell’uomo” indicano la stessa cosa, sono sinonimi. Ma se è così,
bisognerebbe spiegare con uguale impegno che cosa vuol dire il termine
“Messia”, e ciò comporta spiegare qual era l’idea che Gesù aveva di se stesso,
dato che è fuori dubbio che il termine si debba identificare o applicare al
Nazareno. Insomma, non da questo discorso (e neppure dai quattro vangeli presi
al completo) risulta esplicita una definizione dell’idea contenuta
nell’espressione “Figliuolo dell’uomo”. Per avere un’idea più precisa è necessario
allargare il campo a tutto il Nuovo Testamento e, in parte, anche all’Antico.
Certo in questo modo non potremo avere un’idea precisa di che cosa intendesse
Gesù, perché non è detto che l’idea che avranno più tardi i primi cristiani
debba necessariamente coincidere con quella che aleggia in questo momento nel
nostro brano in questione. Ma se non vogliamo arrenderci, e vogliamo avere la
probabilità di cogliere nel segno, dobbiamo allargare la nostra ricerca a tutta
la Scrittura. Tutto questo discorso equivale ad ammettere che il significato di
Messia non è scontato; deve essere approfondito e precisato, dato che è fuori
dubbio che l’espressione “Figliuolo dell’uomo” contiene in sé il significato di
Messia, e che quest’ultimo contiene in sé quello di Figliuolo dell’uomo. Se non
fossero sinonimi, certamente sarebbero almeno in stretta relazione, tali che
ognuno dei due implicherebbe necessariamente l’altro.
L’espressione “Figliuolo dell’uomo” è
contenuta 30 volte in Matteo, 14 in Marco, 25 in Luca e 12 in Giovanni. In
totale 81 volte nei vangeli. Mentre nel resto del N.T. è contenuta soltanto 4
volte, e nessuna delle quattro equiparabile con certezza al significato che
probabilmente ha negli evangeli. Eppure, nonostante ciò, abbiamo la necessità
di ricorrere all’intero Nuovo Testamento per tentare di comprendere il
significato dell’espressione, ammesso che questo sia univoco. Ci consola il
fatto che negli altri “libri” del N.T. sono abbastanza numerosi (forse più
degli evangeli) i termini e le espressioni equivalenti che possiamo considerare
sinonimi dell’espressione biblica “Figliuolo dell’uomo”. Perciò la ricerca
allargata richiede molta attenzione e soprattutto esige, più di ogni altra,
l’abbandono di ogni pregiudizio: bisogna mettere da parte l’idea che già
abbiamo dell’espressione “Figliuolo dell’uomo”, ammesso che ne abbiamo una; e
anche l’idea di “Messia”, specialmente se l’abbiamo acquisita senza senso
critico, come se il significato di Figliuolo dell’uomo (e di Messia) fosse
ovvio e scontato. La posta è alta, perché dal risultato dipende la comprensione
dell’intero brano evangelico; e dipende anche la validità dell’idea che sembra
correre nello stesso brano di Matteo
e degli altri sinottici, che “Messia” e “Figliuolo dell’uomo” siano pressoché
sinonimi o che comunque si applichino ambedue alla persona di Gesù di Nazareth,
e come e perché.
1. L’espressione Figliuolo
dell’uomo nell’Antico Testamento.
Il Salmo
8,4-6 dice: «Che cos’è l’uomo che tu [o Eterno] ne abbia memoria? e il
figliuolo dell’uomo che tu ne prenda cura? Eppure tu l’hai fatto poco minor di
Dio [o poco minor degli angeli], e l’hai coronato di gloria e di onore. Tu
l’hai fatto signoreggiare [dominare] sulle opere delle tue mani [sul Creato],
hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi…». Qui (nell’Eden) l’uomo non è un
vermiciattolo; è il signore della creazione. Come tale è di poco inferiore al
Creatore. Dunque il profeta è “figliuolo d’uomo”; l’uomo, come tale, è
“signore” (il re) della creazione. Ci sembra evidente, dalle ultime due
citazioni, che c’è una progressione molto significativa dell’espressione, che
tenda a gratificare la natura dell’uomo: la definisce “di poco inferiore a Dio”
e la identifica con quella di “profeta”, e implicitamente con quella di
“messia”. In questo senso l’espressione non può essere applicata a tutti gli
uomini indistintamente; ma resta il fatto che è applicata, in ogni caso,
all’uomo; mai a Dio. Quest’ultima affermazione può sembrare ovvia ma non è
così, come vedremo in seguito. Se l’espressione “Figliuolo dell’uomo” ha una
stretta relazione con il Messia, sarà evidente che ci vuole suggerire che il
Messia è un uomo e non un Dio; altrimenti l’espressione in sé non sarebbe
spiegabile in relazione al Messia.
Dunque, in ultima istanza,
l’espressione benché implichi sempre e in ogni caso, l’uomo, non è però adoperata (nella sua accezione morale perfetta)
per tutti gli uomini indistintamente. Così, allo stesso modo, il termine
“messia” è sempre e in ogni caso adoperato per gli uomini, ma anch’esso non per
tutti indistintamente, tranne il caso del popolo
di Israele (un insieme di uomini; tutti) che era detto Figlio di Dio, equivalente a Messia (Unto), Adottato, Eletto (il
“popolo eletto”, da Dio). Anche questa affermazione può sembrare ovvia, ma come
vedremo in seguito non è così.
Fin qui, siamo giunti alla conclusione
che in generale “Figliuolo dell’uomo” vuol dire semplicemente “uomo” (come
individuo e come specie), ma l’espressione si riferisce anche all’Uomo per eccellenza. Questo è il
significato nell’Antico Testamento. E se dobbiamo concludere che il Messia è
l’Uomo per eccellenza, allora l’espressione si applicherà a Gesù Messia, per
indicare che è l’uomo per eccellenza
(ma non Dio).
Nel libro del profeta Daniele è
scritto: «Io guardavo, nelle visioni
notturne, ed ecco venire sulle nuvole del cielo uno simile a un figliuol d’uomo; egli giunse fino al
vegliardo [fino a Dio], e fu fatto accostare a lui. E gli furono dati dominio,
gloria e regno, perché tutti i popoli, tutte le nazioni e lingue lo servissero;
il suo dominio è un dominio eterno che non passerà, e il suo regno, un regno
che non sarà distrutto» (Daniele
7,13-14). In queste parole, non tutti i commentatori vedono una profezia che
concerne il Messia. Né tutti vedono che si parla proprio del “Figliuolo
dell’uomo”. Noi osserviamo che certamente le espressioni e i termini sono
metaforici e problematici, ma l’idea centrale è chiara: si tratta proprio del
Messia. Il “figliuolo d’uomo” è qui un re di un regno eterno, che non sarà mai
distrutto. È evidente che l’autore del “libro” vuole pronunciare una profezia
che concerne il Messia (che instaura il suo regno) il quale è chiamato dal
profeta “figliuolo d’uomo”.
Aggiungiamo alcune osservazioni. Più
precisamente, il testo dice: «uno simile a un figliuol d’uomo»; dunque non sarebbe proprio un
figliuolo d’uomo? Sappiamo però che in alcuni casi, seppure raramente, l’aggettivo
“simile” è usato per dire “uguale”. Inoltre è usato proprio per il genere
umano, come nella proposizione “i propri simili”. E si sa che gli uomini sono uguali essenzialmente, non
simili; ovvero “simili” come individui della specie e “uguali” come essenza.
Comunque sia, nel nostro caso, non può certamente avere il significato
equivalente a “meno-che-uomo”, “quasi-uomo”, perché non si darebbe un regno
eterno a uno che non fosse almeno uomo, un uomo vero e proprio, e non simile.
Daniele vede un uomo, ma probabilmente lo vede in modo confuso, oppure
rivestito da un tale splendore da non potersi definire precisamente.
Un’altra osservazione: Se l’espressione
si riferisce al Messia (col senno di poi a Gesù di Nazareth) è utile osservare
che questo messia non viene dal cielo in terra, neppure nelle visioni dei
profeti; bensì sale dalla terra al cielo (nella metafora tramite una nuvola: Atti 1,9), almeno in un primo momento.
Per la precisione il testo dice: «giunse
fino al vegliardo, e fu fatto accostare a lui»; dunque non è il vegliardo stesso (non è Dio), ma vi giunge
accanto, fu fatto accostare al Vegliardo. Qui (sempre col senno di poi) è
implicitamente negata quella divinità di Cristo che invece molti teologi
sostengono. Il Messia Gesù, dopo la risurrezione va in “cielo” accanto (πρὸς) a Dio, gli viene
assegnato il posto che certamente merita (Ebrei
1,3), ma nel quale non vi era mai stato (Ebrei
5,9-10), e da lì si accinge a ritornare nel mondo per prendere possesso del suo
regno e accogliere gli eletti con sé (Giovanni
14,1-3).
Alcuni affermano che Daniele vede il
Messia in cielo, e che questa è la prova che il Messia esisteva (appunto in
cielo) prima di nascere in Palestina. Non possiamo accettare questa
affermazione. Qui si tratta semplicemente di una visione che concerne il futuro
(lo è con certezza rispetto all’autore del “libro”: Daniele o chi per lui); è una profezia e non una realtà attuale
che permetterebbe al profeta di vedere effettivamente che cosa c’è in cielo in quel momento. Ciò che si vede in una
visione profetica non è reale; sarà reale ciò che la profezia annuncia,
e nel momento in cui si attuerà. Daniele “vede” il futuro, non
l’attualità. Vede l’uomo venire sulle nuvole del cielo (arriva
in cielo e torna in terra); può venire perché prima vi è andato, vi è salito
(alla risurrezione). La visione, dunque, non riguarda soltanto la prima venuta
del Messia (nato da Maria) ma soprattutto la seconda, il suo ritorno, sulle
nuvole del cielo (Matteo 24,30; 2 Tessalonicesi 4,16-17; Apocalisse 1,7/a; ecc.), per prendere
possesso del suo regno. Quando il profeta ha quella visione, il Messia è
certamente nei piani di Dio (cioè dell’Eterno),
nella sua Mente, ma non è ancora nato. I termini “salire”, “scendere”, ed anche
le espressioni che riguardano il “cielo” e le “nuvole”, sono metafore38,
che in questo caso della visione di Daniele ci dicono che il Messia prima sale ed è fatto accostare a Dio, e
dopo scende per instaurare il suo
regno; e non che prima scende (come Dio incarnato) e dopo sale.
2. L’espressione Figliuolo dell’uomo implica Adamo.
a)
Il Salmo 8
citato in Ebrei. Il testo del Salmo
8,4-6, che abbiamo citato al paragrafo precedente, lo ritroviamo anche nel
N.T., in Ebrei 2,6-8: «Qualcuno ha in un certo luogo attestato
dicendo: Che cos’è l’uomo che tu [o Eterno] ti ricordi di lui o il
figliuolo dell’uomo che tu ti curi di lui? Tu l’hai fatto di poco inferiore
agli angeli; l’hai coronato di gloria e d’onore; tu gli hai posto ogni cosa
sotto i piedi. Col sottoporgli tutte le
cose, Egli non ha lasciato nulla che non gli sia sottoposto [all’uomo!]. Ma al presente non vediamo ancora che tutte
le cose gli siano sottoposte [all’uomo!]; ben vediamo però colui che è stato fatto di poco inferiore agli
angeli, cioè Gesù, coronato di gloria
e d’onore a motivo della morte che ha
patita, onde, per la grazia di Dio, gustasse la morte per [a favore di] tutti».
Il significato di questo testo è stato
a volte travisato e fritto con varie salse; invece è chiaro e semplice.
L’autore sacro fa, per così dire, una verifica, considerando le parole del salmo
per quello che effettivamente dicono. Il salmista afferma che l’uomo fu creato
adatto a raggiungere una meta: il dominio su tutta la creazione (così fu fatto potenzialmente). Si tratta, ovviamente,
soprattutto di un dominio di ordine morale (e quindi “divino”). In questo
senso, per le potenzialità che Dio gli ha assegnato creandolo, si può affermare
[lo dice il salmista] che l’uomo fu fatto di poco inferiore agli angeli [una
variante dice: di poco inferiore a Dio]. E l’autore dell’epistola agli Ebrei prosegue constatando che
benché questo sia vero, non lo si può riscontrare nei fatti: «non vediamo
ancora che tutte le cose gli siano sottoposte» [è ancora un vermiciattolo: Giobbe 25,5-6; è ancora mortale: Isaia 51,12] e non possiamo perciò
concludere che adesso l’uomo sia «di poco inferiore a Dio». Però, prosegue, c’è qualcuno che ha
raggiunto (ovvero mantenuto e sviluppato) lo stato proprio (quello definito “divino”) del “figliuolo dell’uomo” o
semplicemente dell’uomo. Questo
qualcuno è Gesù, il quale «è stato fatto di poco inferiore agli
angeli, coronato di gloria e d’onore, a
motivo della morte che ha patita…».
Gesù di Nazareth ha raggiunto quella meta che è propria dell’uomo: il dominio
[cioè lo stato di Signore] che
equivale all’immortalità; perciò egli è l’Uomo, il vero Adamo, di poco
inferiore agli angeli (o di poco inferiore a Dio). L’unico uomo, per adesso (al quale Dio ha dato ogni potere: Matteo
28,18; Apocalisse 1,18). Tutti gli
altri non lo sono ancora; non lo sono in modo perfetto, ma possono raggiungere
quella meta perfetta grazie a Gesù stesso, l’unico uomo, che ha operato a
beneficio di [per] tutti. Dice l’apostolo Paolo: «Se per il fallo di quell’uno [Adamo]i molti [cioè tutti] sono morti,
molto più la grazia di Dio e il dono fattoci dalla grazia dell’unico [del solo] uomo [τοῦ ἑνὸς
ἀνθρώπου] Gesù Cristo hanno abbondato
verso i molti [verso tutti]» (Romani
5,15).
b) L’uomo verso
l’immortalità. Quando il salmista dice che l’uomo è stato fatto “poco
minor di Dio” si riferisce al racconto della Genesi. È scritto: «Dio
disse: “Facciamo l’uomo a nostra
immagine e a nostra somiglianza, ed abbia dominio sui pesci del mare e sugli
uccelli del cielo e sul bestiame e su tutta la terra e su tutti i rettili che
strisciano sulla terra”. E Dio creò
l’uomo a sua immagine; lo creò maschio e femmina, a immagine di Dio» (1,26-27). Il mito per certi aspetti
si riferisce, apparentemente, ad una supremazia di carattere materiale (sui
pesci del mare… ecc.); ma quando Dio conduce gli animali all’uomo e lo invita a
dargli un nome, o quando lo mette di fronte alla responsabilità di mangiare o
non mangiare il frutto dell’albero proibito, o quando gli crea una compagna… ecc.
(2,15-23), la metafora evidenzia l’essere intelligente e responsabile, che
comporta una supremazia nell’ordine morale, a cominciare da se stesso; ed
infine il concetto è sintetizzato, ma anche ampliato, con un’unica espressione
(a immagine di Dio), che esprime una
supremazia totale (poco minor di Dio).
L’immagine di una cosa non è la cosa stessa di cui è immagine, ma ha una
evidente e forte rassomiglianza con essa. A questo proposito Pico della
Mirandola ci rappresenta il Creatore che si rivolge ad Adamo e, tra le varie
cose, gli dice le seguenti parole: «Non ti ho dato, o Adamo, né un posto
determinato, né un aspetto proprio… La natura limitata degli altri [esseri] è
contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna
barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai… Non
ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso
quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che
avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti;
tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono
divine»39.
In queste parole immaginarie, attribuite a Dio, possiamo cogliere una sorta di
[inconsapevole] metafora della dottrina evoluzionistica [ante litteram], che in
qualche modo condividiamo; ma a noi, in questa sede interessa porre l’accento
su due aspetti della questione: uno esplicito, che Pico esprime quando afferma
che Adamo non fu creato mortale, né immortale, ma candidato all’immortalità; e
uno implicito (a cui forse Pico non pensava) che evidenzia che Adamo, come
individuo, non è mai esistito. Il racconto della Genesi è una metafora: non
esiste l’albero della vita; il serpente non parla (tranne che nelle fiabe); Dio
non passeggia per il Giardino (non passeggia da nessuna parte); e non parla in
senso antropomorfico, né tanto meno a tu per tu con l’uomo se non attraverso la
coscienza; non stacca costole agli uomini; non ha bisogno di costole per creare
le donne; gli angeli non hanno spade fiammeggianti… e così via. Anche la spiegazione di Pico è una metafora,
ma è più plausibile e più esplicita: oggi diremmo che soltanto l’ipotesi
scientifica dell’origine delle specie, e il racconto che ricaviamo dalla
preistoria dell’umanità, sono in grado di dare il senso proprio al racconto
biblico40.
Ma questo è un altro discorso, che esula un po’ dalla teologia biblica.
c) Gesù, duce e
perfetto esempio di fede. “Adamo” in ebraico si dice «ʹāḏām», che significa “uomo”; termine
collettivo per dire “umanità”. Così nei primi tre capitoli della Genesi lo
troviamo con l’articolo: hāʹāḏām,
cioè l’uomo per eccellenza. Adamo non è un individuo, è l’umanità. L’uomo
(soprattutto quello primitivo) non era e non è ancora il signore della
creazione. Lo attende un lungo progredire verso la meta, che è rallentata da
vari fattori che nella Genesi sono presentati con la metafora della
disubbidienza dei progenitori dell’umanità che da Dio furono scacciati dal
Giardino dell’Eden. L’origine del- l’umanità, come abbiamo appena detto, la
conosciamo meglio attraverso la preistoria e attraverso le ipotesi scientifiche
dell’origine delle specie. Il racconto della Genesi riguardante la creazione di
Adamo ed Eva, anche se preso alla lettera, non concerne un fatto già accaduto,
perché è una profezia onnipresente (nel tempo), che riguarda il passato, il
presente e il futuro, che attiene alla marcia (seppur faticosa) dell’umanità,
dalle origini verso lo stato futuro di «signore». Una sorta di feed-back della Storia che ci racconta
l’origine divina dell’uomo, collocandola nell’Eden, mentre si riferisce al
mondo futuro a cui l’umanità aspira. Le caratteristiche (espresse in senso
metaforico) dell’uomo, e della natura edenica, “prima del peccato”, non sono
quelle delle origini, ma quelle della meta da raggiungere; non del passato, ma
del futuro. In questo senso ha una grandissima importanza didattica,
fondamentale, per lo studio della teologia biblica: l’umanità raggiunge
l’immortalità grazie a Gesù Messia, «duce e perfetto esempio di fede» (Ebrei 12,2), il Figliuolo dell’Uomo, il
Secondo Adamo, colui che superò la triplice tentazione che il primo non volle,
non seppe, o non poté superare33/41.
d) Gesù Cristo è
il “figlio” di Adamo. Se
leggiamo la genealogia di Gesù in Luca,
notiamo che è presentata a ritroso: partendo da Giuseppe (sposo di Maria), e
passando per Davide, arriva al padre dell’umanità Adamo e quindi a Dio, “padre”
di Adamo (3,38). In questo senso si può concludere che Gesù era figlio di Dio,
come tutti gli esseri umani (Atti 17,28-29). Ma qual è la necessità, o la
logica, dell’evangelista che lo spinge a dirci che Gesù era figlio
(discendente) di Adamo e quindi di Dio, dal momento che tutti gli uomini, letteralmente
nel senso indicato da Luca, sono
discendenti o “figli” di Adamo e quindi di Dio? Se l’intenzione
dell’evangelista era solo questa, allora avrebbe detto una ovvietà. Dobbiamo
supporre necessariamente che dicendoci che Gesù era discendente di Adamo,
voleva suggerirci l’idea che il Messia per eccellenza, quello annunciato dai
profeti, era sì “uomo”, vero uomo,
soltanto uomo, ma tuttavia non lo era come gli altri, perché essendo «ripieno
di Spirito Santo» (4,1) lo era in modo perfetto, era l’Uomo, l’uomo per
eccellenza, pienamente «a immagine di Dio» in marcia verso l’immortalità, nella
purezza e nella perfezione dell’Adamo edenico.
Si potrebbe dire, perciò, che Gesù era discendente (“figlio”) dell’Adamo
edenico e non dell’Adamo peccatore scacciato dall’Eden. Questa è la sua
“divinità”, quella che lo fa di poco inferiore a Dio; ed è la meta che diventa
propria di tutta l’umanità, grazie alla vittoria che Gesù stesso ha conseguito,
anche «a motivo della morte che ha sofferto» (Ebrei 2,9); è la vittoria che il primo Uomo della metafora non
seppe conseguire. Ma per essere il Condottiero, duce e perfetto esempio di
fede, deve comunque essere uomo,
soltanto uomo, uomo e basta (1 Timoteo
2,5) al di là della distinzione didattica tra Adamo (Uomo) edenico e Adamo (uomo) peccatore.
Perché è un uomo, secondo la metafora, che portò l’umanità alla perdizione; e
dunque deve essere, ugualmente, un uomo che la porta alla salvezza (per la
provvidenza di Dio e per la sua sovrana e insindacabile volontà): «Siccome con la disubbidienza di un solo
uomo (Adamo) i molti [tutti] sono stati costituiti peccatori, così anche per
l’ubbidienza d’un solo , i molti [tutti] saranno costituiti giusti»
(Romani 5,19; cfr. anche il v. 12). E
con solenne metafora Gesù dice: «L’ora viene
in cui tutti quelli che sono nei sepolcri [tutti i morti], udranno la sua voce
(del Figliuolo dell’uomo) e ne verranno fuori…» (Giovanni 5,28). In
quanto Gesù è Figlio di Adamo (=uomo
perfetto), è Figlio dell’Uomo, perché “Adamo” vuol dire “Uomo”. Gesù Cristo,
perciò, è il Figliuolo dell’uomo; il Secondo Adamo. Quando l’evangelista Luca
dice che Gesù è discendente di Adamo, dice né più e né meno che Gesù è il
Figliuolo dell’uomo. Ora, la metafora ci dice che il Primo Adamo conduce
l’umanità alla perdizione, mentre suo “figlio”, il Secondo Adamo, la conduce
alla salvezza mediante il suo personale esempio (1 Pietro 2,21-25). Essenzialmente è questo che Pietro, gli altri
Apostoli e tutti i discepoli riconoscono, anche se non in questi termini: che
Gesù è il Figliuolo dell’uomo, il Figlio di Dio (il Re), appunto: il Messia, il
Cristo; e dunque il Salvatore.
3.L’Adamo edenico è tipo
del Messia e meta dell’umanità redenta.
a)
Cristo tipo del vero uomo. Cristo
non può essere l’unità dell’essenza
divina e dell’essenza umana – come si afferma da varie parti − perché questo è
un concetto impossibile (contro ragione) e perché, se fosse possibile, la
suddetta unità non sarebbe né uomo né
Dio, mentre il Salvatore deve essere
Uomo, uomo per eccellenza (e dunque soltanto uomo e non anche Dio), deve essere
uomo a immagine di Dio: il Figliuolo dell’uomo. Non c’è alcuna necessità
giuridica e teologica perché il secondo Adamo debba essere Dio (Dio fatto
uomo). Se un “messia” eccellente, essendo soltanto uomo, per questo non può
essere mediatore e salvatore, non si comprende perché Dio per salvare l’uomo
dovrebbe assumere proprio la condizione di colui (dell’uomo) che non può essere
salvatore. Se, tuttavia, Cristo è comunque salvatore, pur essendo Dio, o
proprio perché è Dio, allora non sarebbe mediatore perché il salvatore sarebbe
direttamente Dio (Dio stesso), e sarebbe altresì il protagonista tra gli
uomini, mentre Paolo dice «come per un uomo…
così per un uomo…» (Romani 5,19). Non dice: «Dio»; e
neppure: «Uomo-Dio». Il “miracolo” di Dio, se tale lo vogliamo definire,
consiste nell’aver suscitato un messia che non ha conosciuto peccato e che è
assistito potentemente dallo Spirito (2
Corinti 5,21; Luca 4,1). L’apostolo Paolo, parlando del Signore Gesù,
ad un certo punto (in 2 Corinti 4,4)
dice «…che è l’immagine di Dio…»;
come l’Adamo edenico (Genesi 1,26/a,
27). Concetto che ritorna spesso nel N. Testamento. E nell’epistola agli Ebrei
è detto che Cristo è «l’impronta della
sua essenza», l’impronta dell’essenza di Dio, cioè di Dio stesso (1,3). Ѐ
un concetto equivalente alla natura umana perfetta, «a immagine di Dio». Infatti,
nel greco “impronta” è χαρακτήρ.
Con questo termine i greci indicavano, tra l’altro, la cosa incisa, incavata, impressa, il conio di una moneta, che era chiamato anche “immagine” (non
“effigie”). Così in Matteo 22,20 Gesù
non domanda di chi fosse l’effigie della moneta romana, ma di chi fosse il
conio, l’immagine (l’immagine è
qualcosa di più e di diverso di una effigie). Dunque kharaktēr è conio; conio
è týpos; týpos è modello; modello è eikōn,
cioè immagine; anzi, poiché stiamo
parlando dell’immagine di Dio e non di una immagine qualsiasi, potremmo
scrivere il termine con l’iniziale maiuscola: Immagine. Ora, tutto il discorso
ruota intorno a questo termine, sul quale si è molto equivocato (a volte lo si
è cambiato in essenza); qui lo
spieghiamo in pochissime parole. Prima di tutto, va detta una cosa che può
sembrare ovvia: l’Immagine di Dio non è Dio, è l’Uomo; l’immagine di una cosa non è la cosa stessa di cui è immagine.
Cristo è l’immagine di Dio; anche Adamo (l’uomo, l’umanità) è a immagine di
Dio. Se da questa affermazione dovessimo concludere che perciò Cristo è Dio,
dovremmo estendere il concetto anche ad Adamo. In effetti, quando diciamo che
Cristo (o anche Adamo) è l’immagine di Dio, diciamo né più e né meno che Cristo
è uomo. E se è uomo, è soltanto
uomo; se fosse “uomo e qualcos’altro” (sia pur in unità, ammesso che fosse possibile) non sarebbe uomo, non sarebbe
“figlio” di Adamo. Del resto in nessun luogo è detto che è Dio, né per
implicito né per esplicito. I pochissimi testi (davvero pochi!) dai quali si
potrebbe dedurre la sua divinità, sono di interpretazione assai controversa e
alcuni di dubbia autenticità42.
b) Cristo è la copia dell’Adamo edenico. Dunque, Cristo è la copia del modello: di Adamo; è il
replicato. Ma non è la replica dell’Adamo peccatore,
bensì la replica dell’Adamo edenico,
che è l’Uomo divino, senza peccato, uscito dalle “mani” del Creatore: “figlio”
di Dio. Il Primo Adamo, secondo la metafora è decaduto, è l’umanità che dovrebbe marciare verso la
perfezione, ma non la raggiunge (è scacciata dall’Eden). Il Secondo Adamo (il
Figliuolo dell’uomo) è «colui che non ha
conosciuto peccato» (2 Corinti
5,21/a), non è un peccatore: marcia verso la perfezione e la raggiunge, aprendo
la strada all’umanità. Perciò Pietro [?], scrivendo ai credenti dell’Asia
Minore, dice: «Cristo ha patito per voi,
lasciandovi un esempio, onde seguiate le sue orme» (1 Pietro 2,21). E Paolo,
parlando della risurrezione dei morti, dice: «Sta scritto: “Il primo uomo, Adamo, fu fatto anima vivente” [Genesi 2,7]; l’ultimo Adamo [il Risorto] è spirito vivificante. Però ciò che è
spirituale non viene prima; ma prima, ciò che è psichico (psykhikón); poi viene ciò che è spirituale (pneumatikón).
Il primo uomo, tratto dalla terra [Genesi 2,7], è terreno; il secondo uomo [il Risorto] è dal cielo [è “corpo-spirituale”]. Quale è il terreno [il primo Adamo: l’Umanità], tali sono anche i terreni [i
discendenti di Adamo]; e quale è il
celeste [l’essere spirituale: il Risorto], tali saranno anche i celesti [i risorti]. E come abbiamo portato l’immagine del terreno [del primo Adamo], così porteremo [con la risurrezione] anche
l’immagine del celeste [del Risorto, del secondo Adamo come
“corpo-spirituale”] (...). I morti risusciteranno incorruttibili
[esseri spirituali, come il Risorto]» (1 Corinti 15,45-52).
Nella metafora della Genesi, Adamo come
individuo, in quanto peccatore, è il prototipo di tutti gli uomini naturali (o
psichici), anche di quelli che non
peccano «con una trasgressione simile a quella di Adamo» (Romani 5,14). Mentre l’Adamo edenico
[che è Cristo] è il prototipo dei figli di Dio (gli uomini pneumatici), da Dio
generati, ἐκ θεοῦ ἐγεννήθησαν (Giovanni 1,12-13), cioè dei salvati, di
coloro che sono «nati di nuovo» (Giovanni
3,3). Ed ancora, dice l’apostolo Paolo: «Noi
tutti… contemplando la gloria del Signore , siamo
trasformati nella stessa immagine di lui, di gloria in gloria, secondo che
opera il Signore, che è Spirito»; «il Signor Gesù Cristo trasformerà il corpo
della nostra umiliazione [imperfetto] rendendolo conforme [della stessa forma,
della stessa natura] al corpo della sua
gloria…» (2 Corinti 3,18; Filippesi 3,21). Pertanto, Cristo è il
Secondo Adamo (ovvero: l’Ultimo), è il Salvatore nella forma del Primo (vero
uomo): identico al primo nella natura
(o essenza)43, ma opposto nel comportamento perché «non ha conosciuto peccato» e ha
superato la triplice tentazione [vedi nota
33] divenendo corpo spirituale,
sicché «se c’è un corpo psichico [il
primo uomo], c’è anche un corpo
pneumatico [di cui Cristo risorto è il primo]. Perciò Gesù di se stesso
dice: «Io sono il primo [il primo Adamo] e
l’ultimo [il secondo Adamo], e il Vivente; e fui morto, ma ecco son
vivente per i secoli dei secoli [sono corpo pneumatico], e tengo le chiavi della morte e dell’Ades» (Apocalisse 1,18). In altre parole: non è esistito nessun Adamo
delle origini (così come è inteso comunemente) e nessuna Eva44. L’Adamo descritto nella Genesi (colui
che precede la metafora del peccato) è un modello;
è la meta dell’umanità. La realtà adamitica (la meta raggiunta) è il Cristo
immanente; il Primo e l’Ultimo (l’unico) che ha raggiunto quella meta; e in
quanto l’ha raggiunta è il vero Adamo (l’unico individuo perfetto realmente esistito ed esistente) e può condurre e conduce
con sé tutta l’umanità. Egli è «il
primogenito dai morti», il primo dei risorti a vita eterna (Colossesi 1,18; Romani 8,29; Apocalisse
1,5). È l’Ultimo perché ha raggiunto la meta; non ci possono essere altri
(replicati) che aspirino a raggiungere quella meta per salvare l’umanità,
perché è stata già salvata da Gesù di Nazareth. Dunque, è il Primo perché è vero uomo (cioè perfetto: soltanto
“uomo”); l’unico uomo, il
solo, per adesso: τoῦ ἑνὸς ἀνθρώπου: Romani 5,15; è l’Ultimo
perché è l’unico che ha raggiunto la meta della perfezione e dell’immortalità,
ma anche il Primo a raggiungerla, e l’ha raggiunta per tutti gli uomini, per
tutti i suoi “fratelli” (cfr. Ebrei
cap. 2).
c) Altri appellativi cristologici. Abbiamo detto che Figliuolo dell’uomo è sinonimo di
Messia. Spiegare perciò il significato del termine “Messia” equivale a spiegare
quello di “Figliuolo dell’uomo”, anche se letteralmente sono termini diversi.
In questo caso significa soprattutto chiarire il genere di rapporto ch’essi
implicano con Dio da una parte e con il popolo dall’altra. Abbiamo evidenziato,
qui sopra, che “Figliuolo dell’uomo” significa Figlio di Dio tramite Adamo (cioè “uomo”), il
quale appunto, nella metafora, è definito «figlio [discendente] di Dio» (Luca 3,38); abbiamo evidenziato altresì
che Gesù è il Figliuolo dell’uomo per eccellenza, cioè l’Uomo; che i profeti
erano detti “figliuolo d’uomo”; che anche il re d’Israele era detto “Figlio di
Dio”; che Dio era detto “Padre di Davide (del re)”. Il problema pertanto si
configura, infine, nel significato dell’espressione “Figlio di Dio” [«nato di
donna», vero uomo: Galati 4,4].
Ovviamente ci riferiamo al contesto
storico e culturale precedente Gesù di Nazareth, fino a Gesù stesso e fino agli
inizi del cristianesimo come ci appare nel Nuovo Testamento. Dobbiamo inserirci
nel mondo tipicamente ebraico, dato che il cristianesimo nasce in seno
all’ebraismo. Gesù, gli Apostoli e i primi cristiani erano ebrei; fedeli
osservanti israeliti. Ancora una volta, perciò, ci è gradito ricorrere alla
Bibbia.
Si usa comunemente la seguente
proposizione: “Cristo è il Figlio di Dio”. Se qui “Cristo” è nome (a volte è
usato così nel N.T.), la proposizione è legittima, perché è come dire: “Gesù è
il Figlio di Dio”; quest’ultima espressione è contenuta nel Nuovo Testamento.
Se invece la parola “Cristo” la si usa nel senso di “Messia” (che è, come
vedremo e come in parte abbiamo già visto, il suo vero significato) allora è
una proposizione scorretta, perché sarebbe come dire “Il Messia è il Figlio di
Dio” (espressione che non esiste nel Nuovo Testamento), ovvero “Il Figlio di
Dio è il Figlio di Dio”, oppure “Il Messia è il Messia”. Infatti “Messia” (o
“Cristo”) e “Figlio di Dio” sono sinonimi che indicano la stessa cosa. Dire
l’uno o l’altro è dire la stessa cosa: la seconda parte della proposizione,
perciò, sarebbe ripetitiva della prima. Nel N.T. i due termini, in qualche
caso, si trovano nella stessa proposizione, ma
non sono mai uniti dal verbo essere [è];
nelle traduzioni in lingua moderna dal greco, sono separate da una virgola,
come nella seguente: Il sommo sacerdote disse a Gesù: «Ti scongiuro per l’Iddio vivente a dirci se tu sei il Cristo, il Figliuolo di Dio» (Matteo 26,63); o come in quest’altra:
Marta disse a Gesù: «Signore, io credo
che tu sei il Cristo, il Figliuolo di
Dio» (Giovanni 11,27). Dire,
ipoteticamente, “Cristo è il Figlio
di Dio”, significherebbe affermare che “Cristo” e “Figlio di Dio” indichino due
cose diverse, che Gesù sarebbe l’una e l’altra cosa come quando di una persona
si dice, per esempio, che è buona e bella, dove ovviamente “buona” non è
“bella” e viceversa. Bisogna dire, invece, come ha detto Pietro: Tu sei il Cristo, [ovvero:] il Figlio di
Dio. C’è soltanto un testo che sembra
contraddire ciò che stiamo dicendo, in Marco
1,1, dove è detto: «Principio
dell’evangelo di Gesù Cristo, Figliuolo di Dio». Anche ammettendo che qui
la parola “Cristo” sia usata come un secondo nome di Gesù, la proposizione non
sembra corretta. Infatti, se qui “Cristo” è un secondo nome, allora si sarebbe
dovuto dire “Gesù Cristo, il
Figliuolo di Dio”: la differenza è solo una sfumatura, ma tuttavia importante.
Il testo greco (Nestle-Aland e Altri)
dice: «Άρχὴ τοῦ εὐαγγελίου Ίησοῦ
Χριστοῦ [υἱοῦ θεοῦ]»; e quello di Westcott-Hort omette del tutto le ultime
due parole. L’espressione “υἱοῦ θεοῦ, Figlio di Dio”,
infatti, manca in alcuni codici;
perciò dobbiamo considerarla come un’aggiunta di un copista che intendeva
spiegare il significato del termine “Cristo”, con il risultato che nelle
edizioni moderne in uso leggiamo una proposizione sui generis o almeno pleonastica, che tradotta nel significato
preciso dei termini suona come segue: Principio
dell’evangelo di Gesù Cristo Cristo; ovvero: Principio dell’evangelo del Figlio di Dio Figlio di Dio. Questo
discorso evidenzia ulteriormente che “Cristo (Unto)” e “Figlio di Dio”, quando
sono riferiti a Gesù (ma non solo a Gesù) sono sinonimi. Piero Rossano
commenta: «[In Marco 1,1, Gesù] viene
chiamato con l’appellativo di Cristo, originariamente
traduzione greca di Messia = l’Unto, che negli ambienti greco-romani venne
presto sentito come nome proprio. L’epiteto “figlio di Dio” manca in
alcuni codici, e vi sono seri dubbi circa la sua autenticità in questo punto di
Marco»45.
Se poi consideriamo che nel N.T.
l’espressione Figlio di Dio a volte è
abbreviata con il Figlio, ci appare
più evidente che se vogliamo avere un’idea più precisa del termine “Messia”,
dobbiamo esaminare più a fondo il significato di “figlio” nella Sacra
Scrittura.
d)
La formula
dell’elezione e dell’adozione. Non ci
soffermeremo46 sul comune
significato proprio e letterale del termine “figlio” perché è ovvio anche nella
Bibbia, e non ha bisogno di essere spiegato. Ma appunto per questo, nella Sacra
Scrittura la parola “figlio” che troviamo nell’espressione “Figlio di Dio” non
è possibile che abbia il comune significato antropomorfico che implichi la
“generazione”; in questo senso (e neppure, eventualmente, in un senso speciale proprio di Dio che
implichi comunque la generazione)
sicuramente Dio non ha figli. Ma se il termine è preso in senso metaforico,
allora dobbiamo dire che Dio di figli ne ha moltissimi, infiniti: sono tutti
gli esseri che ha creato e che crea (ma non generato), tra i quali vi è l’uomo, il signore della creazione (Genesi 1,26-28); il generare è proprio dell’uomo, non è di Dio. Più in generale, a
“generare” sono gli esseri viventi, i quali provengono da altri esseri essenzialmente uguali. Ma Dio non
proviene da altri esseri: non nasce e non muore; non è generato e non genera; è
eterno, senza inizio e senza fine. Dunque non genera neppure in senso
metaforico; non è creatura ma creatore. Perciò, si ricorre al concetto di
“figlio” per dire che ogni cosa è creatura di Dio. Così, nella Sacra Scrittura,
il concetto di “creatura” è trasferito su quello di “figlio” (Giobbe 38,7), e questo è un senso
metaforico. I significati metaforici possono essere diversi per lo stesso
termine. Paolo scrivendo a Filemone, gli raccomanda il suo proprio figliuolo
spirituale Onesimo, dicendo testualmente: «Ti
prego per mio figlio che ho generato
mentre ero in catene, per Onesimo» (v. 10). Dunque, nel linguaggio del
Nuovo Testamento, e qui particolarmente di Paolo, si può generare un figlio anche in senso metaforico, propriamente in senso
spirituale. Nell’Antico Testamento, Dio dice del re d’Israele: «Tu sei il mio figliuolo, oggi io ti ho generato» (Salmo 2,7). E perfino le gocce della rugiada sono chiamate, implicitamente,
figlie di Dio là dove è detto in Giobbe
38,28: «Ha forse la pioggia un padre? O
chi genera le gocce della rugiada?».
Le gocce della rugiada sono generate da Dio, sono sue figlie in senso
metaforico; in senso proprio sono creature
del Padre, cioè del Creatore.
Cosicché, poiché Dio non ha figli in
senso proprio e antropomorfico, cioè generati
da lui (non creati), quando nella
Bibbia si parla del “Figlio di Dio”, questa espressione non può essere presa
nel senso proprio e letterale del termine “generare”, “generato”; e ciò anche
quando è detto per esplicito che il Figlio è generato da Dio; pure di Davide è detto che è generato da Dio
(Salmo 2,7: vedi sopra), e anche i credenti sono generati da Dio (Giovanni 1,13:
nati=generati=ἐγεννήθησαν). Né si può pensare che in certi casi (come nel caso
di Gesù) l’espressione possa significare che quel “figlio”, in quanto “figlio”,
è un’incarnazione divina, nel senso di Dio
fatto uomo; in tal caso l’espressione avrebbe due significati, ma questo
non risulta dalla Sacra Scrittura. Il teologo Hans Küng si chiede che cosa
significhi effettivamente “incarnazione”. Risponde: «Significa che in questo uomo [Gesù di Nazareth] hanno preso figura
umana la parola, la volontà, l’amore di Dio»47. “Figlio di Dio”, nella Bibbia, significa sempre e in
ogni caso l’Eletto, l’Adottato: il termine “figlio” è sinonimo
di “adottato” o “eletto”. Davide è eletto re (da Dio e dal popolo); e per
questo era detto Figlio di Dio. Anche il Nazareno è eletto, adottato da Dio.
Al battesimo di Gesù, impartito da Giovanni il Battezzatore, ritroviamo quasi
le stesse parole che furono rivolte a Davide: «Gesù, tosto che fu battezzato, salì fuor dell’acqua; ed ecco i cieli
s’apersero, ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venir sopra
lui. Ed ecco una voce dai cieli che disse: Questo è il mio diletto Figliuolo
nel quale mi sono compiaciuto» (Matteo.
3,16-17). Ѐ una scelta, una elezione, una adozione. Quando l’autore
dell’epistola agli Ebrei [cap. 1] fa
il lungo elogio di Cristo (del Messia), citando passi dell’Antico Testamento,
ad un certo punto adopera esattamente le parole che – secondo il salmista − Dio
rivolse a Davide: Tu sei il mio
Figliuolo, oggi ti ho generato [e Davide e gli altri re, certamente non
furono generati da Dio in senso proprio, ma nel senso che furono scelti da Dio
come figli adottivi]; e più avanti dice del Figliuolo (del Messia): «Il tuo trono, o dio48 [gr. θεὸς,
e non Θεὸς] è nei secoli dei secoli…»; parole che ci ricordano il
brano di Daniele 7,13-14 che abbiamo
già commentato: «il suo dominio [di “uno simile a un figliuolo d’uomo”] è un dominio eterno che non passerà,
e il suo regno, un regno che non sarà distrutto». Ma il “Figliuolo d’uomo” è uomo, e in quanto uomo è soltanto
uomo. E qui (in Ebrei cap. 1) è detto
che Iddio è il Dio del Figliuolo (v.
9); perciò il Figliuolo è altro da
Dio. Altrove abbiamo detto che Cristo è il Sommo Sacerdote secondo l’ordine di
Melchisedec [Ebrei 5,10]. In
proposito è scritto: «Cristo
non si prese da sé la gloria d’esser fatto Sommo Sacerdote; ma l’ebbe da Colui
[da Dio, che è sovrano] che gli disse: “Tu sei il mio Figliuolo; oggi ti ho generato”» (Ebrei 5,5). Ecco
che ritorna nuovamente l’idea dell’adozione e della elezione a Re e a Sommo
Sacerdote (generato Messia, Figlio di
Dio, Eletto). Con il discorso di Paolo nella sinagoga di Antiochia di Pisidia è
ribadita l’idea che Gesù è l’Adottato per eccellenza [il Messia, non un
messia; è quello annunciato da Mosè (Deuteronomio
18,15,18) e dai profeti], e ciò è dimostrato dal fatto che è risorto: Dio non
poteva permettere che il suo Adottato, il suo Santo Figliuolo (Giovani 6,69), rimanesse nella tomba;
era senza peccato (a differenza degli altri messia che lo avevano preceduto), e
pertanto non sarebbe dovuto morire: risuscitò da morte (Atti 13,35-37). Ed anche qui, Paolo ricorda agli ascoltatori il Salmo 2: «Tu [Davide, o anche altro re] sei il mio Figliuolo, oggi Io ti ho
generato» (Atti 13,33/b); è una
formula dell’elezione a Re, dell’adozione.
Questa formula, è l’appellativo con il quale è indicato Gesù di Nazareth; ma di
per sé non indica affatto che Gesù è Dio, semmai lo esclude. Alla
trasfigurazione (Matteo Cap. 17) si
ripresenta la formula dell’adozione ascoltata al battesimo di Gesù: «Questo è il mio diletto figliuolo, nel
quale mi sono compiaciuto» (v. 5/b). E anche questa formula è lontana mille
miglia dall’idea che possa alludere alla divinità di Gesù Cristo. Col discorso
di Paolo, di cui sopra, l’apostolo dice che Dio risuscitando Gesù ha adempiuto
la promessa fatta ai padri (v. 32), concetto che preciserà ulteriormente ai Romani (cap. 1): «Dio aveva già promesso [il Salvatore] per mezzo dei suoi profeti…, nato dal seme di Davide secondo la carne
[cioè secondo la comune umanità, quella di Adamo, come nascono tutti gli
uomini: Galati 4,4], dichiarato Figliuolo di Dio con potenza
secondo lo spirito di santità mediante
la sua risurrezione dai morti…»
(vv. 2-4). Gesù è il Figlio di Dio (cioè il Messia); lo è sin dal concepimento,
o dalla nascita, per scelta (per
elezione) divina, Dio (che è onnisciente e onnipresente nello spazio e nel
tempo) lo ha adottato “avanti la fondazione del mondo” sulla base della sua
preconoscenza; ma i credenti ne hanno la prova tangibile con la sua
risurrezione, la quale diventa come una dichiarazione (o una prova appunto)
irrefutabile della messianicità per eccellenza di Gesù di Nazareth. Questa
prova non è la prova che Cristo sarebbe “disceso dal cielo in terra” (Dio
incarnato); non è di questo che parla Paolo. Al contrario, Gesù è innalzato
allo stato proprio del corpo spirituale
(cioè allo stato di Signore, come vedremo in seguito), è innalzato allo stato
del “Figliuolo di Dio per eccellenza”,
non acquista la regalità (o la signoria) del “Figliuolo di Dio Davide”
(anzi vi ha rinunciato: Filippesi 2,5-11).
Ha il titolo di Davide, ma è il Primo dei risorti (Apocalisse 1,5), il primo degli esseri spirituali (1 Corinti 15,45-46). Gesù è il
Salvatore, colui che garantisce a tutti la risurrezione dai morti e la
trasformazione dei viventi (Giovanni
5,28; 1 Corinti cap. 15; 1 Tessalonicesi 4,13-18).
e)
L’Unto Gesù di Nazareth. Nel
“libro” dell’Esodo, al cap. 29, è codificata la cerimonia di consacrazione (o
di investitura) del sacerdote, che
trova poi riscontro in altre parti della Scrittura. Ad un certo punto è detto: «Prenderai l’olio dell’unzione, glielo
spanderai sul capo, e l’ungerai». In sostanza, nella Bibbia, il verbo
“ungere” è sinonimo del verbo “consacrare”; e in ogni caso implica una scelta o elezione, da parte di Dio e del popolo. Così, anche i re erano unti in quanto eletti, ovvero eletti in
quanto unti. E poiché gli eletti erano proclamati “Figli di Dio”, erano considerati adottati. Si tratta di una cerimonia sacra, come appare dal termine
consacrare. Il prof. Giulio Busi in proposito scrive: «Anche nei passi [biblici] che
commentano l’investitura dei re d’Israele compare del resto la chiara
espressione della sacralità del gesto [di ungere]: nel caso dell’unzione di
Davide da parte di Samuele l’autore biblico fa così riferimento allo spirito del
Signore che s’impossessa del monarca: Allora
Samuele prese il corno dell’olio e l’unse…
E lo spirito del Signore [di Jhwh] s’impadronì di Davide da quel giorno in poi
(I Samuele 16,22). L’utilizzo
dell’olio segnava quindi non solo il conferimento di una speciale dignità ma
anche una prossimità dell’unto alla sfera trascendente e pertanto una
particolare tutela da parte del Signore [Iddio]»49.
Ora, nelle lingue moderne “unto” è traduzione del termine ebraico māšîaḥ [Messia], che nel
greco a volte è messias e più spesso christós [Cristo], dal verbo chrio [ungere]. In sostanza “Messia” e
“Cristo” sono sinonimi; hanno lo stesso identico significato. Gesù di Nazareth
è l’Unto di Dio, il Messia annunziato da Mosè e dai profeti.
Il Vangelo di Luca riferisce che Gesù,
dopo il battesimo ricevuto da Giovanni il Battezzatore, nel fiume Giordano, in
occasione della quale lo Spirito scese su
di lui e si udì la voce dal cielo che diceva “tu sei il mio diletto Figlio
[il Messia] in te mi sono compiaciuto” (3,22), si recò a Nazareth e, com’era
solito fare nella sinagoga, alzatosi per leggere, gli fu posto il rotolo del
profeta Isaia. Il Nazareno, apertolo, lesse il passo [61,1-2] dove è detto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me [“storicamente”:
sul profeta Isaia]; perciò mi ha unto
[mi ha proclamato “messia”] per
evangelizzare i poveri; mi ha mandato ad annunziare la liberazione ai
prigionieri, e ai ciechi il recupero della vista; a rimettere in libertà gli
oppressi, e a proclamare l’anno accettevole del Signore» (Luca 4,18-19). Quindi, rivolto ai
presenti, aggiunse: «Oggi, si è adempiuta
questa scrittura, che voi udite» (v. 21). Gesù, in occasione del suo
battesimo, fu unto non di olio ma di Spirito. Il “libro” degli Atti, al cap. 10 parla della «storia di Gesù di Nazareth; come Dio lo ha
unto di Spirito Santo e di potenza; e com’egli è andato dappertutto facendo del
bene e guarendo tutti quelli che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio
era con lui» (v. 38). Ecco chi è Gesù! Ѐ il Figlio di Dio, cioè il Cristo
(il Messia)! L’Unto, l’Eletto, l’Adottato. Ѐ il Figliuolo dell’Uomo annunciato
nel “libro” del profeta Daniele: il Re di un regno che durerà in eterno. Non è
Dio!
f) I Giudici, Dèi d’Israele. Al cap. 10 di Giovanni,
Gesù è in pericolo di essere lapidato. Fa il celebre “discorso del buon
pastore”, e ad un certo punto usa una iperbole,
dice: «Tutti quelli che sono venuti prima
di me, sono stati ladri e briganti…»; e più avanti conclude: «Io sono il buon pastore» (vv.8, 11).
Implicitamente chiama “ladri” e “briganti” i profeti, i re, i giudici… che si
sono succeduti in seno al popolo ebraico, e li contrappone a se stesso, per
dire che tra lui e i “messia” che lo hanno preceduto c’è una differenza grande
come una montagna50. Molti tra
i Giudei sono adirati; dicono: «Egli ha
un demonio; è fuori di sé» (v.20). Lo vogliono lapidare (v. 31). Per farlo
non basta mettere in campo che il Nazareno (secondo i Giudei) avrebbe offeso i
grandi di Israele; bisognava trovare un’accusa più grave, tale da giustificare
una condanna a morte; che fosse un blasfemo, un bestemmiatore. Gli dicono: «Ti lapidiamo perché tu, che sei uomo, ti
fai Dio» (v. 33). Era vera l’accusa? No! Era falsa; era una calunnia, come
molte altre accuse che gli venivano mosse. Su quale pretesto si basava? Lo ha
scritto l’evangelista stesso, al cap. 5 del Vangelo di Giovanni: Cercavano
di ucciderlo «perché non soltanto
violava il Sabato, ma chiamava Dio “suo Padre”, facendosi uguale a
Dio» (v. 18). Per quanto
riguarda la prima accusa, il riferimento era al miracolo della guarigione del
paralitico di Betesda, al quale Gesù, in giorno di Sabato, aveva detto: «Prendi il tuo lettuccio e cammina» (v.
8). La difesa (implicita) di Gesù poggia sulla regola che «è lecito fare del bene [anche] in giorno di Sabato» (Marco 3,1-5 e testi paralleli. Cfr. pure
Giovanni 7,23). Mentre per quanto
riguarda il fatto che chiamava Dio “suo
Padre” (Padre mio), Gesù si difende citando la Scrittura, come vedremo più
avanti.
Intanto noi facciamo osservare che
anche Davide (o il re in generale) chiamava Dio “suo Padre” (Padre mio): Salmi
2 e 89, soprattutto rispettivamente i vv. 7 e 26 (cfr. Atti 13,33; Ebrei 1,5;
5,5-6; 2 Samuele 7,14).
Nel testo greco non c’è l’uso dei segni
d’interpunzione, in questo caso quelli che adoperiamo per riferire o citare
direttamente parole e pensieri altrui; se quest’uso ci fosse stato, le
proposizioni «non soltanto violava
il Sabato», e «facendosi uguale a Dio»,
le troveremmo sicuramente tra virgolette. Ѐ ovvio, infatti, che l’evangelista
non è lui che sta dicendo che Gesù violava il Sabato (semmai sta dicendo il
contrario); e neppure dice che Gesù si faceva (o era) Dio; riferisce le parole
dei Giudei (che noi scriveremmo tra virgolette). E poiché egli riferisce le due
“questioni” unitamente, cioè ambedue come calunnie
dei Giudei, senza preoccuparsi di distinguerle in qualche modo, vuol dire che
il “farsi Dio” era appunto una ingiusta accusa, così come lo era quella di
violare il Sabato. Cosicché, già l’evangelista ci dà la soluzione della
questione posta dai Giudei: Giovanni afferma, implicitamente, che Gesù non si è fatto Dio. E questo per
noi è evidentissimo: sappiamo che in Israele, “Figlio di Dio” era il Messia,
l’Unto; non era affatto considerato Dio. I Giudei travisavano i concetti allo
scopo di mettere Gesù sotto accusa. Ma vediamo direttamente le parole con le
quali Cristo si difende dalla calunnia. Eccole:
«Non è egli scritto nella vostra legge: Io ho detto: Voi siete dii [o dèi]? Se chiama dèi coloro ai quali la parola di Dio è stata diretta (e la
Scrittura non può essere annullata), come mai dite voi a colui che il Padre ha
santificato e mandato nel mondo, che bestemmia, perché ho detto: Sono Figliuolo
di Dio?» (Giovanni
10, 34-36).
Sono “Figliuolo di Dio”, non sono Dio!
Gesù allude all’usanza della tradizione ebraica di chiamare con il titolo di dèi le persone ragguardevoli, cioè i
“Figli di Dio”, «coloro ai quali la
parola di Dio è stata diretta»:
generalmente i profeti, i giudici, i sacerdoti… Questo afferma, appunto: di
essere “Figliuolo di Dio”, non “Dio”. In particolare, e soprattutto, si
riferisce al Salmo 82:
«Iddio
[Jhwh] sta nell’assemblea di Dio; egli giudica in mezzo agli dèi. Fino a quando giudicherete
ingiustamente, e avrete riguardo alle persone degli empi? Fate ragione al
misero e all’orfano, rendete giustizia all’afflitto e al povero! Liberate il
misero ed il bisognoso, salvatelo dalla mano degli empi! Essi non conoscono né
intendono nulla; camminano nelle tenebre; tutti i fondamenti della terra sono
smossi. Io ho detto: Voi siete dii, siete tutti figliuoli dell’Altissimo. Nondimeno
morrete come gli altri uomini, e cadrete come qualunque altro dei principi.
Lèvati, o Dio [Jhwh], giudica la terra, poiché tutte le nazioni hanno da essere
la tua eredità».
Da notare in questo Salmo la sinonimia
tra il termine “dèi” [al singolare: “dio”] e l’espressione “figliuoli
dell’Altissimo” [al singolare: “Figliuolo dell’Altissimo”]. Ora, quest’ultimo è
sinonimo di “Messia”, sulla base di quanto abbiamo detto fin qui, e sulla base
delle parole pronunciate dall’angelo all’annunzio della nascita del Salvatore: «…gli porrai nome Gesù. Questi sarà grande, e
sarà chiamato Figliuolo dell’Altissimo, e il Signore Iddio gli darà il trono di
Davide suo padre [suo antenato]…»
(Luca 1,31-32). Figlio di Dio e
Figlio dell’Altissimo sono sinonimi, e significano Messia, e dunque il Messia
può essere chiamato “dio”. Così è chiamato, infatti, alla risurrezione, da
Tommaso: ὁ θeóς μου (Giovanni
20,28). Ma torniamo al discorso di Gesù e al suo argomentare, chiaro, esplicito
e preciso.
In altre parole, Gesù dice che il
Figliuolo di Dio (il Messia) può essere chiamato “dio” come gli antichi giudici
(i Figliuoli dell’Altissimo); anzi, lui a maggior ragione, perché gli antichi
giudici non giudicavano con giustizia [vedi il Salmo 82], mentre Gesù è «il giusto giudice» [2 Timoteo 4,8; cfr. il v. 1], ed anche perché l’espressione
“Figliuolo di Dio” (o dell’Altissimo) significa “Messia” (non significa “Dio”);
ed egli, Gesù, è il Messia per eccellenza, colui al quale «la parola di Dio è
stata diretta» (il Profeta), e che il Padre (il Creatore) ha santificato
[scegliendolo, al battesimo, e così attuando ciò che aveva stabilito avanti la
fondazione del mondo, dall’eternità] e che ha altresì mandato [ἀπέστειλεν] nel
mondo.
Gesù è l’Apostolo di Dio (Ebrei 3,1), il Profeta e il Mediatore (Deuteronomio 18,15,18; 1 Timoteo 2,5), il Sommo Sacerdote (Ebrei cap. 8), il santo servitore che
Dio ha unto (Atti 4,27), il duce e il
perfetto esempio di fede (Ebrei
12,2), il Re di un regno che durerà in eterno: è il Figliuolo dell’Uomo (Daniele 7,13-14). Gesù, appunto, ha
detto di essere il Messia, il Cristo; non ha detto di essere Dio. Dunque, se
Gesù è il Messia, come dichiara apertamente, non può essere accusato di
bestemmiare per il fatto che chiama Dio “suo
Padre” (Padre mio), perché Dio lo ha adottato (lo ha fatto Messia, Figlio),
come adottava i re, i sacerdoti… i capi di Israele, con la stessa formula di
adozione; lo ha “generato” al battesimo praticato da Giovanni il Battezzatore,
e lo ha unto di Spirito. Se lo ha adottato, allora è suo Figlio; perciò Dio è suo Padre: Questo è il mio diletto Figliuolo, oggi ti ho generato, ti ho
scelto, ti ho eletto, ti ho adottato, ti ho unto; «oggi!». Pertanto, non è vero
che Gesù violava il Sabato, e non è vero che dicendo “mio Padre” (o Padre
mio) si facesse Dio. È evidente, dunque, che la risposta di Gesù
all’accusa dei Giudei di farsi Dio, è caratterizzata dalla negazione della divinità che i Giudei invece speravano sentire
affermare esplicitamente dal Nazareno. I Giudei speravano, infatti, che dicesse
di essere Dio, e ciò è in qualche modo, e in ante litteram, quanto il cristianesimo ellenico gli attribuirà e
quanto molti teologi di oggi gli attribuiscono. Invece, la sua, è
l’affermazione pura e semplice di essere “Figliuolo di Dio”, cioè “Messia”. Di
più: è come se Gesù avesse detto esplicitamente: «non sono Dio». Dirà subito
dopo di essere strumento di Dio,
usando, come spesso faceva, immagini e metafore (cfr. vv. 37-38). Se infatti la
risposta di Gesù fosse stata la conferma di essere e di aver detto altresì di
essere Dio (come i Giudei speravano che confermasse, per avere il pretesto di
lapidarlo), ci sarebbe stata immediatamente la lapidazione del Nazareno, che
probabilmente non avrebbe potuto sfuggire dalle loro mani inique; si è allontanato
(Giovanni 10,39).
La parola di Dio, anche prima di Gesù
era diretta agli unti, ai “Figliuoli
di Dio”: ai profeti, ai re, ai sacerdoti, ai giudici… di Israele, i quali erano
detti dio, dii (dèi), ma non
erano Dio. Soltanto in questo senso, quello degli antichi profeti, il
Nazareno potrebbe chiamarsi dio;
termine equivalente a divino50 bis.
Gesù, però, in molte occasioni si presenta con il titolo di Figliuolo dell’Uomo
(che significa soltanto “Uomo”, uomo per eccellenza), mai con il titolo
espresso dal termine “divino”, né tanto meno con un titolo che potrebbe
implicare la natura divina. Perciò Paolo dice: «Per noi c’è un Dio [εἷς θεὸς] solo, il Padre [il Creatore]…
e un Signore [εἷς κύριος] solo, Gesù
Cristo…» (1 Corinti 8,6). “Figliuolo dell’Uomo” comprende e riassume tutti i
titoli cristologici, tranne uno: “Signore”, che esaminiamo qui appresso, e che
può considerarsi parallelo al precedente, quasi sinonimo. “Signore” è il
raggiungimento della Meta (lo stato di immortalità), nel quale Gesù è il primo;
il Nazareno è il primo a raggiungere il traguardo: «Io
sono il primo [Adamo, l’edenico
vero Uomo che fu mortale], e l’ultimo
[Adamo, che ha raggiunto la meta dell’immortalità], il
Vivente; e fui morto, ma ecco son vivente per i secoli dei secoli, e tengo le
chiavi della morte e dell’Ades» (Apocalisse 1,18).
Innanzi tutto dobbiamo dire qualcosa
riguardo al significato generico del termine “signore”. Anticamente era senex, parola di origine indoeuropea,
che significava “vecchio”; certamente nel senso di “persona di riguardo”,
almeno alle origini. Il termine nell’A.T. è espresso con vari vocaboli, che
corrispondono pressappoco ai termini greci despótes
e kýrios. Inoltre, il termine kýrios era adoperato in una vasta area culturale dell’antichità per
designare anche la divinità. Gli Israeliti adoperavano il corrispondente
ebraico ´ad̲ȏnây in
sostituzione del tetragramma divino (JHWH) che forse era impronunciabile e
certamente era vietato pronunciare invano51.
a) Problematica del termine
“Signore” nella teologia biblica. Ai
nostri giorni, nel campo della teologia biblica, si dice da varie parti che per
comprendere bene il significato del termine “Signore” nel N.T., quando è
riferito a Gesù di Nazareth, si deve tener conto che gli Israeliti, con esso,
indicavano Dio. Cosa significherebbe questo discorso? Che è sufficiente che un
profeta venga chiamato “Signore” per concludere che è Dio? Dio incarnato?!
L’idea degli dèi che si incarnano è idea propria del politeismo, lontana mille
miglia dalla cultura ebraica. Paolo parla degli dèi (i signori divini) connotandoli come dèi “celesti” e dèi “terrestri” (1 Corinti 8,5); quest’ultimi sono o
indicano i re, gli imperatori, i capi del Mondo, coloro che assieme ai primi
potremmo definire «li dèi falsi e bugiardi» usando le parole che Dante mette in
bocca a Virgilio nel Primo Canto dell’Inferno.
A noi non sembra che il termine “Signore” possa corrispondere al nome di Dio,
né alla sua essenza, considerato che il termine in sé non significa “dio”, né è
adoperato esclusivamente in sostituzione del nome del Dio, e soprattutto considerato che il Creatore stesso rivelò, a
Mosè sul Monte Sinai, il proprio nome ponendovi una particolare enfasi. Dio non
disse il mio nome è “Signore”; si presentò con il tetragramma (Esodo cap. 3;
particolarmente i vv. 14 e 15; cfr. Esodo 6,2-3), la cui “spiegazione”, che Dio
stesso dà, è pregna di significato misterioso proprio perché è nascosto e
inspiegabile, e tale rimane; come inspiegabile e inconoscibile è Dio (cfr. Giobbe 11,7-9; Isaia 55,8-9; 1 Corinti
1,21; Esodo 15,11; Salmo 35,10; Deuteronomio 33,26; Isaia
40,25). Iddio (JHWhH) disse a Mosè: «Io Sono Colui che Sono. Dirai così ai
figliuoli d’Israele: L’Io sono m’ha mandato da voi» (Esodo 3,14). Se di questa espressione, e
del tetragramma da cui deriva, si vuole proprio trovare una spiegazione
nell’insegnamento di Gesù, che sia alla portata degli esseri umani (e non
importa se sarà metaforica), questa è senza dubbio l’idea che Dio è il
Creatore; meglio ancora: Dio è Padre, il Padre eterno.
b) “Jhwh” è
equivalente a “Padre”. Il concetto di Dio come “padre” era presente
nella cultura ebraica (Isaia 63,16),
ma Gesù Cristo vi ha posto un particolare accento: dal N.T. apprendiamo che Gesù è il Figlio (l’Adottato); i credenti
sono i figli (gli adottati); Dio è il Padre; Cristo è l’Erede; i credenti sono
Eredi con Cristo; ed anche il Mondo lo è, il quale come tutte le creature di Dio aspetta la redenzione (Romani 8,14-23). Dice Gesù: «Padre…, Io ho manifestato il tuo nome agli
uomini… ho fatto conoscere loro il
tuo nome [il nome “Padre”]» (Giovanni 17,5,6,26). La preghiera
insegnata da Gesù comincia proprio con la parola “padre”: «Padre nostro…» (Matteo
6,9). Nel N.T., e soprattutto negli
evangeli, il nome “Padre” è presente quasi in ogni pagina. Gli storici del
Cristianesimo, quando vogliono sintetizzare in pochissime parole il messaggio
di Gesù inteso come “novità”, dicono che il Nazareno ha rivelato Dio come
Padre. Questa è la novità (la lieta novella, l’evangelo) che Cristo ha
predicato! Dio è il Padre di tutto e di tutti, il Creatore; ma non un creatore
freddo, impersonale e staccato dal Mondo; la metafora dice “Padre”, padre per
eccellenza, un padre che ama la sua creatura; e sicuramente questo significato
è contenuto nel tetragramma divino: JHWH. Certamente non è contenuto nel
termine “signore”. Nessuno di noi chiamerebbe il proprio padre con la parola
“signore”; e se chiama Dio “Signore” non gli dà però lo stesso significato che
gli dà quando chiama “signore” il vicino di casa o un passante; quando chiama
Dio “Signore” si riferisce a JHWH, per interposta parola, senza nominarlo. Ed è
così pure quando si rivolge a Cristo, anche se in quest’ultimo caso il termine
“signore” è pregno di significato proprio ed esclusivo del Nazareno. Insomma il tetragramma JHWH è univoco; esso
è in esclusiva il sacro nome di Dio (indica Dio stesso nella sua essenza) e non può essere equiparato a
“Signore”; ed è altresì chiaro che “Signore” non può essere equiparato al
tetragramma JHWH neppure nell’accezione [vedi più avanti] per la quale è
adoperato per Gesù Cristo. In ogni caso, è evidente che si può dedurre
dall’insegnamento di Gesù che “Padre” è contenuto nel tetragramma divino.
Questo discorso si può sintetizzare dicendo che il Signore Gesù Cristo non è
Dio perché non è Padre (non è il
Creatore, non è JHWH, non è il Dio); e, ugualmente, Dio non è il Signore Gesù
Cristo. Dio è Padre; e, perciò, se Dio è Uno ed Unico è soltanto Padre; perché, almeno in questo caso, la parola “padre”
non indica la persona distinta
dall’essenza, ma l’essenza stessa
(una e indivisibile), perché Dio è la sua propria essenza, è soltanto essenza: cioè l’essenza “Padre”. E se
vogliamo considerare il termine “padre” rivolto a Dio come persona, allora Dio è una sola persona e non tre perché è una sola essenza, quella che abbiamo considerato
come persona (non ci sono tre Padri): in Dio non c’è distinzione tra persona ed essenza talché, se ci fosse, Dio potrebbe essere (?) uno
nell’essenza e trino nelle persone; che cosa sarebbe questa essenza se non
fosse un qualcosa? E se questa qualcosa, sempre riguardo a Dio, si conviene che
sia “persona”, allora una è la persona perché una è l’essenza. Dio non è composto52. Voltaire, basandosi giustamente sulle
affermazioni degli antitrinitari, diceva: «[In Dio] è vero che non vi sono meno
essenze che persone, né meno persone
che essenze»53
c) “Padre” indica l’essenza di
Dio, cioè “Jhwh”. Non è vero che nella Bibbia
il termine “Padre” indicherebbe una delle tre (?) persone della Trinità; indica
l’essenza di Dio, che è una e indivisibile; indica Dio stesso perché Dio è la sua essenza: “Padre” è Dio stesso,
Uno e Unico, anche se il termine “padre” qui può essere considerato,
giustamente, in senso metaforico. Dice Gesù: «Padre, questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e
colui che tu hai mandato, Gesù Cristo» (Giovanni
17,3). Da un padre (anzi, dal Padre per eccellenza: il «Padre eterno»)
l’umanità può aspettarsi e deve aspettarsi la salvezza. Nessun padre (e tanto
meno un Padre Onnipotente, il Creatore) può perdere uno solo dei suoi figli (1 Timoteo 2,4). Ecco la novità! È una
“novità” effettivamente “antica”. Dice l’Eterno (Jhwh): «Una donna dimentica
ella il bimbo che allatta?...
Quand’anche le madri dimenticassero, io non ti dimenticherò» (Isaia 49,15). Dio è una madre, o un
padre, perfetto.
Quando nell’A.T. il termine “Signore”(´ad̲ȏnây) è rivolto a Dio, non
si intende con ciò pronunciare (o anche semplicemente indicare) il nome di Dio;
si intende rivolgersi a Dio mediante un attributo che fa parte propriamente del
linguaggio umano: Padrone; appunto, Signore. Però il termine non indica esclusivamente un attributo divino; non
è adoperato esclusivamente per Dio. Gli Israeliti non pronunciavano il nome del
Creatore perché è vietato nei dieci comandamenti dati da Dio stesso a Mosè; e
pertanto si rivolgevano a Dio con l’attributo di Signore, che è un termine chiaro
a tutti. Proprio perché era vietato pronunciare il nome di Dio, noi deduciamo che “Signore” non era e non è
il nome di Dio, non indica l’essenza divina, altrimenti anche “Signore” non
si sarebbe potuto pronunciare. È proprio il nome (il nome!) a indicare
l’essenza di Dio (cioè Dio stesso), anche se è incomprensibile. E pertanto il
nome divino deve essere esclusivo di Dio; mentre “Signore” non è e non può
essere esclusivo di Dio. “Signore” è un attributo (anche quando è usato come nome),
facilmente comprensibile, di cui tutti conoscono il significato; vuol dire
Padrone. La pronuncia del nome di Dio (e quindi l’indicazione della sua
essenza, che è Dio stesso) potrebbe essere Jheovah (v. nota 51); certamente non è Signore.
Dice Dio a Mosè e agli Israeliti: «Io sono JHWH, il Dio tuo, che ti ha tratto dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù…» (Esodo
20,2).
d) Distinzione sostanziale di
“Padre” e “Signore”. Come abbiamo già
detto, nella Bibbia il termine “Signore”
è adoperato anche per indicare Dio e Gesù Cristo: e abbiamo visto che
nell’uso generico, ed anche nel caso di Dio, significa “Padrone”, ma non indica
l’essenza divina. Inoltre, nel caso di Dio sostituisce impropriamente
l’impronunciabile nome del Creatore, o meglio: permette a chi ne parla di
evitare di pronunciarlo invano; mentre nel caso di Gesù Cristo ha un diverso
suo proprio esclusivo significato che va al di là di quello etimologico. È ciò
che vedremo qui di seguito.
Per cominciare osserviamo che Paolo
distingue nettamente “Dio” da “Signore”; infatti, abbiamo visto al
paragrafo precedente che scrivendo ai Corinzi afferma: «Per noi [cristiani] c’è un Dio solo,
il Padre [il Creatore], dal quale sono tutte le cose, e [ ] noi viviamo per [grazie a] lui; e un solo Signore, Gesù Cristo [il Salvatore], mediante il quale sono
tutte le cose, e [ ] mediante il quale noi siamo
» (1 Corinti 8,6). Se “Signore”
significasse “Dio” o implicasse la natura divina, ci sarebbero due Dii, ovvero
ci sarebbero due Signori. In questo caso “Padre” e “Signore” (i due Dii) si
identificherebbero? Il problema non si pone, perché Paolo distingue l’uno
dall’altro in maniera sostanziale: oggi, col senno di poi, diremmo: li
distingue quanto alla “natura”; quanto all’essenza.
Paolo non avrebbe potuto fare distinzione esplicita tra natura e persona perché
non è distinzione che si può fare in Dio
(contrariamente a ciò che affermano i trinitari); d’altra parte, un discorso di
questo genere non faceva parte del suo bagaglio culturale. In ogni caso, non
c’è vera distinzione tra “natura” e “persona” se non in certa filosofia scolastica. Paolo usa due nomi: “il
Padre” e “il Signore”; e un nome (anche quando, soprattutto, deriva da un
attributo) indica l’essenza (“ciò
che è” necessariamente; ammesso,
nel nostro caso, che Dio sia qualcosa); due nomi distinti e diversi
ci conducono a due essenze, e ciò
equivale a due sostanze, cioè due individui
costituiti da uguale (o anche da diversa) essenza ma comunque due, e l’individuo implica l’essere
composto che non può essere Dio.
Infatti, soltanto uno dei due menzionati è definito “Dio”, il Padre, il
Creatore (il Dio), che non è un
individuo; e soltanto uno dei due menzionati è definito “Signore”, cioè Gesù
Cristo (il Salvatore), che è un individuo (Uomo Perfetto tra gli uomini, tra i suoi fratelli ancora imperfetti: Ebrei 2,11; «il Santo di Dio»: Giovanni 6,69); il primo è “Dio”, il
secondo è “Signore”; il primo è presentato come Padre, il secondo come
Salvatore54. Brevemente: c’è
un solo
Dio e un solo Salvatore; e la distinzione è sostanziale, come direbbe
Cartesio, cioè reale, quella che si
ha tra due sostanze diverse e separate, talché se nella proposizione il Padre
fosse Dio (come infatti è) e se anche il Signore fosse Dio (per ipotesi),
allora ci sarebbe l’affermazione di due Dii. Sappiamo invece che il Salvatore
dipende da Dio (Giovanni 5,30) e
dunque non è Dio; mentre Dio non dipende da niente e da nessuno, perché è Dio (Atti 17,24-25). Perciò Paolo dice che il
Padre è una cosa (è Dio) e Gesù Cristo è un’altra cosa (è il Salvatore o, più
precisamente, il Signore). E conclude che a differenza dei politeisti (cfr. v.
5) i cristiani credono all’esistenza di un solo Dio. D’altra parte, abbiamo già
visto che Gesù Cristo stesso dice (in Giovanni
17,3) che soltanto il Padre è «il vero Dio». Se nel discorso ai Corinzi Paolo si propone, ovviamente,
di sostenere la concezione monoteistica, è logico aspettarsi l’affermazione del
Dio Uno e Unico, e non del Dio inteso come Unità composta di tre persone, che è
idea che potrebbe derivare dalla filosofia neoplatonica politeista, estranea
alla cultura ebraica, al pensiero di Paolo e al Nuovo Testamento; e secondo noi
contraria alla ragione55.
e) Il significato di “Signore” in
Filippesi 2,11. Dunque, abbiamo visto che
Paolo, ai Corinzi, distingue sostanzialmente “Dio” da “Signore”. Ora
possiamo vedere che, ai Filippesi, precisa (implicitamente) il
senso del termine in questione. Al cap. 2 esorta i credenti ad avere «lo stesso sentimento che è stato in Cristo
Gesù» (v. 5). Quindi prosegue scrivendo uno dei brani più celebri, definito
inno liturgico dagli esegeti; è il
brano che, più di ogni altro nel N.T., ha dato filo da torcere ai traduttori,
ai biblisti e ai commentatori. Ma è allo stesso tempo quello che più di ogni
altro ci fa comprendere il senso e l’importanza del titolo di Signore inteso
come proprio di Gesù Cristo.
«Abbiate in
voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, il quale, pur
essendo in forma di Dio [ἐν μορϕῇ(=εἰκών) θεοῦ]56, non considerò l’essere uguale a Dio
qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma spogliò se stesso, prendendo forma
di servo, divenendo simile agli uomini [ἐν ὁμοιώματι ἀνθρώπων γενόμενος]; trovato esteriormente come
un uomo [ὡς ἄνθρωπος], umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte,
e alla morte di croce. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato [ὑπερύψωσεν] e gli ha dato il nome che è al di sopra di
ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli,
sulla terra, e sotto terra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il
Signore, alla gloria di Dio Padre [θεοῦ πατρόϛ: di Dio, il Padre]»57 (Filippesi
2,5-11). [Traduzione Nuova
Riveduta].
Questo testo di Filippesi indica meglio di ogni altro il significato del termine Signore e il motivo per il quale è
attribuito a Gesù Cristo; è un testo eccellente perché spiega il concetto in
modo chiaro ed esplicito. Allo stesso tempo, per altro verso, è un testo molto
problematico58, a tal punto
che si è avuto il sospetto che, almeno in parte, potrebbe non essere autentico;
si è pensato a un’aggiunta apocrifa o a una o più glosse entrate nel testo. Esprime qualcosa di inaspettato, in parte
estraneo nei confronti della teologia di Paolo e del Nuovo Testamento; il
significato, per certi aspetti, è oscuro (per lo meno nelle traduzioni che si
fanno di solito), il sapore è mitologico e tipico del politeismo. Di certo si
può almeno rilevare quanto ha scritto Oscar Cullmann, il quale dice che qui
Paolo «rompe un po’ il filo
dell’epistola e ricorre a un vocabolario diverso»59.
Resta comunque chiara e valida
l’idea che attribuisce a Cristo il titolo di Signore, e ad un tempo la
motivazione che la giustifica. A parte l’esortazione a seguire l’esempio di
Gesù, che ovviamente è presente in tutto il Nuovo Testamento, questa di «Gesù Signore», come la motivazione che l’accompagna (l’umiltà e la fedeltà fino
al sacrificio), è in questo testo l’unica parte che si accorda perfettamente
con la teologia neotestamentaria, perché è corroborata da altri testi che
confermano il significato di Signore nella
stessa accezione cristologica propria di Filippesi
2.5-11.
1. morphĒ, EÍDOS, EIKŌN. Per comprendere questo testo, nel suo insieme, è
necessario soffermarsi prima di tutto sul termine morphȇ (forma), là dove dice «pur essendo in forma di Dio…». Il
significato del termine, nel comune linguaggio sia delle lingue antiche e sia
specialmente di quelle moderne è ovvio, ed è a tutti noto. È l’aspetto
esteriore di qualcosa o di qualcuno; ed anche il modo di essere, di apparire.
La filosofia ha precisato ulteriormente questo termine sin dall’antichità nelle
sue varie sfaccettature, via via fino all’epoca moderna. Platone e Aristotele
ne hanno fatto grande uso nei loro scritti, facendone un termine tecnico
assieme al pressoché gemello εἶδος (eídos, forma). Con
quest’ultimo termine Platone intendeva le essenze delle cose come realtà
trascendenti, cioè l’universale (l’Idea); Aristotele intendeva l’essenza reale e immanente delle cose, di
ciascuna cosa, cioè le cose stesse (la “forma” come sostanza necessaria). Sintetizzando, la forma per la filosofia
greca era l’essenza (trascendente o immanente: o le Idee, o le cose reali
immanenti). Questo fatto ha enormemente influenzato l’interpretazione del testo
che stiamo esaminando. Si è detto: Cristo era (ed è) di “natura” divina: Dio
fatto uomo; perché è detto che era «in forma
di Dio», di essenza divina. Intanto la prima obiezione che si può fare è che
sia Platone che Aristotele, quando parlano dell’essenza reale (trascendente o
immanente, non importa) usano più propriamente eídos e non morphē;
quest’ultimo riguarda piuttosto la forma intesa come aspetto esteriore fatto di
linee di contorno e disposizione degli elementi costituenti. Nel testo di Filippesi troviamo appunto morphē, per cui l’applicazione alla
filosofia greca è per lo meno incerta. Sembra quasi che in questo brano vi
abbia messo mano qualcuno che aveva una certa infarinatura della filosofia
greca, senza esserne esperto. Che cosa vuol dire che Cristo è in forma (morphē)
di Dio? Che forma ha Dio? Inoltre, non è alla filosofia greca che dobbiamo
guardare quando si vuol comprendere il Nuovo Testamento. Profondi studiosi
della Bibbia come Flacius, Lutero, Erasmo, Spinoza e Locke per citarne solo
alcuni, ci hanno insegnato che dobbiamo comprendere il Nuovo Testamento con il
Nuovo Testamento, metodo che deriva dal principio protestante secondo il quale
la Bibbia deve spiegare la Bibbia.
Vediamo allora quali testi biblici
possono aiutarci in questo compito. Osserviamo subito che il termine morphē, in tutto il N. Testamento,
applicato alla persona Gesù di Nazareth, lo troviamo una sola volta, appunto
nel testo di Filippesi 2.6 che stiamo
trattando e dove, secondo noi, almeno questo termine (μορϕῇ) deve considerarsi dubbio. Forse è questo uno dei motivi per
il quale il Cullmann ha detto che l’autore dell’epistola ricorre
improvvisamente a un vocabolario diverso [è una glossa?]: Paolo ha sempre usato il termine “immagine”, e non
“forma”. Nel N.Testamento troviamo abbastanza spesso il termine εἰκών
(immagine). Paolo stesso, in 2 Corinti
4,4 (u.p.), parla di Cristo «che
è l’immagine [εἰκών] di Dio». Questa è la definizione precisa
della natura di Cristo: la natura umana nella sua perfezione divina, vale a
dire la natura di Adamo prima che peccasse, secondo la metafora della Genesi: «Dio creò l’uomo [Adamo] a sua immagine; lo creò a immagine di Dio;
li creò maschio e femmina» (1,27).
Perciò Cristo nel N.T. è definito il Secondo Adamo, ovvero l’Ultimo (1 Corinti cap. 15; Romani 5,14). Egli è l’Uomo Nuovo, creato a immagine di Dio (Efesini 4,24; Romani 13,14), là dove invece l’Adamo caduto in peccato è l’uomo
vecchio, di cui il cristiano è invitato a spogliarsi: Colossesi 3,9-10. L’uomo vecchio è la condizione “naturale” di
tutti gli uomini (il Signore Gesù
escluso), è l’umanità che deve marciare verso la perfezione, verso l’Eden, che
è la meta implicita nel racconto della Genesi,
metafora delle metafore.
2. CRISTO IMMAGINE DI
DIO. Nella Bibbia non è detto mai che il Figlio (il Messia
per eccellenza) è di essenza divina, con il significato che noi diamo a questa
espressione, se non nella misura e nel modo implicitamente contenuti
nell’affermazione che l’Uomo (l’uomo perfetto) è appunto “immagine di Dio”. Ma
l’immagine di Dio è l’essenza “uomo”,
non è Dio. Gesù è, in modo perfetto, l’immagine di Dio, cioè l’Uomo.
L’espressione indica la sua umanità,
non indica la divinità. Gesù è il Messia per eccellenza, ed è l’Uomo perfetto.
Questo è il fondamento, il vero fondamento della teologia biblica. Se Cristo
non fosse uomo (semplicemente uomo, vero
uomo, “uomo” e basta) crollerebbe la teologia dell’apostolo Paolo, il quale
dice: «Se per il fallo di quell’uno [di
Adamo = uomo] i molti [tutti] sono
morti, molto più la grazia di Dio e il dono fattoci dalla grazia dell’unico uomo Gesù Cristo hanno abbondato verso
i molti [verso tutti]» (Romani
5,15). «Poiché v’è un solo Dio ed anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini,
Cristo Gesù uomo» (1 Timoteo 2,5). «Per mezzo di un uomo
[Adamo] è venuta la morte, così anche per mezzo d’un uomo[Cristo] è venuta la risurrezione dei morti» (1 Corinti 15,21).
Immaginiamo per un attimo che Cristo
sia Dio; “Dio”, non “Dio fatto
uomo”. Non dovremmo neppure prendere in considerazione quest’ultima
affermazione del Dio fatto uomo
perché è contro ragione, è impossibile! E perché è concezione politeista per
eccellenza, secondo la quale gli dèi si facevano uomini. E non perché vogliamo
mettere dei limiti a Dio, bensì perché è contro la Ragione [contro il logos] che Egli stesso ci ha dato.
Tuttavia il discorso che stiamo per fare sarebbe ugualmente valido anche se
Cristo fosse per ipotesi assurda Dio e uomo ad un tempo.
Questo Dio che predica per le contrade
della Palestina aveva certamente coscienza di sé e del suo essere divino. E
questo significa che, per la sua onniscienza e preveggenza, era sicurissimo di
assolvere il suo compito fino in fondo, da vittorioso, e che avrebbe continuato
eternamente la sua vita divina: aveva la vita eterna assicurata dalla sua
natura divina; Dio è immortale (la sua natura comprende innanzitutto
l’immortalità). Era dunque grandemente fortificato e sostenuto da questa
autocoscienza, tale da sopportare qualsiasi difficoltà, anche il martirio più
terribile, sapendo che avrebbe vinto (Dio è infallibile!) e che sarebbe
ritornato in cielo. Pertanto, tenendo conto di ciò, ci domandiamo: che cosa
avrebbe fatto Gesù più di quanto hanno fatto tanti martiri semplicemente umani
consapevoli che la morte (e non la vita divina) li attendeva alla fine della
loro sofferenza? Per questo, Paolo (in accordo con tutto il N.T.), insiste
nell’affermare che Cristo è uomo; non è dunque un dio travestito da uomo.
Certamente Gesù credeva, comunque, alla vita eterna che Dio può largire e
largisce ai suoi figli fedeli, ma da uomo
[perciò è detto ch’egli è esempio di fede: Ebrei 12,2]; se fosse stato Dio non
avrebbe avuto bisogno di credere
perché lo avrebbe saputo, essendo in
questo caso egli stesso autore della vita; autore!
Anche sulla base di queste
considerazioni i trinitari ammettono che Gesù era vero uomo, ma poi si
contraddicono quando aggiungono “vero Dio, vero uomo”. Anche in quest’ultima
accezione il nostro discorso sarebbe valido, potremmo fare le stesse
considerazioni perché anche così Gesù sarebbe Dio comunque. Noi invece
affermiamo, sulla documentazione neotestamentaria, che Gesù Cristo (uomo che
non ha commesso peccato, innocente in assoluto) era soltanto uomo, e che in
quanto tale affrontava la possibilità di essere sconfitto nel suo compito
assegnatogli da Dio, e di perire come perì il primo Adamo, perché era, come
tutti gli uomini, «carne simile a carne di
peccato» (Romani 8,3), cioè mortale. Abbiamo già accennato al fatto teologico
fondamentale: che Cristo ha vinto là dove Adamo ha fallito; ha vinto come Uomo,
come Secondo Adamo, non come Dio (Jhwh non compete, non gareggia, con niente e
con nessuno: è al di sopra di tutto e di tutti), grazie al fatto che era in
comunione con il Padre, con Dio, e uomo ripieno di Spirito sin dalla nascita;
così come tutti possono adoperarsi a divenire (a mutare), secondo l’esortazione
di Gesù Cristo stesso e dell’apostolo Paolo. Questa grande verità della
vittoria di Gesù sul male è presentata dai Vangeli, sinteticamente, sotto la
metafora della triplice tentazione di Cristo (del Messia) che corrisponde alla
triplice tentazione della metafora di Adamo (e di Eva) nel “giardino” dell’Eden
[cfr. nota 33].
Il presbitero
Pietro scrive: «A questo siete stati
chiamati: poiché anche Cristo ha patito per voi, lasciandovi un esempio, onde
seguiate le sue orme» (1 Pietro
2,21). Dovremmo seguire l’esempio di un Dio? Impossibile seguire, con fedeltà,
l’esempio di un Dio. L’uomo non può aspirare ad un comportamento pari a quello
di Dio; non può eguagliare Dio neppure in questo; forse dopo la risurrezione,
solo quando riceverà da Dio stesso l’essere
spirituale, cioè quello di Cristo risorto, della stessa natura; ma può seguire
l’esempio dell’Uomo per eccellenza che è Gesù di Nazareth, in quanto uomo come tutti. Allora i trinitari ribadiscono che
Cristo è anche uomo (Dio e uomo in
unità)60. Ammesso che ciò
fosse possibile, resterebbe comunque il fatto che era anche Dio, e ciò lo avrebbe posto ugualmente nella condizione di
vantaggio che abbiamo descritto qui sopra. Invece Paolo dice: «come per un uomo… [come per Adamo, che non era Dio] così per un uomo… [così per Gesù, che non era Dio…»; se fosse stato e fosse Dio, il
paragone posto da Paolo non avrebbe significato.
Ma torniamo all’essenza, anzi all’immagine di
Dio. Ecco altri testi che confermano quanto stiamo dicendo:
● Colossesi 1,15: «Egli (Dio) ci ha riscossi dalla
potestà delle tenebre e ci ha trasportati nel regno del suo amato Figliuolo [il
Cristo, l’Adottato, il Re], nel quale abbiamo la redenzione, la remissione dei
peccati; il quale è l’immagine dell’invisibile Iddio
[Jhwh], il primogenito d’ogni
creatura…».
● Romani
8,29: Dio ha predestinato i salvati «ad
essere conformi all’immagine del suo Figliuolo [il Cristo], ond’egli sia il primogenito fra molti fratelli…». Come Cristo è l’immagine di Dio in
quanto uomo perfetto, così i salvati saranno l’immagine di Cristo essendo
divenuti, alla risurrezione, immagine di Dio, cioè uomini perfetti.
● 1 Corinti 15,49: «Come abbiamo portato l’immagine del terreno [di Adamo peccatore],
così porteremo anche l’immagine del celeste [del secondo
Adamo (v.47) santo e perfetto, Gesù Cristo, che è l’immagine di Dio]».
● Colossesi 3,10: «Avete svestito l’uomo vecchio coi suoi atti e rivestito il nuovo,
che si va rinnovando in conoscenza ad immagine di Colui che l’ha creato». Il cristiano deve progredire verso
il raggiungimento della “statura” di Cristo (Efesini 4,13) che è immagine di Dio (2 Corinti 4,4).
Questi testi, e altri che potremmo
citare, mostrano tre concetti fondamentali: a) Cristo è l’immagine di Dio, perché è Uomo per eccellenza; b) I credenti diventeranno uomini a
immagine di Dio (cioè veri uomini), perché alla risurrezione saranno conformi all’immagine di Cristo, ma non
saranno Dio perché Cristo non è Dio; c)
Cristo è il primo dei “fratelli” (il Primogenito) perché è il primo a risorgere
dai morti.
3. IL TESTO DEPURATO. Il comportamento di Gesù, che è quello di
lasciarsi guidare dallo Spirito, si evidenzia nel testo di Filippesi nell’accezione di umiltà; è il centro del
discorso dell’apostolo Paolo, la motivazione per la quale Cristo è sovranamente
innalzato al rango di Signore.
Gesù di Nazareth è il Messia atteso,
quello annunciato da Mosè e dai profeti; è l’Eletto da Dio, l’Unto, il Re. Come
Adamo nel giardino dell’Eden, Cristo è a immagine di Dio: signore della
creazione. Ma a differenza del primo Uomo non è vinto [Genesi 3,5] dal desiderio di diventare come Dio. Anzi, annulla se stesso, rinuncia
alla dignità regale che gli spetta e sceglie di vivere come un uomo qualsiasi,
come un servo («il mio regno non è di questo mondo»: Giovanni 18,36). Tale fu trovato nell’aspetto dai suoi
contemporanei: uomo comune tra gli uomini, ma ubbidiente a Dio fino alla morte,
e alla morte di croce. Per questo motivo, per questo grande sentimento di
umiltà, Gesù è premiato: «Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il
nome che è al disopra di ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni
ginocchio [ovunque], e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è
il Signore, alla gloria di Dio, il Padre [il Creatore]».
Questo è il senso del testo di Filippesi, purgato dagli elementi
estranei e mitologici; e qui non c’è nulla che ci induca a pensare che Gesù era
Dio in cielo, che poi si è fatto uomo…
ecc. Nulla di tutto questo! Anzi, è il
Risorto (il figlio di Maria) che, per l’umiltà che lo ha portato a rinunciare
alla gloria propria del Messia atteso, viene innalzato. Ad innalzarlo al rango di Signore è Dio! Ci domandiamo:
è Dio che innalza se stesso? D’altra parte, un Dio non può essere innalzato al
di sopra di se stesso (al di sopra di Dio!), almeno che non si voglia ammettere
che prima era un dio minore, ma in tal caso saremmo in pieno politeismo. E, se
è veramente Dio, non può farsene e disfarsene (vestirsi e spogliarsi)
dell’umanità e della “divinità”, come se si trattasse realmente di un vestito.
L’apostolo Paolo, a Listra, in Asia
Minore, compie una guarigione miracolosa. Gli abitanti della città, «veduto ciò che Paolo aveva fatto,
alzarono la voce, dicendo in lingua licaonica: Gli dèi hanno assunto forma
[ὁμοιωθέντες: somiglianza] umana, e sono discesi fino a noi» (Atti 14,11)61. È chiaro, i politeisti credevano a
questa possibilità. Ma qui, in Filippesi,
che ovviamente presuppone il monoteismo, non è ammissibile ricorrere, come
fanno i trinitari, alla distinzione, in Dio, di essenza e persona, per
salvaguardare il monoteismo, e affermare che una “persona divina” può
divenire uomo (per di più rimanendo Dio!). Sarebbe un discorso da non prendere
neppure in considerazione [cfr. nota 42]: questo
tentativo di rimedio creerebbe un problema maggiore, e convincerebbe soltanto
chi è già “convinto” della dottrina trinitaria. Inoltre, se come dicono i
trinitari le parole “Padre”, “Figlio”, “Spirito” indicherebbero le tre persone
divine, bisogna rilevare che il testo non
dice che “il Padre innalza il Figlio”,
dice invece che è Dio ad innalzare Cristo Gesù (il Messia Gesù); è vero che Dio e
il Padre sono una identica cosa (perché ognuno dei due termini è sinonimo
dell’altro), ma per i trinitari Dio è essenza
e il Padre è persona; e qui non
c’è il rapporto divino unitario “Padre/Figlio”, come richiederebbe la dottrina
trinitaria (non è il “Padre” a innalzare Gesù, è “Dio”); c’è il rapporto Dio/Messia [la parola “Figlio” non esiste
nell’epistola ai Filippesi]. C’è Dio, che per la sua gloria (cfr. le ultime
parole del testo) innalza al rango di Signore il Messia. Nient’altro. “Dio”, in
questo contesto, è persona, perché è
colui che agisce, che relaziona; “Padre” è il suo sinonimo, perché Dio agisce
come Padre; ed anche se il termine “padre” può o deve essere preso in senso
metaforico, è chiaro che questo termine indica l’essenza di Dio, che è una e indivisibile. Nella Sacra
Scrittura la dottrina trinitaria è assente, non c’è neppure in senso implicito,
e tutti i tentativi di interpretare alcuni testi col senno di poi e in chiave trinitaria sono inutili. Quando il
N.T. dice “Padre” intende dire “Dio”, e non
la prima Persona della Trinità!
Pertanto, Signore è il titolo di Cristo
dopo la risurrezione. Certamente diverse volte è riferito a Gesù
retrospettivamente, raccontando di quando predicava per la Palestina. Gli
autori sacri, scrivendo e parlando di Gesù sanno già che Cristo è il Signore,
perché la risurrezione e l’elevazione alla destra di Dio, nel momento in cui
scrivono, sono già avvenute; i testimoni lo hanno affermato. Non teniamo conto
poi di quelle volte in cui Gesù è chiamato Signore con il significato riservato
alle persone di riguardo. Ma Pietro, nel suo discorso alla Pentecoste, ad un
certo punto, parlando di Cristo, è preciso; dice: «Questo Gesù, Iddio l’ha
risuscitato; del che noi tutti siamo testimoni… essendo stato esaltato alla destra di Dio, e avendo ricevuto dal
Padre lo Spirito Santo promesso, ha sparso quello che ora vedete e udite… Iddio ha fatto e Signore e Messia
quel Gesù che voi [abitanti di Gerusalemme] avete crocifisso» (Atti 2,32-36).
Il termine “Signore” nel N.T. si trova
innumerevoli volte, e la maggior parte è riferita a Gesù Messia risorto. Sarebbe lungo citarli tutti. Il
Signore è colui nel quale si crede convertendosi (Atti 18,8); è il Giusto Giudice (1 Corinti 4,4; 2 Timoteo
4,8); colui che scenderà dal cielo per accogliere con sé i credenti (1 Timoteo 4,16), e che a tal fine è
invocato (1 Corinti 16,22); è colui
nel nome del quale il credente è esortato a fare ogni cosa (Colossesi 3,17); i diversi ministeri
nella Chiesa, elencati nel N.T. (tra i quali non ce n’è uno denominato Vicario
di Cristo, o con una espressione equivalente) sono tutti emanazione di un unico
Signore (1 Corinti 12,5).
Pietro, perciò, nella metafora colloca
il Signore alla destra di Dio, e Stefano nel suo discorso che precede il suo
martirio, vede il Figliuol dell’uomo in piedi alla destra di Dio (Atti 7,56); questo significa che le
espressioni “Figliuol dell’uomo” e “Signore”, riferite a Gesù, sostanzialmente
si identificano. Ed eccoci, dunque, ricondotti al tema centrale di questo
capitolo, che è l’ultimo di questo libro. Il Signore Gesù è quell’Uno simile a
un figliuol d’uomo (perciò uomo) che
il profeta Daniele (7,13-14) descrive
nella sua visione del futuro […giunse fino al Vegliardo, e fu fatto
accostare a lui…]. Cristo è alla
destra di Dio, nel rango di Signore, per la sua umiltà e per la sua ubbidienza
fino al sacrificio di sé. Di là è in procinto di “ritornare” (o meglio, di
rendersi visibile)62 per accogliere con sé i suoi fedeli.
Cristo inizia la sua marcia verso
l’essere spirituale, al battesimo impartito da Giovanni nel fiume Giordano (Luca 3,22; 4,1), e Dio la completa
risuscitandolo ed elevandolo al rango di Signore, alla sua destra (Efesini 1,20-23). Questa è la grande
metafora. La “natura spirituale” è quella di tutti i salvati; è il “corpo di
risurrezione”, che si attuerà nel giorno della parusia di Cristo (1 Corinti cap. 15; 1 Tessalonicesi 4,15-16; Romani
8,29). Gesù di Nazareth è il primo uomo che è in quella natura, che è la natura
propria del Signore, perché è già risorto: è il Primogenito dei e
dai morti (Colossesi 1,18; Apocalisse 1,5); e in più, è alla destra
di Dio, è appunto il Signore. Anche i salvati, nel giorno di Dio e di Cristo
(alla parusia) saranno alla destra del Padre (saranno “signori”, perché
regneranno con Cristo: 2 Timoteo
2,12; Apocalisse 20,4; 22,5); saranno
alla destra del Padre perché saranno alla destra del Signore (Matteo 25,33-34) che è alla destra di
Dio: sono coeredi: Romani 8,17. La metafora (“essere alla
destra di Dio”) indica la natura dei salvati, di cui Cristo è il primo
(l’ἀρχή,
l’inizio) e il Mediatore (μεσίτης)
tra Dio e gli uomini che diverranno “signori”. Il Signore è ad un tempo il
primo dei risorti e il Salvatore: «duce e perfetto esempio di fede» (Ebrei 12,2). Ciò è possibile, e rientra
nella logica della teologia neotestamentaria, perché Cristo è uomo, soltanto
uomo, anzi Uomo per eccellenza. Perché, «in quanto egli stesso [Gesù] ha
sofferto essendo tentato [perché “uomo”], può soccorrere quelli che son tentati… Non abbiamo un Sommo Sacerdote che
non possa simpatizzare con noi nelle nostre infermità; ma ne abbiamo uno che in
ogni cosa è stato tentato come noi, però senza peccare» (Ebrei 2,18; 4,15).
Abbiamo visto che il testo di Mt. 16 molto probabilmente non è
autentico. Tuttavia anche considerandolo autentico non si può dedurre da
questo, né da altri testi del Nuovo Testamento, che Pietro sia stato eletto da
Cristo “suo vicario”. Simon Pietro
non è stato né il capo dei dodici Apostoli, né il capo visibile della Chiesa.
L’unico Capo è Cristo. Nessuno deve aspirare ad essere il primo: Marco 10,44-45. Cristo, e soltanto
Cristo (senza vicari), è l’unico Capo dell’Assemblea dei credenti (Colossesi 1,18-19; Efesini 4,15-16); egli la governa mediante lo Spirito (Giovanni 16,7,13; 2 Corinti 3,18), il quale non è riservato a uno solo o a pochi, è
per tutti i credenti (1 Corinti
12,7). Nel suo discorso della Pentecoste, Pietro stesso dice che Dio ha
risuscitato quel Gesù che è stato crocifisso, e che è stato esaltato alla
destra di Dio come Messia e Signore (Atti
2,32-36), e prosegue dicendo che Cristo ha ricevuto dal Padre (dal Creatore) lo
Spirito Santo promesso [Giovanni
14,16] che sparge in tutti i credenti (e i credenti sono la Chiesa): gli
effetti si vedono già, in quel momento, mentre Pietro parla.
A Cesarea di Filippo Cristo chiede agli
Apostoli: Chi dice la gente che sia il Figliuol dell’uomo?... E voi chi
dite ch’io sia? Per illustrare la
risposta di Pietro (e degli altri Apostoli) abbiamo scritto più di cento fitte
pagine. Pietro intendeva dire tutto ciò che noi abbiamo detto? No di certo!
Pietro aveva la consapevolezza che Gesù era il Messia, il Figlio di Dio, il Re,
l’Uomo perfetto, vale a dire il “Figliuol dell’Uomo”, e lo ha dichiarato per
esplicito con una sola parola («tu sei il Cristo»),
così come hanno fatto gli altri Apostoli e discepoli. E mantenne questa fede
fino al martirio. Il resto (vale a dire: ciò
che la confessione di Simone è, e
ciò che non è, ed altresì la risposta
di Gesù) lo abbiamo trattato estendendolo alla teologia del Nuovo
Testamento, ma sicuramente è contenuto per implicito nella dichiarazione di
fede dell’Apostolo e degli altri credenti testimoni oculari e auricolari.
A conclusione di questo studio sul Tu sei Pietro ci sembra opportuno
chiudere con una riflessione che ricaviamo dalle seguenti parole di Cristo: «Se uno vuol fare la volontà del Padre, conoscerà se questa dottrina [quella
predicata da Gesù] è da Dio... Un discepolo non è da più del
maestro; ma ogni discepolo perfetto sarà come il suo maestro» (Giovanni 7,17; Luca 6,40). «Conoscerete la verità, e la verità vi
farà liberi» (Giovanni 8,32). Ci sembra che coloro che vogliono
conoscere la verità su questo argomento della teologia biblica dovrebbero
essere disposti ad essere coinvolti e a trarne le conseguenze: ad essere veri
discepoli. I discepoli sono i cristiani; ogni cristiano deve essere come il
Maestro Gesù Cristo, il Signore. Dice Gesù: «Non
chiunque mi dice Signore, Signore… entrerà nel regno dei cieli, ma chi
fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Matteo 7,21). Il regno
dei cieli è fatto di due realtà complementari: una soggettiva e attuale,
consistente nella libertà dal male, di non essere tentato dal compiere il male,
ma di dominarlo («Il Regno di Dio è
dentro di voi»: Luca 17,21); e l’altra oggettiva e futura, per la
quale i veri cristiani sperano contro speranza (cfr. Romani
4,18) di progredire verso lo stato d’immortalità.
NOTE
CON BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
1. Matteo Manzella, L’Ultimo
Adamo. Teologia e filosofia del Nuovo Testamento, pagg. 600, Leberit, Roma
2004. A disposizione dei lettori anche presso le principali biblioteche
pubbliche d’Italia e presso l’autore.
2. Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica,
Libreria Editrice Vaticana, stampa: Officine Grafiche De Agostini - Novara,
1993. Soprattutto le pag. 241-246 (Art. 9, § 4).
3. Si veda il mio articolo
Prospettive del Concilio Vaticano Secondo,
in «Ariete», Roma Aprile-Maggio 1962.
4. Ad Petri Cathedram, I. 11, Edizioni Paoline, Roma 1959, pag. 8.
5. Ibidem, III. 30, pag.
19.
6. Ibid., III. 37, pag.
23.
9. Vedi la nota n. 3. Per la situazione attuale si
veda: R. Bottazzi, P. Ciavarella, V.
Fantoni, J. Graz, G. Marrazzo, Gli
ecumenismi del XX secolo, prefazione di Domenico
Maselli, Segni dei Tempi /
Edizioni ADV, Impruneta (Falciani) – Firenze 2007.
10. Voltaire, Lettere inglesi (sesta lettera). traduz. di Mauro Misul, pag. 39,
Boringhieri editore, Torino 19682.
11. Il termine
italiano «apocrifo» deriva dal
latino tardo apocrỹphus che a sua volta
proviene dal greco apόkryphos estratto
da apokrýptô, che vuol dire «occultare», «nascondo via» (apo e krýptô). A nostro parere, questa
etimologia rivela che nella chiesa “cattolica” c’era una preoccupazione
riguardo agli scritti apocrifi. Erano da nascondere perché, a suo parere,
evidenziavano un cristianesimo che non testimoniava di se stesso in modo
positivo; implicitamente mettevano in luce la divisione che c’era nella fede
cristiana già al suo nascere. Bisognava dunque nasconderli, magari distruggerli,
comunque metterli via, rifiutarli. Cosicché, per questo motivo, non furono
inclusi nel canone biblico. Dunque, erano apocrifi per “decreto”.
Successivamente, la causa fu scambiata con l’effetto: si disse che erano
apocrifi perché non facevano parte del canone biblico, che sostanzialmente è la
stessa cosa.
Gli apocrifi, con riguardo alla forma,
si possono classificare seguendo lo stesso schema dei “libri” canonici del
Nuovo Testamento: vangeli (i più numerosi e i più importanti: almeno 15), atti
(circa 8), epistole (almeno 4), apocalissi (circa 10, tra brani databili a.C. e
d.C. e scritti completi). Ma questi dati potrebbero richiedere di essere
aggiornati, perché non è rara una nuova improvvisa scoperta o ritrovamento di
altri scritti non canonici.
Infine va ricordato che una parte di
essi, di contenuto gnostico, è in forma esoterica, e sono molto importanti per
la storia dello gnosticismo. Per questo motivo alcuni studiosi fanno risalire
il significato del termine apocrifo
proprio alla forma esoterica: occulto,
riservato, nascosto.
12. La Sacra Bibbia, ossia l’Antico e il Nuovo Testamento, versione riveduta [1924] da Giovanni Luzzi, Libreria Sacre Scritture, Roma 1957.
Sulla Sacra Scrittura in Italia si
veda: Giovanni Luzzi, La Bibbia in Italia. L’eco della Riforma
nella Repubblica Lucchese. Giovanni Diodati e la sua versione italiana della
Bibbia, Claudiana, Torre Pellice 1942. Mario
Cignoni, La Diodati: piccola
storia di una grande Bibbia, in: «La Parola», supplemento al n. 2 di
Maggio-Agosto, Roma 1994.
13. Oscar
Cullmann, Le Nouveau
Testament, Presses Universitaires de France, Paris 1966 [Introduzione al Nuovo Testamento,
traduz. italiana presso Società
Editrice il Mulino, Bologna 1968].
14. Sul Figliuol dell’Uomo
si veda il mio L’Ultimo Adamo (qui
sopra citato alla nota 1) ai §§ 38 e
69. Si veda inoltre la voce “Gesù” (al § Gesù: Figlio dell’uomo) in Dizionario biblico, a cura di Giovanni Miegge ed Altri, Feltrinelli
Editore, Milano 1969; Oscar Cullmann, Cristologia del Nuovo Testamento, traduz. ital. presso Editrice il
Mulino, Bologna 1970, soprattutto le pag. 259-291.
15. Cfr. Dizionario biblico, op. citata, voce
“Pietro”.
16. Cfr. Matteo Manzella, L’Ultimo Adamo, op. citata, Cap. I, pag. 79 e ss. Si veda inoltre: John Locke, La ragionevolezza del Cristianesimo e Difesa della Ragionevolezza del Cristianesimo, risposta al pastore calvinista John Edwards, in: Scritti filosofici e religiosi, traduz.
di Mario Sina, Rusconi Editore, Milano 1979; Giulio
Busi, Simboli del pensiero ebraico,
Einaudi editore, Torino 1999; Riccardo
Calimani, Gesù ebreo,
Mondadori, Milano 20012. Ed
ancora, la voce “Messia” in Dizionario
biblico, op. citata.
17. Si veda la voce
“Figlio, Figli” in Dizionario biblico,
op. citata: «[In Israele] fra i
maschi, il primo nato godeva di un diritto di privilegio sulla benedizione e
sulla eredità paterna (Genesi 27,36; Deuteronomio 21,17) e di una certa
autorità sui fratelli (Genesi 37,22)» (pag. 237, 2a col.). Alla
voce “Primogenito”: «[Cristo] è il
primogenito di ogni creatura (in senso spirituale) e iniziatore della nuova
umanità (Colossesi 1,15,18; Ebrei 1,6; Apocalisse 1,5; Romani
8,29)».
18. Gesù è il Messia
vittorioso, «coronato di gloria e d’onore a motivo della morte che ha sofferto»
(Ebrei 2,9). E` l’Erede, il Figlio (υἱός): «Sappia
dunque sicuramente tutta la casa d’Israele che Iddio ha fatto e Signore e
Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso»
(Atti 2,36). «[Dio] ha parlato a noi mediante il suo Figliuolo [il Messia],
ch’egli ha costituito erede di tutte le cose...» (Ebrei 1,2). «Colui [Cristo] che santifica e quelli
che sono santificati [i credenti], provengono tutti da uno [da Dio]; per la
quale ragione egli [Cristo] non si vergogna di chiamarli fratelli» (Ebrei
2,11). Vedi anche nota precedente.
19. In Giovanni 1,13 l’espressione tradotta
comunemente con «nati da Dio» in
greco è «ἐκ θεοῦ ἐγεννήθησαν», letteralmente: «[fuori] da Dio sono generati», cioè: sono generati da Dio fuori [fuori di se stesso], vale a dire nel Mondo, non in Dio. Ma questa
espressione non è qui (in Giovanni
1,13) usata per fare distinzione tra ciò che Dio genererebbe in se stesso e ciò che Dio genera fuori, perché per il Cristianesimo Dio
genera fuori. “Fuori da [ek]” è qui un rafforzativo retorico e
pleonastico del termine «generati» riferito alla generazione divina in
contrapposizione alla generazione umana. Si possono fare due considerazioni: 1)
dire che Dio genera degli esseri umani (i credenti) fuori, è una ovvietà; 2) se qui si dice che Dio genera i credenti
in senso spirituale, è altrettanto ovvio che li generi fuori. Dunque, si
potrebbe pensare a maggior ragione che qui si voglia alludere a Cristo (il
Figlio) che Dio avrebbe generato nell’eternità in se stesso, cioè nel
suo essere, talché il Figlio sarebbe Dio, uno
col Padre e con lo Spirito Santo? No! Questa
deduzione sarebbe svalutata perché poggerebbe (come infatti poggia) sul
preconcetto che Dio genera in due modi: intra e fuori. Idea che è assente nel
Nuovo Testamento, ed è propria della filosofia Scolastica che ha da venire.
L’espressione ek [fuori da, o
semplicemente da] non implica
necessariamente una distinzione (il Figlio generato in Dio, i credenti fuori di
Dio). L’espressione è preceduta dalle parole «[i credenti] non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né
da volontà di uomo», vale a dire (se
dobbiamo fermarci al senso letterale), non sono nati (o generati) come tutti gli
uomini. Ma ovviamente ed effettivamente qui non si nega la “nascita
umana” dei credenti al modo di tutti gli uomini; si afferma il fatto che i
credenti sono adottati da Dio (in senso spirituale, ma non per questo meno
reale della nascita fisica) e dunque sono figli di Dio, e in quanto figli di
Dio provengono da lui (dal Padre): “fuori
da”. Va comunque evidenziato il
fatto che nel Nuovo Testamento il greco
«generato, generare» è adoperato sia per dire «nato,
nascere» e sia per dire «generato, generare». Ora trattandosi di esseri umani,
a nessun traduttore e a nessun teologo, come a nessun esegeta, è venuto in
mente di affermare che i credenti sono propriamente figli di Dio (generati
in senso proprio) come invece la maggioranza di essi afferma a proposito di
Gesù Cristo; per cui ne dovremmo dedurre che Gesù è proprio Dio perché è Figlio
in senso proprio (generato da Dio intra),
mentre i credenti no (perché sono generati fuori).
In realtà tutti i traduttori (o quasi tutti) fanno la traduzione italiana con
il verbo nascere (nato da, nati da) e
così il problema è eluso, rimane nascosto nel testo greco (lo stesso si può
dire nel caso delle altre lingue moderne). Resta il fatto che la provenienza
dei credenti (fuori da, ovvero da Dio) è chiaramente in senso
spirituale; ma ci sembra che anche così,
cioè in senso spirituale, si dovrebbe intendere riguardo a Gesù Cristo allorché
viene adottato da Dio,
eletto [unto] e proclamato tale (cioè Messia, Re) con le stesse antiche
parole, rivolte al re Davide, del Salmo
2,7 (“Figlio di Dio”: Luca 3,22; Ebrei 1,5: «oggi ti ho
generato»!) e per il quale il Nuovo
Testamento, in questo caso (e spesso), adopera gli stessi termini e le stesse
espressioni che adopera per i credenti. In Giovanni
1,13, dunque, il termine ek corrisponde né più e né meno
all’italiano da, senza alcun sottinteso; i credenti sono nati da Dio, sono
figli di Dio. Non dimentichiamo infine che nella Bibbia (Antico e Nuovo
Testamento) il termine generare in
molti casi ha il significato di creare.
Comunque sia, nel testo che stiamo
commentando, nessuno meglio di Gesù (cioè nessuno meglio dell’Eletto) può dire
a Simon Pietro e a tutti, che le cose dello spirito si conoscono, si dicono, si
credono e si dichiarano, per ispirazione divina, tramite la coscienza. E’ il Padre che “rivela” le verità della
fede, per lo spirito (cioè tramite il ruah–pneuma,
il logos), il soffio divino che tutto
“muove”. Paolo dice: «Nessuno può
dire “Gesù è il Signore” se non per lo Spirito santo» (1 Corinti 12,3).
Riassumendo: tutti gli esseri umani sono figli di Dio, cioè opera del Creatore;
i credenti sono figli di Dio anche in senso spirituale (in quanto credenti).
Gesù è Figlio di Dio in quanto eletto da
Dio (“oggi ti ho generato, ti ho eletto”).
20. Cfr. Atti 7,57-58; Galati 1,11-12; Efesini
3,3. Michael
Grant, San Paolo, trad. presso
Bompiani, Milano 1997; Hugh J.
Schonfield, Il Giudeo di Tarso,
trad. presso Einaudi, Torino 1950.
20 bis. Si veda: L’Ultimo Adamo, op. citata, cap. IX.
21. Vedi, nel
testo, il brano intitolato “Ancora
sul termine πέτρος” (pag. 34).
22. Oscar Cullmann, Le prime confessioni di fede cristiane (trad. di Davide Bosio),
Centro Evangelico di Cultura, Roma 1948, pag. 18 nota compresa; Id., Il battesimo dei bambini e la dottrina biblica
del battesimo, in: Dalle fonti
dell’Evangelo alla teologia cristiana, traduz. presso Editrice A. V. E.,
Roma 1971, pag. 183 ss. (Appendice).
23. Nel Dizionario biblico (op. citata / vedi nota 7) Giorgio
Tourn, alla voce “Regno di Dio” tratta l’argomento, in modo ampio e
approfondito, alle pag. 496-497.
25. Cfr. Oscar Cullmann, Cristo e il tempo, traduz. di Boris Ulianich, Società Editrice il
Mulino, Bologna 1965.
26. Cfr. Matteo Manzella, L’Ultimo Adamo, op. cit., cap. IX, § 111/d, particolarmente pag.
491 ss. Si veda inoltre la nota 22,
qui sopra.
27. Matteo Manzella, L’Ultimo Adamo, op. citata, §§ 93-94, pag. 268 ss.
28. Vangelo e Atti degli Apostoli, Traduz. di A. Lancellotti, A. Sisti, C. Ghidelli, G. Segalla, C. M. Martini, Introduzione
di Pietro Rossano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1987.
29. Abbiamo trattato
l’argomento “cielo”, unitamente
all’argomento “salire e scendere dal cielo”,
nel nostro L’Ultimo Adamo (op. cit.)
alle pag. 90-92. Si veda inoltre la voce “cielo”
(a cura di Carlo Gay) nel Dizionario biblico (op. cit.) e Dizionario di filosofia a cura di Nicola Abbagnano (UTET-TEA, Torino 1971, Milano 1993).
Ed inoltre: Jean-Pierre Verdet, Storia dell’astronomia, traduz. presso
Longanesi, Milano 1995; Isaac Asimov,
In principio, traduz. ital. presso
Mondadori, Milano 19993, pag. 23 ss. 44 ss. 49 ss. (vedi indice analitico).
30. E' il tema della grazia universale, cioè della salvezza propriamente per tutti attraverso due “vie” diverse (quella della “fede-perdono”
[“sciogliere”] che salva dal rimorso cocente e terribile, e quella della
“condanna-rimorso” [“legare”] che genera il pentimento, alla parusia). Dio vuole che tutti gli
uomini siano salvati (1 Timoteo 2,4),
e la volontà di Dio deve attuarsi (l’Onnipotente non può fallire); per questo il
compito di Cristo è quello di salvare tutti:
«Dio infatti non ha mandato il proprio
Figlio [il Messia] nel mondo per
condannare il mondo, ma affinché il mondo [=tutti] sia salvato per mezzo di lui» (Giovanni
3,17). Cristo non fallirà nel suo compito (ha già vinto): avrà la vittoria
finale e completa (non parziale). Si veda: Matteo
Manzella, Problematiche
escatologiche nelle metafore bibliche: salvezza e perdizione. La grazia
universale, in: L’Ultimo
Adamo, op. citata, § 101, pag. 329-361.
32. Si veda: Matteo Manzella, L’Ultimo Adamo, op. cit., cap. I, pp. 79-139.
33. Gli evangeli sinottici
presentano la triplice tentazione alla quale fu sottoposto Gesù (l’ultimo Adamo: 1 Corinti 15,45) in
modo da ricalcare quella alla quale fu sottoposto il primo Adamo: Prima
tentazione: a) La Donna [e con essa l’Uomo] osservò che il frutto
dell’albero [proibito] era buono per nutrirsi; b) Il tentatore disse a Gesù:
ordina che queste pietre diventino pane. Seconda tentazione: a) La Donna
osservò che il frutto dell’albero era bello da vedere; b) Il tentatore disse a Gesù:
adorami ed io ti darò tutti i regni del mondo e la loro gloria. Terza
tentazione: a) La Donna
osservò che il frutto dell’albero era desiderabile per acquistare conoscenza [e
primeggiare; ovvero: per essere come Dio, cioè “uguale” a lui; b) Il tentatore disse a Gesù: se tu sei il Messia, mostra che sei
protetto dagli angeli di Dio gettandoti giù dal pinnacolo del tempio.
Testi: Genesi
3,4-6; Matteo 4,1-11; Marco 1,12-13; Luca 4,1-13.
34. Charles Guignebert, Gesù, traduzione
presso Giulio Einaudi editore, Torino 1950, pag. 387.
35. Il Renan, a
proposito dell’elezione di Mattia (dopo la morte di Giuda), dice che «questo fu il solo esempio di una
surrogazione cosiffatta. Gli apostoli furono quindinnanzi riguardati come
eletti una volta per sempre da Gesù senza avere successori. Il pericolo di un
collegio permanente che tenesse per sé tutta la vita e la forza
dell’associazione fu rimosso, allora, con profondo istinto. La concentrazione
della Chiesa in una oligarchia non venne che molto più tardi» (Ernesto Renan, Gli apostoli, traduz. Italiana presso Dall’Oglio Editore, Milano
1961, pag. 59). Condividiamo in pieno l’affermazione del Renan. Aggiungiamo che
il “profondo istinto” degli apostoli, come lui lo chiama in modo efficace,
significa che essi furono lungimiranti (un credente aggiungerebbe: per
ispirazione dello Spirito Santo). Si proponevano di impedire, in qualche modo,
che qualcuno dei posteri potesse dire “noi
siamo i successori degli apostoli, e
dunque per questo siamo noi (e non altri) i portatori della verità”. Affermare che gli Apostoli possono
avere ed hanno dei successori, significa appunto correre il rischio reale e
concreto di legittimare preventivamente anche l’errore, se questo si
introducesse nella chiesa a un livello qualificato come paventava e
profetizzava l’apostolo Paolo (Atti
20,29-31; 2 Timoteo 4,3-4). Gli
Apostoli evidenziando la caratteristica essenziale
dei Dodici sulla base della testimonianza oculare ed auricolare, hanno inteso
affermare l’impossibilità di una “successione” illimitata nel tempo, e scongiurare così il pericolo di un
monopolio della verità nelle mani di pochi mettendo tutti i credenti sullo
stesso piano; hanno inteso, cioè, evitare il pericolo (si fa per dire) che lo
Spirito si trasferisse dal corpo di
Cristo (che è l’Assemblea dei credenti) in un gruppo più o meno ristretto,
o peggio ancora in una sola persona. Pertanto la teologia della chiesa
cattolica romana, almeno su questo punto, è destituita di ogni fondamento. Dice
Iddio: «Io spanderò del mio Spirito sopra ogni carne; e … chiunque
avrà invocato il nome del Signore [il nome JHWH] sarà salvo» (Atti 2,17,21; Gioele 2,28 ss. Traduz. Diodati).
Lo storico Adolfo Omodeo ipotizza (con
significativi appoggi scritturali) che i dodici apostoli avessero coscienza di
essere destinati ad assumere la guida delle dodici tribù di Israele al momento
del ritorno di Cristo e della risurrezione dei morti; momento che si credeva imminente. Pertanto non si comprenderebbe
l’esigenza (nella coscienza dei Dodici e della chiesa primitiva) di una
successione apostolica, né tanto meno secondo la dottrina odierna della chiesa
cattolica romana, se a guidare le dodici tribù erano destinati quei dodici
nominati direttamente da Gesù: dodici e non più di dodici perché dodici erano
le tribù d’Israele.
Sappiamo che tutti i “mandati” sono
mandati ad annunciare l’evangelo e che tutti i discepoli sono mandati; dunque,
tutti sono apostoli. Tuttavia, Omodeo si serve del prefisso “arci” per designare i Dodici testimoni oculari e auricolari; li chiama “arciapostoli”, come dire “più apostoli degli altri apostoli”, perché appunto
essi, e solo essi, al ritorno di Cristo avrebbero assunto la guida delle dodici
tribù, senza successori. Ammettendo
il punto di vista di Omodeo, dovremmo concludere, appunto, che così diventa
evidente a maggior ragione che,
secondo il Nuovo Testamento, non possono esserci successori degli Apostoli
(cioè successori dei testimoni oculari e auricolari, che siano equivalenti a
veri e propri testimoni oculari e auricolari). Dunque, la chiesa
cattolica romana, non può affermare di essere la vera chiesa per il fatto che i
suoi pastori storicamente (a torto o a ragione) sarebbero successori degli Apostoli, perché (in ogni caso!) non c’è
successione apostolica stabilita da Cristo o dalla chiesa primitiva, e perché
può essere testimone oculare e auricolare soltanto colui che ha effettivamente
visto e udito e non il successore semplicemente cronologico. Una successione
apostolica è implicitamente negata dai fatti narrati negli Atti degli Apostoli e nelle regole che gli Undici assunsero per
ridivenire Dodici. D’altra parte, all’elezione di Mattia, in sostituzione di
Giuda Iscariota, soltanto uno tra i candidati fu eletto. Dunque l’intento era
di completare il numero, che era venuto meno, e non di eleggere un successore;
non si tratta di una successione come
la sostiene la teologia cattolica romana. I candidati presentati rispondevano
tutti ai requisiti richiesti dagli apostoli. Perché fermarsi a dodici, invece
di proseguire, per esempio a quindici o a venti? Ricordiamo, inoltre, che per
eleggere Mattia fu invocato lo Spirito Santo. Infatti, è lo Spirito la guida
della chiesa e la garanzia della purezza della fede; «… la chiesa dev’essere retta dallo Spirito e dalle sue
manifestazioni… [esso è] l’azione
conscia dei fini, che cerca di governare la chiesa». Cfr. Adolfo Omodeo,
Il reggimento della chiesa, in: Saggi sul Cristianesimo antico, Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli 1958, pp. 151-161. Infine, né i presbiteri né i vescovi possono dirsi successori
veri e propri degli Apostoli, perché erano (e nelle chiese protestanti lo sono
ancora) eletti dall’assemblea dei credenti, mentre gli Apostoli furono eletti
(scelti) direttamente da Gesù e per la natura del loro mandato non furono né possono
essere eletti dall’Assemblea né da altri ipotetici Apostoli. Inoltre, è vero
che non è impossibile (sebbene poco probabile) che alcuni dei primi vescovi
siano stati testimoni oculari e auricolari di Gesù (del suo insegnamento e
della sua risurrezione), ma certamente non possono essere tali, e non lo sono,
tutti gli altri che si sono succeduti nel tempo fino ad oggi.
36. Cfr. Oscar Cullmann, Le Nouveau Testament, Paris, Presses Universitaires de France, 1966
[traduzione italiana presso Società Editrice il Mulino, Bologna, 1968]. Dizionario biblico, a cura di Giovanni Miegge e Altri, Feltrinelli
Editore, Milano 1968, alle rispettive “voci” dei quattro evangeli.
37. Se ne può trovare un
resoconto in molti studiosi e commentatori. Citiamo: Charles Guignebert, Gesù,
traduzione italiana presso Giulio Einaudi Editore, Torino 1950, alle pp.
383-390. Alfred Loisy, Le origini del cristianesimo, idem
Torino 1942, soprattutto al cap. III. Hans
Conzelmann, Le origini del cristianesimo, traduz. Ital. Presso Editrice
Claudiana, Torino 19762. Il giudizio che invece presuppone
l’autenticità del testo controverso, di parte cattolica romana, si trova anche
in: Oscar Cullmann, Charles Journet, Nicolas Afanassieff e Altri, Il primato di Pietro, op. cit., Il
Mulino, Bologna 1965.
38. Sull’espressione
«salire e scendere dal cielo» (implicita in Daniele
7,13-14 e esplicita in Giovanni 3,13)
cfr. Matteo Manzella, L’adempimento della Scrittura di Isaia
61,1-2, in: L’Ultimo Adamo, opera citata, § 48, “inciso”, pag. 90-92. Ugualmente per il commento al Prologo di Giovanni [«Nel principio la Parola era…»], si veda nella stessa opera: Incarnazione e Logos, pag. 75-77, e: L’Unigenito di Dio, pag. 136-137 (e la Nota 97, a pag. 529); e infine, sempre
nella stessa opera: le pag. 175-178 (al § 62).
39. Giovanni Pico
della Mirandola, Orazio de hominis
dignitate [1487 ?]. La traduzione italiana è di Eugenio Garin (Firenze
1942), che a sua volta Francesco Tateo ha inserito, in nota al brano da lui
riportato nell’originale latino, in: AA. VV. La letteratura italiana. Storia e testi, diretta da Carlo Muscetta,
Editori Laterza, Bari 1971, volume III tomo primo, pagine 400-402.
40. Cfr. Matteo Manzella, Il creazionismo evoluzionista, in: L’Ultimo Adamo, opera citata, Cap. VIII, pag. 371-465.
41. Vedi la nota precedente; nell’opera citata
leggere soprattutto le pag. 424-442 nel cap. VIII.
42. Non è il caso di
esaminare in questa sede i pochi testi controversi o di dubbia autenticità dai
quali si potrebbe pretendere (a torto o a ragione) di dedurre la divinità di
Cristo. Ne citiamo solo uno, quello che i trinitari ritengono il più
importante: Giovanni 10,30. «Io e il Padre siamo uno; ἐγὼ καὶ ὁ πατὴρ
ἔν ἐσμεν». Domanda: perché il
Padre e Cristo sono “uno”? La risposta la dà Gesù stesso: «Io non posso far nulla da me stesso… cerco non la mia propria volontà, ma la volontà di Colui che mi ha
mandato» (Giovanni 5,30). Il
Padre e Cristo sono “uno” perché tra loro due c’è lo stesso pensiero e la
stessa azione, nel senso di uguale pensiero
e uguale azione (perfetta comunione),
e ciò perché Gesù esegue la volontà di
Dio; egli sottopone la «sua
propria volontà» a quella di Dio, come un vero profeta, anzi come il Profeta
per eccellenza, il Messia. Si tratta, insomma, del fatto che tra il Messia e
Dio c’è un rapporto simile (ma perfetto!) a quello che c’è (seppure imperfetto)
tra un padre e il suo primogenito, che nella tradizione ebraica è l’erede, e si
esige che sia l’esecutore della volontà del padre [vedi nota 17]. In poche parole, Gesù si comporta da vero Erede, cioè da
vero Messia in comunione con il Padre. L’unità di natura, che affermano i
trinitari, non ha nulla a che vedere con tutto questo. Tanto è vero che nello
stesso evangelo di Giovanni troviamo che Cristo dice che anche i discepoli tra loro devono essere “uno” come lui lo
è con Dio (allo stesso modo!); e devono essere “uno” anche con Cristo; e
altresì i discepoli, Gesù stesso e Dio (tutti assieme) devono essere “uno”. I
testi che affermano questo sono chiari ed espliciti: Giovanni 17,11,21,22…
Ora, è ovvio che questo non significa che i discepoli, Cristo e Dio sono o
devono essere “uno” in modo consustanziale, cioè della stessa unica natura, la
natura divina. Questi testi, così come Giovanni
10,30, esprimono, tutti, gli stessi concetti, con gli stessi termini e le
stesse espressioni, e non esprimono (e non
possono esprimere) in nessun caso
una “unità consustanziale” con il Padre, con il Creatore; altrimenti dovremmo
ammettere che oltre Cristo sarebbero Dio anche i discepoli.
«C’è un solo
Dio, il Padre, dal quale sono tutte
le cose [anche Cristo], e noi per la gloria sua; e un solo Signore, Gesù
Cristo, mediante il quale sono [salve] tutte le cose…» (1 Corinti 8,6) «dichiarato Figliuolo di Dio… mediante
la sua risurrezione dai morti…» (Romani 1,4). Dice Gesù rivolto al Padre:
«Questa è la vita eterna: che
conoscano te, il solo vero Dio, e
colui che tu hai mandato, Gesù Cristo»
(Giovanni 17,3). Solo il Padre, il
Creatore, è Dio, il vero Dio.
«Non esiste alcun indizio che Gesù si sia mai fatto
credere un’incarnazione di Dio medesimo. Era questa un’idea profondamente
estranea all’intelligenza giudaica…
Anzi, sembra che talvolta Gesù adotti precauzioni per respingere una tale
dottrina. L’accusa di farsi Dio, o l’uguale di Dio, nello stesso Vangelo [di Giovanni] è dipinta come una calunnia
giudaica»: Ernesto Renan, Vita di
Gesù, traduz. presso Dall’Oglio editore, Milano 1962, pag. 136.
«La loro cristologia [dei primi cristiani] non intacca
ancora lo stretto monoteismo israelita: perché se professano per il loro
Maestro una venerazione che lo innalza al di sopra della [comune] condizione
umana, essi sono ancora lontani dall’identificarlo con Dio»: Marcel Simon, I primi cristiani, traduz. Presso
Garzanti Editore, Milano 1958, pag. 33.
L’appellativo «Figlio di Dio non comportava
necessariamente che fosse considerato Dio allo stesso modo del Padre, ma, in
termini giudaici, poteva indicare semplicemente la sua predilezione da parte di
Dio…», perciò quando ancora Gesù
non era considerato Dio, i primi seguaci potevano continuare ad essere Giudei: Edmondo
Lupieri, Fra Gerusalemme e Roma,
in: Storia del Cristianesimo, a cura
di Giovanni Filoramo e Daniele Menozzi, Vol. I, alle pagine 8, 12, 93, Edizioni
Laterza, Roma-Bari 1997.
«Anche se egli [Gesù] si è riconosciuto, esitando, come
il messia, questi non è per Gesù che un uomo incaricato d’una missione divina,
ma non diverso, per natura, dagli altri uomini… Il cristianesimo posteriore…
ha in realtà rinunziato al monoteismo di Gesù facendo di Gesù stesso un Dio.
Questo carattere si viene accentuando di mano in mano che il cristianesimo si
apre alle influenze paganeggianti…»:
Piero Martinetti, Gesù Cristo e il Cristianesimo, Casa
Editrice Il Saggiatore, Milano 1964, pag. 359/360.
■ Nel corso dei secoli, i diversi dibattiti intorno
alla Trinità hanno invaso anche il campo della filosofia (specialmente con
Tommaso d’Aquino), ma sempre con “ragionamenti” viziati nelle premesse o nelle
analogie. Uno dei cavalli di battaglia è stato il seguente: Anima
e corpo formano, nell’unità della persona, una cosa sola, eppure non perdono le
loro caratteristiche. Così le tre
persone divine (Padre, Figlio e Spirito Santo) formano un solo Dio, senza
perdere le proprie caratteristiche. Coloro che sostengono questa analogia
dicono pure che l’anima è qualcosa di
diverso dal corpo, è di natura
“spirituale”, mentre il corpo lo definiscono di natura “materiale”; dicono che
ci sono sostanzialmente due modi di essere della realtà immanente: lo “spirito”
e la “materia”. Così balza evidente una contraddizione: si dice, prima, che la
persona è una, ma poi si afferma che l’anima e il corpo non perdono le
loro caratteristiche; e dunque sarebbero distinte, non una. In questo modo la persona sarebbe due realtà diverse (di natura
diversa!) e non una; mentre è
evidente che l’uomo è uno. La persona
è quelle caratteristiche! Alexis Carrel scrive: «[il fisico e la psiche] sono immagini
dello stesso oggetto [l’uomo]… di
cui arbitrariamente ci siamo permessi di dividere le attività in fisiologiche e
mentali» (L’uomo, questo sconosciuto, traduz. presso Bompiani Editore, Milano
195729, pag. 128). E sir Charles
Sherrington afferma: «non
conosciamo nessun esempio in cui la mente esiste senza la materia» (Le
basi fisiche del pensiero, traduz. presso Giulio Einaudi editore, Torino
1953, pag. 109/110). E per quanto riguarda la teologia citiamo Oscar Cullmann, il quale scrive: Nel
N.T. il concetto secondo il quale c’è l’uomo esteriore e l’uomo interiore è
implicito, ma «ambedue sono
essenzialmente complementari… L’uomo
interiore senza l’uomo esteriore non ha reale esistenza indipendente» (Dalle
fonti dell’Evangelo alla teologia cristiana, traduz. presso Editrice
A.V.E., Roma 1971, pag. 205). La natura umana è “uomo” e non “corpo e anima”.
Infatti, noi percepiamo l’unità, non le parti, perché la realtà è l’unità, e l’unità è la “sostanza” (in
questo caso: “sostanza-uomo”); mentre le “parti” sono potenza: a malapena le intuiamo, per astrazione, senza essere
sicuri della loro esistenza, comunque concepita. Perciò non è vero che l’essere
umano esprime un concetto analogo a quello della Trinità. Per poterlo affermare
dovremmo avere da una parte conoscenza certa della Trinità, e dall’altra
conoscenza certa delle “parti” dell’uomo, o almeno conoscenza certa di una
delle due cose; ma ciò ovviamente non è possibile, per questo il ricorso
all’analogia risulta errato, o per lo meno assai incerto. Noi parliamo
arbitrariamente di “materia” e “spirito”, di “corpo” e “anima”; concetti di cui
non abbiamo nessuna conoscenza reale di ciò che esprimono come di cosa in sé, perché ovviamente non sono mai in sé; per
quanto riguarda il nostro discorso, li abbiamo ricavati dall’uomo per astrazione, e in ogni caso l’uomo è uno (una persona), non è
due o tre persone, oppure due o più “parti”. Il corpo in
sé, senza l’essenza (o anima) non esiste perché è un’altra cosa: è cadavere
(se qualcuno ha “visto” un corpo che cammina, che parla, che pensa, ma senza
anima, senza essenza [appunto un corpo in
sé], si faccia avanti); l’essenza in
sé, senza ciò di cui è essenza non ha realtà, non esiste. Perciò, le
astrazioni per dimostrare la validità di altre astrazioni non sono lecite.
Quando pensiamo, o supponiamo, o immaginiamo, di vedere un corpo vivente che cammina, che parla, che pensa…, non si tratta
effettivamente di un corpo, ma di una persona. La persona (al di là di
ogni definizione astratta) coincide con l’uomo, è l’uomo in carne ed ossa che pensa, che parla, che ha sentimento…,
che ha coscienza di sé e che relaziona con se stesso e col mondo che lo
circonda. E l’uomo è uno, non è trino; uno è l’uomo, una è la persona. Tre
persone in una persona (in una essenza) è un’assurdità. Nulla è analogo alla
Trinità, perché la Trinità è impossibile, è contro ragione. Il corpo (vivente)
è realtà in quanto è in unità con l’essenza (o anima); e l’anima (o
essenza) è realtà in quanto è in unità con il corpo: sono reali nel composto, non
separatamente; la loro realtà singola è espressa da altro da sé, cioè dall’unità “uomo”, che non è né essenza né
materia, né anima né corpo: è “uomo”. Corpo e anima separati non esistono: il
corpo separato dall’anima è cadavere, l’anima separata dal corpo è morta; o
meglio: con la morte dell’unità “uomo” muore la persona. Questo significa che
l’uomo è una realtà composta, mentre
Dio non è composto! Perciò Gesù
Cristo, e tutto il N.T., parlano di resurrezione dei morti e non della “vita”
dell’anima dopo la morte. Aristotele
sintetizza questo discorso (del corpo e dell’anima) dicendo (salvo, poi, a
contraddirsi) che l’anima è l’essenza di
un determinato corpo, e che l’essenza
di una cosa è la cosa stessa; perché la “cosa” è composta, appunto unità (L’Anima, 412b 15, traduz. presso Rusconi Libri, Milano 1996, pag.
117; Metafisica, Libro VII, cap. 6,
idem 1993, pag. 305 ss.). Ma, a differenza dell’uomo, Dio non essendo composto
non è unità: è semplicemente “uno” e “unico”: il Semplice fuori di ogni composto.
Se Dio è Unico, il Semplice fuori di ogni composto, nulla esiste di analogo a
Dio. Quando si crede di aver trovato qualcosa di analogo per spiegare la natura di Dio (o per dimostrare che il
concetto di Trinità è possibile, che non contraddice la ragione) si commette un
grave errore, ponendo una premessa che in ogni caso è inadeguata e, a volte, è
un vero e proprio errore. Perciò, Dio dice per bocca del profeta Isaia: «A chi mi vorreste assomigliare?»
(40,25). Nell’unità, non avviene mai
in natura che le “parti” che la compongono (che sono in essa, non fuori) conservino le loro
caratteristiche: l’idrogeno e
l’ossigeno nel composto “acqua” (unità)
perdono le loro caratteristiche, non sono né idrogeno né ossigeno, sono acqua;
sono nel composto acqua ma con le caratteristiche dell’acqua, perché si tratta
appunto di un composto, mentre Dio non è
composto. Ammesso e non concesso che l’analogia, posta dai trinitari, abbia
un qualche valore, che sia vero che l’anima e il corpo, pur formando una sola
persona, non perdono le loro
caratteristiche, che cioè rimangono “distinti”, che ciascuno rimane ciò che è [incredibile!], ciò sarebbe così
perché l’uomo è composto (ma non è un miscuglio, né una somma; è, appunto, un
“composto”, cioè unità); Dio invece è
“semplice”; e “semplice” è il contrario di “composto”. Dov’è l’analogia? Non c’è
affatto! L’esempio dell’essere umano, dell’uomo,
non soltanto non dimostra che la
Trinità è possibile, ma dimostra il contrario: che la Trinità è impossibile,
perché Dio è Semplice, egli non è (o non ha) essenza e persona (come se l’essenza e la persona fossero due cose diverse e separate), bensì è una sola cosa
che possiamo chiamare essenza, oppure persona [ipostasi o prosopon], o
con altro termine (non importa), ma non possiamo adoperare distintamente più
termini sinonimi come se fossero cose diverse, o come se implicassero una
pluralità di realtà; talché, per quanto riguarda Dio, l’ipostasi sarebbe una cosa e prosopon
un’altra: l’ipostasi sarebbe l’essenza divina, prosopon sarebbero le persone; è
falso! Ed è contro ragione inserire la pluralità nell’Uno. Dell’uomo possiamo
dire (per astrazione, e sia pur impropriamente) che è anima, corpo, ecc., ma
non possiamo dire di Dio qualcosa di simile, perché Dio non è composto. I
sostenitori della dottrina trinitaria affermano una cosa inaccettabile: che le
tre persone (prosopon) sono la stessa
ipostasi, che è l’essenza divina, una e indivisibile; che perciò formano un
solo Dio quanto alla “natura”. Rispondiamo: se in Dio prosopon si identifica e coincide con l’ipostasi, poiché quest’ultima è una e indivisibile, una è anche la persona. Del resto,
anche nella religione pagana gli dèi erano l’essenza divina, una e
indivisibile; basta leggere gli scritti dei filosofi pagani che se ne sono
occupati, particolarmente quelli di Plotino, per rendersene conto. Quest’ultimo,
nelle Enneadi ha compiuto evidenti
acrobazie per giustificare le contraddizioni in termini in cui è incorso,
perché non si può trasformare l’Uno
in Unità senza cadere in
contraddizione. La dottrina di Plotino implica il politeismo; i cristiani,
ammettendo la Trinità, non rischiano di cadere, appunto, nel politeismo?
Sintetizzando: Poiché nel monoteismo Dio e la sua natura coincidono e si
identificano (non si può parlare di “Dio” e
di “sua natura” come se fossero due realtà), è evidente che se l’essenza (o
“natura”) è una (come infatti è), e
per questo è indivisibile, una è
anche la persona, e non tre. John Locke
scrisse: «[La filosofia giocò] la
sua parte nel condurre gli uomini lontano dal vero significato della sacra
Scrittura… Nei secoli in cui il platonismo prevalse, coloro che, provenendo da
questa scuola, si convertirono al cristianesimo, in ogni occasione
interpretavano lo scritto sacro secondo le nozioni proprie di quella filosofia
di cui erano imbevuti» (Saggio per la comprensione delle epistole di
San Paolo, in: Scritti filosofici e
religiosi, pag. 650, traduz. presso Rusconi Editore, Milano 1979). Nella
Sacra Scrittura il concetto di “trinità”, sia per esplicito che per implicito,
è assente, la concezione trinitaria di Dio è destituita anche del fondamento
biblico. Questo significa, ampliando la visuale, che non c’è preesistenza di Gesù;
egli esiste a partire dalla sua nascita in Palestina; e dopo la risurrezione si
è “assiso alla destra di Dio”. Dagli studi di Karl-Josef Kuschel, teologo, esegeta e biblista, apprendiamo
che la preesistenza (che alcuni pretendono di dedurre dal N.T.) nella
concezione ebraica, e quindi in quella biblica, non implica una esistenza
temporale e premondana, ma che la persona e l’opera di Gesù sono dovute
interamente ad una iniziativa di Dio.
Cosicché anche la Congregazione
Cristiana dei Testimoni di Geova (che non accetta la dottrina trinitaria) ci
sembra che, su questo punto, eluda la giusta interpretazione della Sacra Scrittura;
perché questa congregazione afferma, ufficialmente, che il “Figlio di Dio”
esisteva “in cielo”, come essere spirituale, prima della sua nascita a
Beetlemme. Afferma che il Figlio è il primo degli esseri creati da Dio. Questa
idea, di fatto, è una variante della dottrina trinitaria (al di là delle
sottigliezze di ordine filosofico), perché ammette che il Padre (cioè il
Creatore) ha un figlio unigenito, in
senso proprio e letterale (incarnatosi poi in Gesù di Nazareth) il quale
avrebbe collaborato con Dio (con il Padre) alla creazione del Mondo (sarebbe un
dio minore?). Mentre sappiamo che l’itinerario del “Figlio di Dio” non è «cielo, terra, cielo» (concezione
politeista!), bensì «terra, cielo»; il Figlio di Dio («l’Unigenito di Dio»)
nasce a Beetlemme, non nasce in cielo, non è il Figlio “incarnato”. L’Unigenito
di Dio (il Messia) è nato a Beetlemme, ed è uomo,
non è essere incarnato.
Si usa adoperare una metafora a
proposito dei profeti di Dio: il profeta, in generale, “sale” e “scende” dal
cielo; vi sale per conoscere, e scende per comunicare la conoscenza. Gesù,
parlando con Nicodemo, fa uso di questa metafora. Egli, essendo il Profeta per
eccellenza (il Messia atteso, il Figliuol dell’uomo), è salito in cielo in modo
speciale (ha avuto il massimo della conoscenza), talché si può dire che solo lui vi è salito, e disceso (dopo
esservi salito) per portare la conoscenza di Dio (cfr. Giovanni Cap. 3). E, fuori di questa metafora (vale a dire con
un’altra metafora, ma parallela), vi è salito alla risurrezione, e ridiscenderà
alla parusia (Atti 1,11; 1 Tessalonicesi 4,15-18).
Sul significato del termine “Messia” si
veda la relativa voce in: Enciclopedia Garzanti di Filosofia,
Garzanti editore, Milano 1993.
Il tema della “natura” di Cristo, che
riguarda da vicino la dottrina trinitaria, è approfondito e trattato al
completo, dal punto di vista della teologia biblica e dal punto di vista
filosofico, in: Matteo Manzella, L’Ultimo Adamo, op. cit., Leberit, Roma
2004. Infine si vedano, nel presente libro, le note 38, 50 e 63.
Dunque, come deve intendersi il testo
“trinitario” di Matteo 28,19, nel
quale Gesù ordina ai discepoli di battezzare nel nome del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo?
Ecco il testo. Gesù parlò ai discepoli
dicendo: «Andate dunque, ammaestrate
tutti i popoli, battezzandoli nel nome
del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Diciamo subito
che questo è l’unico testo, in tutto il
N.T., nel quale il Padre, il Figlio, e lo Spirito Santo si trovano nella stessa
formula. Poiché vi si trovano assieme, la formula fu detta trinitaria (ovviamente dai trinitari). Per il fatto che nelle altre
formule, battesimali e non, i tre termini non si trovano mai assieme tutte e
tre, e altresì per il fatto che il battesimo, come risulta dal Nuovo
Testamento, veniva impartito
semplicemente nel nome di Gesù, l’autenticità del testo in questione
risulta molto dubbia. Anzi, è quasi certo che si tratta di una aggiunta di un
copista trinitario. Lo storico Marcel
Simon scrive: «Non è possibile credere al passo finale di Matteo, in cui
Gesù ordina ai propri discepoli di battezzare tutte le nazioni “in nome del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Questa formula trinitaria, inattesa
nella sua bocca, è in realtà totalmente ignorata dalla generazione apostolica»
(I primi cristiani, traduz. presso
Garzanti Editore, Milano 1958, pag. 79). I trinitari, in sintesi, affermano che
in questo testo le tre “persone” della Trinità sono accomunate in un unico nome (il nome di Dio?). Affermazione assurda
che si commenta da sé, dato che i nomi sono tre.
Nel nostro trattato intitolato L’Ultimo
Adamo abbiamo dimostrato che il testo è un’aggiunta. Se non è
un’aggiunta, le tre “persone” ivi accomunate
non per questo sono Dio tutte e tre o, più precisamente, un solo Dio.
L’espressione in italiano, ma anche in qualsiasi altra lingua (compreso
l’originale greco), non implica che le tre “persone” siano accomunate in un unico nome (accomunate sì, ma non
in un unico nome, bensì nella stessa azione); e solo il nome esprime l’essenza
(e nel nostro caso solo Colui che è espresso dal nome “Padre” è di essenza
divina, perché è Dio stesso: Giovanni
17,3). I nomi sono espressi per esplicito, e sono tre, e non uno solo. Non si sarebbe potuto dire (anche se i
trinitari affermano di si nel Catechismo
cattolico: Art. 233) “nei nomi del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo”, perché si dice
sempre “nel nome”, anche con riferimento a un plurale. Una forma letteraria
ipoteticamente cosiffatta (…nei nomi...) non esiste in nessuna lingua. Il
nome che identifica la persona è certamente uno, ma qui uno per ogni persona:
“Padre”, “Figlio”, “Spirito”, tre persone. Il significato del testo perciò deve
essere quello letterale, quello che risulta di primo acchito, perché in
ogni caso la proposizione si sarebbe dovuta esprimere come è espressa.
Il significato, infatti, deve essere ed è il seguente: nel nome del Padre, nel
nome del Figlio e nel nome dello Spirito Santo (tre nomi, tre essenze; di cui: una
è divina, una è umana, una è pneuma o ruah); che in maniera più snella
(evitando di ripetere nel nome del)
si esprime correttamente nella forma che troviamo nel testo in questione. Dire:
“Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, significa dire nel nome di ciascuno dei tre (ciascuno con il suo proprio nome!) e non di un solo nome.
Sfidiamo chiunque a dimostrare il contrario. Non si può arguire che se si fosse
detto “nei nomi” (al plurale) non ci
sarebbe stato nessun contenuto trinitario; mentre, poiché è detto “nel nome” (al singolare) il contenuto è
trinitario. Assolutamente no! Si sarebbe dovuto dire in ogni caso come
effettivamente si è detto nel testo, perché questa espressione letteraria (se
si vuol parlare o scrivere in modo corretto) è obbligatoria così com’è, sia per
il significato sostenuto dai trinitari, sia per il significato sostenuto dagli
antitrinitari. Pertanto le ragioni sostenute dai trinitari sono perlomeno
insufficienti, e sanno troppo del senno di poi. In realtà sono il frutto di un
errore linguistico insito nel loro pregiudizio. E poiché la dottrina trinitaria
è assente nella Sacra Scrittura, sia per implicito che per esplicito, è
destituita di ogni fondamento, di ragione e di fede biblica. Aggiungiamo infine
che se fosse esatta l’interpretazione trinitaria di questo testo, dovremmo
concludere che non è autentico; perché comporterebbe una tale finezza di
espressione (quasi una capziosità) e un concetto proprio del senno di poi che
ci imporrebbero di spostare la sua “nascita” di almeno duecento anni rispetto
alla redazione di Matteo. Ha ragione
lo storico Simon quando dice che l’espressione di questa formula è inattesa
nella bocca di Gesù.
Per l’argomento completo si veda il
nostro trattato già citato.
43. L’apostolo
Paolo dice che Dio, per salvare l’uomo ha mandato il suo Figliuolo (il Messia) «simile
[uguale] a carne di peccato» (Romani
8,3). Il termine “simile” è qui usato nel senso di “uguale”, come quando si
dice che il corpo di Francesco è simile a quello di Roberto o a quello di tutti
gli uomini, cioè sostanzialmente
“uguale”. Infatti il termine greco ὁμοῖos
(nel testo: ὁμoiώματι),
dizionario greco alla mano, può significare sia uguale che simile. E’
evidente che Paolo vuole dire che il corpo di Gesù era sostanzialmente uguale a
quello di tutti gli uomini [Cristo è il Secondo Adamo], insomma che era vero
uomo, mortale come tutti i discendenti di Adamo. Perciò poté morire (l’immortale non può morire). Solo il corpo spirituale
è immortale, vale a dire il corpo della risurrezione (e nel N.T. “corpo” è
equivalente a “persona”). Cristo è il primo dei risorti, perché è l’unico uomo
(il secondo Adamo, “figlio” del primo: Luca
3,38) che non ha conosciuto peccato (2
Corinti 5,21/a). La sua risurrezione mette in evidenza che egli è il
Vittorioso e che ciò è garanzia della salvezza dei credenti e di tutti gli
uomini (cfr.1 Corinti 15,13-22; 1 Tessalonicesi 4,13-18). Cfr. L’Ultimo Adamo, op. citata, cap. III.
44. Vedi lo
studio indicato alla nota 40;
soprattutto il § 104/11, alle pagg. 412-418 dell’edizione citata.
45. Piero Rossano (introduzione, traduzione
e note a cura di), Vangelo secondo Marco,
UTET, Torino e Rizzoli Editore, Milano 1984, pag. 13 (in nota).
47. Hans Küng, Credo, R.C.S. Libri & Grandi Opere, Ediz. CDE, Milano 1994,
pag. 66.
48. Si riferisce al Salmo 45, dove il salmista compone un inno nuziale
[profetico? tipologico?] in onore di un re o di un prode condottiero (Davide?),
che chiama “dio” (v. 6), così come,
nel Salmo 82, sono chiamati dii (o dèi) i giudici (dèi e messia:
figli dell’Altissimo; cfr. anche Luca
1,32 e Giovanni 10,34). Sicuramente
si tratta di un titolo onorifico, non si tratta propriamente dell’Iddio.
L’autore dell’epistola, come dice il Cullmann, «è un cristiano colto d’origine
giudaica», dunque uno che conosce bene la cultura e le tradizioni ebraiche, che
ben sa la differenza tra “dio” e “Iddio” nella letteratura giudaica.
Nell’epistola agli Ebrei, la
citazione del Salmo 45 piuttosto che
attribuire la divinità al Messia Gesù, qualifica Cristo con il titolo onorifico
(dio) riservato, tra gli israeliti,
alle persone ragguardevoli, a coloro ai quali la parola di Dio è diretta (gli Unti), che ovviamente non erano e
non sono Dio.
L’epistola agli Ebrei sostiene: a)
la superiorità di Cristo sugli angeli e su Mosè; b) la superiorità del sacerdozio di Cristo su quello del Sommo
Sacerdote giudaico; c) il rapporto
diretto di ogni singolo credente (senza la mediazione di altri sacerdoti) con il Sommo Sacerdote Gesù Cristo, e di
conseguenza: d) che ogni cristiano è
sacerdote a se stesso; e) sostiene
altresì la superiorità del santuario celeste su quello giudaico; f) la superiorità del sacrificio di
Cristo (irripetibile) su quelli degli animali dell’Antico Testamento.
Che cosa non dice l’epistola agli
Ebrei? Non dice che Cristo è Dio; come non dice che l’uomo è Dio (o quasi Dio)
là dove afferma che è «poco minor di
Dio» [originale: Salmo 8,5]. I cristiani sono chiamati “fratelli di Cristo”; il Messia è il “fratello
maggiore”, è l’Erede (secondo la
tradizione ebraica!): il prediletto
dal Padre, dal Creatore. Ogni espressione che può far pensare, in qualche modo,
alla divinità di Cristo, deve essere letta in chiave ebraica e non in chiave
greca, anche perché i destinatari dell’epistola erano giudeo-cristiani con
molta probabilità, certamente non erano di cultura greca. Ora, la concezione
che ammette la divinità di Cristo (e quindi la Trinità) deriva propriamente da
principî che appartengono alla filosofia greca, e non può essere accettata dal
punto di vista della vera ortodossia cristiana che deriva
da quella ebraica.
49. Giulio Busi, Simboli del pensiero ebraico, Giulio Einaudi editore, Torino 1999,
pag. 185, voce “Unto, Messia”.
50. Alcuni
commentatori affermano che qui Gesù si riferisce ai diversi falsi messia che prima di lui
percorrevano la Palestina dicendo di parlare da parte di Dio. Se così fosse,
dovremmo ammettere che Gesù li considerava suoi predecessori, seppur propriamente indegni; degni, comunque,
di essere presi in considerazione («quelli
che sono venuti prima di me»).
In effetti, non si riferisce ai falsi messia (cfr. Ebrei 1,1-4). Quando Gesù li qualifica ladri e briganti, perché i
Giudei si indignano? I Giudei non erano seguaci di quei falsi messia! La nostra
interpretazione, che evidenzia il linguaggio iperbolico di Gesù, ci sembra la
più giusta. Il Nazareno si riferisce agli “uomini
di Dio” che lo hanno preceduto, che
per i Giudei erano come degli eroi nazionali di cui erano ammiratori e seguaci
(almeno a parole); perciò si indignano. Altrimenti perché avrebbero dovuto
indignarsi sentendo che Gesù si faceva loro alleato (dei Giudei) definendo
ladri e briganti quelli che i Giudei stessi avevano condannato come falsi
messia? Gli “uomini di Dio” che avevano preceduto Gesù, rispetto al Messia per
eccellenza, rispetto al vero Messia,
erano iperbolicamente “ladri” e “briganti”. Come è noto, l’iperbole (figura retorica) faceva parte del linguaggio orientale,
anche del mondo ebraico.
■ Solo Dio è immortale (1 Timoteo 6,16). L’Eterno dice ai giudici d’Israele: «Fino a quando giudicherete
ingiustamente? Siete tutti Figli dell’Altissimo [cioè unti, messia: cfr. Luca 1,32]. Tuttavia voi morrete come
gli altri uomini, e cadrete come qualunque altro dei principi» [Salmo
82]. Non siete Dio!
Mentre Cristo, a differenza dei giudici
e dei messia d’Israele, raggiunge l’immortalità il terzo giorno dalla morte,
mediante la risurrezione. Il Padre (il Creatore) ha vita in se stesso; se c’è
qualcuno, oltre Dio, che ha vita in se
stesso, ce l’ha perché la riceve da Dio (come la riceveranno i salvati
nella Nuova creazione; non, dunque, propriamente in se stessi: Romani 2,7; Matteo 19,28; 2 Pietro
1,4: parteciperanno della natura
divina, cioè dell’immortalità). Cristo la riceve (da Dio) perché è il
Giusto Giudice [2 Timoteo 4,8]. «Come il Padre ha vita in se stesso [senza riceverla da alcuno], così ha
dato [ha dato!] anche al Figliuolo
[al Messia per eccellenza] di avere [di ottenere] vita in se stesso [di
riceverla da Dio]; e gli ha dato [altresì] autorità di giudicare, perché è il
Figliuolo dell’uomo» (Giovanni 5,26-27). Il Salvatore è il
Giusto Giudice, ed ha vita in se stesso, prima potenzialmente e poi (dalla
risurrezione) in atto. Dice Gesù: «Io
non posso far nulla da me stesso…
cerco non la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Giovanni
5,30); sono Apostolo, Ambasciatore, Profeta (colui che parla a nome di un altro: a nome del Creatore).
I giudici di cui si parla nel Salmo 82, pur essendo chiamati “dèi”
(appunto “messia”, “Figli dell’Altissimo”) non per questo giudicavano con
giustizia, e non per questo erano immortali. Si veda, inoltre, il comportamento
degli Unti (i re) di Giuda e di Israele e perfino il comportamento di Davide
(Figlio di Dio: Salmo 2,2,7),
antenato di Gesù, che tra l’altro si
rese reo di adulterio e di omicidio (2
Samuele cap. 11). Molto probabilmente Gesù si riferisce anche a tutto questo quando dice che
coloro che sono venuti prima di lui sono stati ladri e briganti. Gesù afferma:
«Il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà del
Padre [del Creatore] che mi ha mandato… io
sono il buon pastore». Queste parole implicitamente partono dal Salmo 82, ma riecheggiano un lungo brano
profetico di Ezechiele, cap. 34, che
andrebbe letto, almeno fino al v. 24.
50 bis. I termini “spirito”
e “logos” nella Bibbia indicano la stessa cosa. Il primo, in ebraico
(nell’A.T.) è ruah; in
greco (nel N.T.) è pneuma. La
traduzione letterale è vento in tutti
e due i casi, ma viene tradotto con il termine “spirito”. Il secondo, nell’uso
preciso del termine, lo troviamo soltanto nel Nuovo Testamento, ma il
significato, benché sia più ricco di sfaccettature rispetto a “spirito”, in
ultima istanza ci porta a concludere che il logos
si identifica con lo spirito divino
(cfr. la nota 63). Se ne parla
soprattutto nell’Evangelo di
Giovanni. Se si tiene conto che il Mondo (l’Universo) è vicino a Dio (è sua
Creatura) è facile comprendere che, in senso metaforico, il logos è vicino al
Creatore, è presso Dio, perché è immanente al Mondo. Il Mondo è la sua “casa”.
Jhwh crea e governa il Mondo, sin dal principio, con la sua Dynamis, tramite il suo Vento, che è in
sostanza, e con altri termini, la Ragione, la Parola, il Verbo, appunto il
Logos, strumento dinamico di Dio
Creatore (Giovanni 1,10). «Nel principio era la parola, e la parola era
presso il Dio [πρὸς τὸν θεόν], e dio era la parola [καὶ
θεὸς ᾖν ὁ λόγος]. Essa era nel principio presso il Dio [πρὸς τὸν θεόν]» (Giovanni1,1-2). Alfred Loisy
traduce il testo nel seguente modo: «In
principio era il Logos, e il Logos era presso Iddio, e il Logos era dio»; e in una nota al testo afferma: «Già
gli antichi osservavano che il Logos è chiamato Θεόϛ, e non ὁ Θεόϛ; esso è divino, è di Dio, ma non Dio nel
senso assoluto» (Le origini del cristianesimo, Einaudi
editore, Torino 1942, pag. 293 e pag. 320). Gesù Cristo, in quanto Uomo
perfetto è, per così dire, la personificazione del logos: le cose perfette sono
logoi per eccellenza; esse provengono
da Dio, e conveniamo di dire che nella sua mente esistono dall’eternità. Poiché
il logos è immanente, l’Uomo perfetto (cioè Cristo) si può dire che è nato a
casa sua (Giovanni 1,11) e a buon
diritto può essere chiamato dio più dei giudici e dei profeti (Salmo 82), ma non è il Dio: è divino
(cioè Uomo perfetto, a immagine di Dio), ma non Dio. Anche i credenti nascono
da Dio (cfr. la nota 19). Si veda,
qui più avanti, la nota 63, e il mio
trattato L’Ultimo Adamo, opera citata, soprattutto le pagine 75-178. Anche
in questo discorso, dell’inizio del Vangelo di Giovanni, è presente implicitamente il concetto della preesistenza
(nella mente di Dio) dei profeti e di tutti i “figli di Dio” (il profeta
Geremia… l’apostolo Paolo… ecc.).
51. Secondo la
Bibbia è Dio stesso che, parlando a
Mosè, spiega il significato [o uno dei significati?] del suo nome (Jhwh). «Dirai così ai figli d’Israele:”l’Io
Sono mi ha mandato da voi”» (Esodo 3,14). Questo significato non
implica in nessun modo il concetto di Trinità. Ma i trinitari non si
rassegnano; affermano: alla
creazione del mondo, in Genesi 1,26, là dove Dio si accinge a creare il
capostipite dell’umanità, è detto: «Dio [‘elóhîm]
disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine…». Il plurale espresso nelle parole
“facciamo” e “nostra” implica che Dio è trino.
Rispondiamo: Non è così! Una prima
considerazione, spicciola ma significativa, è la seguente: se dal plurale di Genesi
1,26 dovessimo dedurre che Dio è trino, allora dovremmo (come infatti possiamo)
dedurre dal singolare di Esodo 3,14
che Dio è Uno, e che se fosse trino dovremmo trovare “Noi Siamo” e non “Io
Sono”. Il termine “Dio” è generico, e nel suo significato non si opporrebbe al
concetto di Trinità; ma JHWH vi si oppone perché significa “Io Sono”, è
l’ESSERE, e l’essere divino è
semplice, uno, e indivisibile. Non è possibile scegliere l’uomo (come invece
fanno i trinitari) per l’analogia intesa a spiegare che la dottrina trinitaria
non si opporrebbe alla ragione. Se l’uomo è creato a immagine di Dio (come
infatti afferma la Bibbia) e fosse vero che Dio è tre persone, allora anche l’uomo dovrebbe essere costituito da tre
persone (attenzione: “persone”, non “parti”; l’analogia riguarda la persona),
ma non è così: l’uomo è una persona,
non tre! Francesco è uno perché la persona è una e non è mai in unità sostanziale con altra o altre persone. E questo è
assolutamente vero anche riguardo a Dio. Il Creatore è semplice (non composto);
l’uomo è una unità tautologicamente composta di parti, ma non di più
persone; la persona è una sola perché
è l’unità. Dire “persona”, dire
“sostanza”, dire “unità” ̶ riguardo all’uomo ̶
significa dire la stessa cosa. Se dunque l’uomo è una sola persona, si
potrebbe dedurre che Dio non è trino, dato che l’uomo fu fatto a immagine di
Dio.
In realtà l’immagine di Dio è l’uomo nella sua natura perfetta, non è Dio.
L’immagine di una cosa non è la cosa stessa di cui è immagine. Certamente non
si tratta di “immagine” analoga alla
natura di Dio. Di sicuro non c’è nessuna analogia tra l’uomo e il Dio dei trinitari;
e non c’è nessuna analogia neppure con qualsiasi altra cosa antropomorfica e
mondana. L’affermazione della Trinità è certamente una forzatura della Ragione
con la quale si vorrebbe giustificare (prescindendo dalla fede) la credenza
nella divinità di Gesù Cristo.
Vi è poi una spiegazione che riguarda
l’uso della lingua semitica nell’ambito della concezione politeista, che con il
termine ‘elóhîm (divinità,
l’insieme di tutto il divino) esprimeva Dio al plurale. Evidentemente, in quel
momento storico, il termine non poteva essere che il plurale della lingua
semitica, perché esprimeva bene l’idea di divinità,
perciò fu usato anche per il monoteismo. Per questo le parole plurali
“facciamo” e “nostra” era necessario che si accordassero con il termine plurale
che indicava la divinità. Il singolare El (dio) indicava uno degli dèi, non
esprimeva la pienezza della Divinità. In sostanza ‘elóhîm è un termine obbligato per necessità linguistica a
cui si accorda “facciamo”, e non implica una concezione trinitaria di Dio. Isaac Asimov, uomo di scienza, scrittore
e saggista, nella sua opera che ha per argomento il primo libro della Bibbia,
cioè Genesi, intitolata In
principio (Oscar Mondadori, Milano 19995) ci ricorda che «gli Israeliti e tutti i popoli
circostanti… parlavano di “dèi”
anziché di “Dio”: ossia, in ebraico,
di Elohim anziché di El. Elohim
diventò un’espressione tanto familiare da essere inseparabile dalla divinità… Ciò spiegherebbe anche l’uso del
“facciamo” e del “nostra”…» (pag. 76). [continua alla nota
successiva]
52. [segue dalla nota
precedente] Il discorso della filosofia trinitaria inizia considerando due
concetti contrapposti come se fossero concordi: afferma che Dio non è “composto” e nel contempo che è
“Unità”. A nostro parere, il “composto” è certamente un tutto, ma ovviamente un
tutto formato (o composto, appunto) da parti, le quali costituiscono quella sostanza o “composto” (quel tutto). Le “parti” di quel tutto (o “composto”) sono sostanziali
ancorché diverse (la forma di
una statua non è la materia della statua…); le parti sono proprie di quel tutto
(non sono “aggiunte”), per questo viene definito Unità: ciascuna delle parti è inseparabile dalle altre e dal tutto.
Si precisa, inoltre, che Dio è “semplice”,
ma si pretende che questa affermazione non sia in contraddizione con la
precedente (che afferma che Dio è Unità). Ammesso che Dio sia Unità,
domandiamoci: che cosa sono più precisamente le “parti” che la compongono?
dato che una Unità priva di parti non è niente! Aristotele insegna: «Parti sono quelle in cui il tutto… si
compone»; «Tutto si chiama… ciò che
contiene le cose in maniera tale che esse costituiscano una unità… quando vi
sia una unità costituita da una molteplicità di parti». Non siamo d’accordo con
Aristotele quando chiama “unità” indifferentemente quella costituita da una
molteplicità di parti e quella che è formata da una sola “parte” o meglio da
una sola realtà immateriale (semplice). Tuttavia condividiamo il pensiero di
Aristotele quando afferma che l’unità
può essere costituita da una molteplicità di parti, anche se, secondo noi, deve
essere costituita da una molteplicità di parti, altrimenti piuttosto che una unità sarebbe un semplice.
Ora secondo i trinitari Dio sarebbe Unità e Semplice allo stesso tempo, il che
è impossibile. Il Catechismo dice: «Il
Padre è tutto ciò che è il Figlio, il Figlio tutto ciò che è il Padre, lo
Spirito Santo tutto ciò che è il Padre e il Figlio, cioè un unico Dio quanto
alla natura» [ma in Dio c’è qualcos’altro oltre alla sua propria natura?].
Questa è un’affermazione doverosa del Catechismo che, giustamente, è stata
fatta per evitare che si possa concludere che ci siano tre dii. Ma facendo
questa precisazione i trinitari affermano implicitamente che non c’è
distinzione delle tre persone, vale a dire che non ci sono tre persone perché sarebbero
identiche. Perciò si è cercato di correre ai ripari, affermando: «Il Figlio non è il Padre, il Padre non è il
Figlio, e lo Spirito Santo non è il Padre o il Figlio». Questa affermazione
contraddice la prima. Secondo noi, la proposizione «il Padre è…» (oppure: «il Padre non è…») implica l’essere, la sostanza; “essere qualcosa” (o “non essere
qualcosa”), riguarda l’essenza, perché l’essenza è la risposta alla domanda
«che cosa?»; che cosa è questo? che cosa non è? Se si dice che ognuna delle tre
persone è ciò che sono le altre due, e che ciascuna delle tre non è nessuna
delle altre due, si esprime una contraddizione in termini che poggia sul
presupposto erroneo che in Dio vi possa essere distinzione tra “essenza” e
“persona”, talché Dio come essenza sarebbe “così” e come persona (o persone) sarebbe “cosà”, dove “così” e “cosa” [termini convenzionali] esprimerebbero
appunto (come infatti esprimono) una contraddizione in termini. Questi concetti
sono bene o male mutuati dall’essere umano, definiti per astrazione, e
applicati a Dio (cfr. nota 42). Ma
l’Eterno (il Dio), per bocca del profeta Isaia, dice: «A chi mi vorreste
assomigliare?» (40,25). Non è possibile applicare a Dio concetti
necessariamente antropomorfici e mondani. Allora si è fatta una ulteriore
precisazione; dice ancora il Catechismo: «La
distinzione reale delle Persone divine tra loro, poiché non divide [?]l’unità
divina, risiede esclusivamente nelle relazioni che le mettono in riferimento le
une alle altre». Osserviamo: 1)
la preposizione “tra” non implica
almeno due realtà distinte, cioè
almeno due sostanze tra le quali “corre” la relazione? Se non ci sono almeno
due realtà distinte (realmente distinte!), in questo caso almeno due dii, non
può esserci distinzione reale e quindi non può esserci relazione alcuna. 2) Chi o che cosa sono “le une” e “le altre” di cui si parla nel Catechismo? Sono qualcosa o sono
niente? Se sono qualcosa, sono qualcosa di sostanziale, perciò tre dii. In Dio
non c’è nulla di accidentale. Insomma se c’è distinzione, questa non può che
essere reale, perché in Dio è tutto
“reale-sostanziale”. Cartesio diceva che «la “distinzione reale” in ogni caso
si riferisce a due o più sostanze», e il Catechismo parla di «distinzione reale delle Persone» in Dio. E poiché è
inammissibile considerare l’essenza e la persona come se fossero cose diverse
[in definitiva ipostasi e prosopon indicano la stessa cosa],
dobbiamo concludere che la dottrina trinitaria ci porta ad affermare che ci
sono tre dii, visto che le Persone divine sono realmente distinte, cioè: sostanzialmente
distinte, che in Dio è la stessa cosa se si ammette, come ammettono i
trinitari, che Dio è Sostanza. Si è cercato di spostare la distinzione reale
dalle persone alle relazioni. Ma se la relazione
è reale in sé, essendo in Dio, questa realtà coinciderebbe con la sostanza
divina che risulterebbe divisa, perché se non la divide bisognerebbe ammettere
che non c’è “relazione tra”
(e se non c’è “relazione tra”,
non ci sono persone); se invece c’è “relazione tra”, allora la sostanza
divina è divisa, ci sarebbero più sostanze distinte in Dio che relazionerebbero
tra loro… eccetera, eccetera. Si
dirà: non è la sostanza a
relazionare, ma la persona. Questo è
vero e non è vero, perché almeno in Dio la persona non è accidente della
sostanza. In Dio tutto deve essere sostanziale. In lui la persona è la sostanza
stessa! Insomma, ipotizzare delle
relazioni in Dio allo scopo di spostare il problema dalle persone alle
relazioni non è una soluzione; significa ripetere la stessa problematica, che
deriva da un fatto semplicissimo dal quale non si esce: che tre non possono essere uno. Questo è il problema! Ed è un
problema creato dai trinitari e mai risolto. Se una è l’essenza divina, una è
la persona divina; perché non c’è distinzione tra essenza divina e persona
divina. Dio è soltanto Essenza (una ineffabile
Essenza); ovvero, è soltanto Persona (una
ineffabile Persona). Dire «Dio è soltanto essenza» equivale a dire «Dio è
soltanto Persona» e viceversa, perché le due proposizioni esprimono la stessa
identica cosa. Non c’è Trinità! Se
poi si dice che ci sarebbe vera distinzione tra essenza divina e persona divina
(incredibile!), avremmo una sola essenza divina e tre persone, ma come si ha
per il genere umano: molti individui di essenza umana; così ogni “Persona-Dio”
(Padre, Figlio, Spirito) possiederebbe l’essenza divina (divisa o replicata,
non importa), e questo significherebbe propriamente politeismo. Certamente i
trinitari nel formulare la loro dottrina intendono affermare il monoteismo; ne
prendiamo atto. Ma ci sembra che insistendo sulla divinità di Cristo e sulla
fede trinitaria che ne è la diretta conseguenza, rischiano di dimostrare il
contrario di ciò che intendono dimostrare. In realtà la Trinità è impossibile;
è contro ragione. E poiché la dottrina trinitaria è assente nella Bibbia (non
c’è neppure per implicito: Cristo non è Dio, è il Messia, il Re), ancora una
volta dobbiamo concludere che è destituita di ogni fondamento.
Bibliografia: Matteo
Manzella, L’Ultimo Adamo, op.
citata, soprattutto il cap. V, Uno, Unità
e Trinità: il politeismo trinitario, pag. 221-238. Nicola Abbagnano, Dizionario
di Filosofia, TEA Torino-Milano 1993, voci:
Essenza, Sostanza, Trinità. Catechismo
della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano
1992.
53. Voltaire, Dizionario filosofico, traduzione italiana presso Newton Compton Editori,
Roma 1991, voce “Antitrinitari”.
54. A questo punto i
trinitari pongono avanti l’idea secondo la quale Gesù Cristo sarebbe «vero Dio
e vero uomo in unità». Ma non è possibile accettare questa affermazione, per
due ragioni: 1) non è un’espressione
o un concetto che troviamo nella Bibbia: non c’è nel Nuovo Testamento, neppure
come prodromo; 2) Il concetto che
vuole esprimere è contro ragione. Aristotele
ci insegna [lo diciamo con nostre parole] che una sostanza (un essere, nel nostro caso Gesù Cristo), quanto
all’essenza, o è A o è B; se per ipotesi fosse A e B in unità, allora non sarebbe né
A né B, sarebbe AB (cioè un’altra cosa sostanzialmente
diversa sia da A che da B). Che cosa sarebbe? Sarebbe impossibile! Insomma, se
Gesù Cristo fosse l’unità dell’essenza
umana e dell’essenza divina, allora
non sarebbe né uomo né Dio. Dal punto di vista della ragione (di cui Dio ha
dotato l’uomo) Gesù Cristo se è Dio non è uomo, se è uomo non è Dio, perché le
due essenze (l’umana e la divina) non possono costituire una sola essenza in
unità, neppure in potenza. La potenza
non è reale; le “parti” sono reali nella sostanza; sono potenza (perciò
non-reali) in quanto astratte dalla sostanza, la quale è definita ciò che è quel che era. Aristotele: «Ciò che è composto di qualche cosa in modo tale che il tutto costituisce
una unità, non è come un mucchio… ma
come qualcosa di diverso [rispetto a ciascuna delle parti che lo compongono]… Ogni singola cosa [ogni individuo]
sembra non essere altro che la propria
sostanza, e l’essenza si dice essere,
appunto, la sostanza di ogni singola
cosa… se la sostanza è una unità [come infatti è], non potrà essere
costituita da sostanze [cioè da essenze] presenti in essa… Solo due cose [costituenti
la sostanza] considerate in potenza (potenza a posteriori, riferita alle “parti” della e nella sostanza) potranno costituire una unità in atto… [vale a dire la sostanza, l’individuo]»:
METAFISICA, VII 17, 1041 b
10-15, pag. 363; VII 6, 1031 a 15, pag. 305; VII 13, 1039 a 5, pag. 349,
traduzione di Giovanni Reale, collana “Testi a fronte”, Rusconi Editore, Milano
1993.
55. Cfr. Matteo Manzella, Uno, Unità e Trinità: il politeismo trinitario, in: L’Ultimo
Adamo, Roma 2004, pagg. 221-238.
56. In Ebrei 1,3 leggiamo: «[il Figliuolo]
essendo lo splendore (ἀπαύγασμα) della sua gloria [della gloria di Dio] e
l’impronta (χαρακτήρ) della sua essenza (ὑποστάσεως)… ecc.». Senza entrare nel merito (il discorso ci porterebbe molto
lontano), qui notiamo che l’autore dell’epistola usa il termine kharaktȇr.
Ora, con questo termine i greci indicavano, tra l’altro, «la cosa incisa, incavata, impressa; il conio di una moneta,
chiamato anche immagine [ma non
effigie]». Dunque kharaktȇr è pressoché sinonimo di immagine. In sostanza qui, in Ebrei 1,3, si dice che il Figliuolo è
l’immagine di Dio. Il teologo Leonhard Goppelt a questo proposito dice: «[In Ebrei 1,3] è inserita un’enunciazione sul rapporto del Figlio con
Dio: egli è come qui si dice con concetti di astrazione ellenistico-giudaica, apaugasma (riflesso) della divinità di
Dio e charaktȇr (impronta) della sua
essenza, cioè egli è ciò che Paolo chiama eikȏn
(immagine, copia) di Dio (2 Corinti
4,4; Colossesi 1,15)». In Ebrei 1,3 si dice che il Figliuolo è, appunto, l’immagine di Dio, e
questo anche sulla scorta del prof. Goppelt. Pertanto, sia kharaktȇr
(in Ebrei 1,3) e sia morphȇ
(in Filippesi 2,6), nel N.T. sono
termini sinonimi di eikȏn (immagine).
Ciò è evidente tanto più quando Cristo nel N.T. è definito «Immagine di Dio».
57. Gli autori
del N.T., parlando di Dio, lo indicano molto spesso e semplicemente con le
espressioni «il Padre», «del Padre», «nel Padre», ecc. che stanno al posto di
«Dio». Perciò è implicito che dove parlano di «Dio Padre» [nel greco, senza la
virgola in ogni caso perché non c’è
la punteggiatura] si debba intendere più precisamente «Dio, il Padre». Per rendersene conto è
sufficiente invertire legittimamente l’ordine dei termini. Dall’espressione
«Dio Padre», verrebbe fuori «Padre Dio», che non è molto corretta. Mentre
dall’espressione «Dio, il Padre»
verrebbe fuori l’espressione «il Padre,
Dio» che è perfettamente corretta. Pertanto, nell’ultima frase del testo sopra
citato, è più corretto tradurre «alla gloria di Dio, il Padre», anche
perché nel N.T. non esiste l’espressione «Dio Figlio», che potrebbe
giustificare l’espressione «Dio Padre», mentre esiste l’espressione «il Figlio». Se fosse vero che nel Nuovo
Testamento si parla di «Dio Padre» (come prima persona della Trinità) allora
dovremmo trovare anche l’espressione «Dio Figlio», ma quest’ultima è
completamente assente, e la prima va tradotta con «Dio, il Padre». Inoltre, così come nell’espressione «alla gloria di
Dio, il Padre», anche nelle altre la seconda parte (il Padre) è il rafforzativo
o l’esplicativo della prima parte (Dio), e ciò è conforme alla teologia del N.
Testamento: Dio è Padre per natura, e vi è un solo Padre perché vi è un solo
Dio; ovvero vi è un solo Dio perché vi è un solo Padre. Gesù di Nazareth ha
rivelato che JHWH vuol dire “Padre eterno”. Nel testo sopra citato, pertanto,
l’espressione «Dio Padre» (traduzione Nuova Riveduta) non può implicare che c’è
un «Dio Figlio» o un «Figlio Dio». Il problema è ignorato, o meglio
inesistente, per alcune lingue moderne, che
a differenza dell’italiano possono o devono tradurre: «to the glory
of God the Father» (traduzione detta di James King, Oxford); «à la gloire
de Dieu le Père». (traduz. Louis
Segond, Paris).
58. I problemi
sono due. ■ 1)
l’espressione «non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa
a cui aggrapparsi gelosamente».
Problematica: l’essere uguale a Dio si riferisce [primo caso:] a qualcosa alla quale Cristo avrebbe potuto aspirare (ma a cui
per umiltà non aspirò), o [secondo caso:]
a qualcosa che già possedeva, alla divinità, all’essenza divina (alla quale
rinunciò)? Nel primo caso, se l’essere uguale a Dio si riferisce a
qualcosa alla quale avrebbe potuto aspirare, ma che per umiltà non vi aspirò,
ci domandiamo: Cristo, mettendo da parte
l’umiltà, avrebbe potuto effettivamente aspirare alla divinità e ottenerla?
Crediamo di no! Adamo, mettendo da parte l’umiltà, ha tentato di farlo (Genesi 3,5), ma fu scacciato dall’Eden.
Cristo ha ottenuto da Dio il titolo di Signore come ricompensa della sua umiltà
e ubbidienza. E non possiamo ammettere che avendo rinunciato a ottenere la
divinità fu ricompensato con il titolo di Signore, perché questo titolo, per
quanto incommensurabilmente alto nel suo significato, non può essere più alto
della divinità. Insomma, se per Cristo c’è una ricompensa, questa non può
essere un gradino più basso di ciò a cui avrebbe rinunciato (alla divinità).
Pertanto non è vero che ha rinunciato alla divinità;
non è vero che era Dio, né ha rinunciato a diventare Dio. Nel secondo caso, si dà per scontato che
Cristo era Dio, ma il testo non lo dice, se non nelle interpretazioni frettolose
e preconcette; e per di più si ammette che si possa rinunciare a l’essere divino che si possiede, o meglio:
che si è. Come se l’essenza divina (ma anche l’essenza in generale)
fosse un vestito di cui ci si possa spogliare o rivestire in senso proprio. ■ 2)
L’espressione «umiliò se stesso, prendendo forma di servo. Problematica: a che cosa si allude con
l’espressione “prendere forma di servo”? Secondo noi significa che rinunciò
alla gloria e alla potenza del Messia, al regno terreno, non alla divinità! La
divinità non è qualcosa alla quale si può rinunciare; la divinità è l’essenza
divina, e l’essenza è ciò che è essenziale, appunto, è ciò che costituisce la
totalità di quella persona o, più in generale, di quella cosa. Insomma, se
fosse possibile rinunciare alla propria essenza per divenire un’altra essenza
(in questo caso da Dio a uomo?) si potrebbe verificare una delle due seguenti
possibilità: a) un “suicidio”
[difficile trovare un termine adeguato]; ma questo non è possibile perché Dio
è, per modo di dire, l’Immortalità fatta persona; l’immortalità è la sua
natura, e sarebbe ridicolo pensare che Dio potrebbe annullare se stesso (anche
se per assurdo Dio volesse morire, non potrebbe morire); c’è almeno una cosa
che Dio non può fare: appunto, morire,
Dio non
può morire; b) una
trasformazione, una metamorfosi; ma ciò avveniva (si fa per dire) nelle
religioni politeiste, oppure nelle fiabe dove un principe diviene rospo
continuando ad essere la stessa persona di prima: è un concetto contro ragione,
inoltre, la trasformazione (se fosse possibile) sarebbe come morire, perché
snaturerebbe la natura di Dio (sempre che fosse possibile), e perciò rientra
nel caso precedente. Infine, un caso a parte potrebbe essere l’incarnazione, intesa come Dio che entra
(?) in un corpo umano, ma questa non merita neppure di essere presa in
considerazione. Insomma, per dirla in poche parole, questo discorso preso alla
lettera e secondo il preconcetto trinitario, è inaccettabile perché è
impossibile sia per il senso comune e sia per la razionalità che la ragione
esige; non se ne trova uno simile in altre parti del N.T. ed è di sapore
politeista: è sicuramente in parte adulterato da una glossa introdotta nel testo e rimescolata, o adattata, al contesto
immediato. Ma c’è ancora un’altra osservazione. In tutto il brano il soggetto
(in senso grammaticale) è Cristo Gesù: «Cristo Gesù, …essendo in forma di Dio…
ecc.». Non si tratta di Dio che diviene uomo (o di qualcosa di simile) come
affermano i trinitari; ma di un uomo (Cristo Gesù) che è elevato al rango di
Signore. Quanto all’espressione «essendo in forma
di Dio», abbiamo già visto che significa «essendo a immagine di Dio» (come Adamo prima del peccato), e lo abbiamo già
dimostrato abbondantemente. Gesù rinuncia alla gloria e alla potenza del Messia
terreno, ed è ricompensato con l’innalzamento alla destra di Dio come Signore
in eterno, nei secoli dei secoli. La logica vuole che il significato originario
del testo sia questo, perché essere Signore alla destra di Dio è molto di più
che essere Messia terreno, mentre non è eguagliabile ad essere Dio;
quest’ultimo paragone non sarebbe neppure da fare. Ancora una precisazione:
certamente Gesù non ha fatto quello che ha fatto allo scopo di ottenere
l’elevazione al rango di Signore, alla destra di Dio. Il progetto della
salvezza, come tale, è interamente di Dio, nella sua “mente” e nelle sue
“mani”. Dio nulla ha promesso al Messia allo scopo di incoraggiarlo a portare a
termine il suo compito. Gesù ha coscienza della sua missione, era in perfetta
comunione col Padre, anche se ci sono cose che sono riservate esclusivamente a
Dio, che Gesù stesso non può conoscere e non conosce (Marco 13,32; Atti 1,7);
ma Cristo può ben dire: Colui che crede
in me, che accetta le mie parole (che provengono da Dio) mettendole in pratica,
io lo risusciterò nell’ultimo giorno, per la potenza concessami da Dio.
Tuttavia non aspira ad una ricompensa particolare; svolge altruisticamente il
compito di salvare l’umanità e di salvare ogni uomo dalla tentazione di
commettere il male, comunica agli altri, e implicitamente anche a se stesso, la
fede
nella vita eterna, che per la grazia (per il volere) di Dio è per tutti i
credenti (e per tutta l’umanità). Il suo parlare, durante la sua vita terrena,
registra un tono sempre più autorevole e più esplicito, via via nel tempo,
raggiungendo il massimo dopo la risurrezione, a seguito della quale (salendo al
cielo, secondo la metafora) riceve la ricompensa: Dio lo accoglie alla sua
destra con il titolo e il rango di Signore: «fu fatto accostare al Vegliardo» (Daniele 7,13), che è una ricompensa alla
quale Gesù stesso non pensava. Da lì (dalla destra di Dio) egli guida
l’Assemblea dei credenti, e lo fa non più con la forza della fede come faceva quando predicava per
le contrade della Palestina, ma con la potenza dello Spirito (Giovanni 16,7-14) che viene dalla realtà personale nella quale si trova:
è il Risorto.
59. Oscar Cullmann, Le Nouveau Testament, Presses Universitaires de France, Paris 1966
[Introduzione al Nuovo Testamento,
traduz. ital. Presso Società Editrice Il Mulino, Bologna 1968, pag. 88].
60. Abbiamo visto altrove
che, secondo ragione, è impossibile l’unità
costituita da due essenze (anche ipotizzando che in potenza siano due, mentre nell’atto che ci dà la realtà sarebbero una), per cui Gesù Cristo non potrebbe essere vero Dio e vero uomo
ad un tempo. Oltre alla prova logica e filosofica che afferma questa
impossibilità, ne abbiamo una di carattere pratico e intuitivo che ricaviamo
direttamente dal N.T. Se Gesù è uno (e non può non essere uno!), ma
si ammette nel contempo che è “vero Dio e vero uomo”, ci dobbiamo aspettare che
il suo comportamento evidenzi comunque l’unità della persona; vale a dire che
l’essere
mostri di fatto di essere uno. Invece, il presupposto delle due nature, almeno
di primo acchito, lo renderebbe diviso, cioè “due persone”, considerando che,
da un punto di vista generale, la “persona Dio” non è la “persona Uomo”. Se
però non vogliamo fermarci alla prima difficoltà, dobbiamo prescindere da ogni
presupposto e considerare Gesù Cristo nella sua condizione reale e storica
dalla quale ci appare soltanto uomo;
talché la divinità che gli viene attribuita è di fatto negata. I trinitari,
riferendosi alla condizione reale e storica di Gesù, per giustificare le contraddizioni
in cui incorrono, dicono che il Messia è, per certi aspetti come se fosse
soltanto uomo, e per altri aspetti come se fosse soltanto Dio [e dov’è finita
l’unità della persona?]. Dicono spesso: è in questo “modo” come uomo; è in quest’altro “modo” come Dio [cosicché Gesù sarebbe diviso: due persone!].
Dal N.T. ci risulta che Cristo,
affermando di non conoscere quando avverrà la sua parusia, evidenzia che è soltanto uomo. E in quanto uomo, non
conosce il futuro se Dio non glielo rivela; e se non conosce il futuro non è
Dio. Gesù afferma: «Quant’è a quel giorno
e a quell’ora [il giorno e l’ora del ritorno di Cristo] nessuno li sa, neppure
gli angeli del cielo, neppure il Figliuolo, ma il Padre solo… Non sta a voi [agli apostoli] di
sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità»
(Matteo 24,36; Atti 1,7). Gesù non sta dicendo: “non posso dirvi quando, perché non sta a voi di sapere i
tempi e i momenti”. Sta dicendo che il Figliuolo (il Messia Gesù) non lo sa, e
con ciò si accomuna agli apostoli stessi (i quali chiedendo di essere informati
ammettono di non saperlo) e agli angeli (che sono creature) i quali anch’essi
non lo sanno (lo dice Gesù stesso):
lo sa soltanto il Padre; lo sa soltanto Dio. Perciò è evidente che, almeno qui, Gesù
non è Dio, è soltanto uomo (il Padre è Colui che sa; il Figlio è colui
che non sa); c’è, nelle sue parole in risposta alla domanda degli apostoli, una
chiara distinzione sostanziale tra lui e il Padre, che equivale ad una negazione
esplicita che ci dice che Cristo è soltanto uomo. E se qui è soltanto uomo, è
uomo sempre e in ogni caso. Ma se, al contrario, ammettiamo che sì come uomo
non lo sa, mentre come Dio lo sa,
allora Gesù Cristo sarebbe diviso: ci sarebbero un Gesù Cristo che sa e uno che
non sa, dato che un solo Gesù Cristo, cioè l’unico (che tale deve essere effettivamente), non può allo stesso
tempo sapere e non sapere una data
cosa: o la sa o non la sa; delle due cose una è vera l’altra è falsa. E poiché
Gesù dice che il Figliuolo (che è uno)
non la sa, questa deve essere la verità, e dunque Cristo non è Dio. Potremmo
continuare con altri esempi dai quali si può dedurre che Gesù non è Dio, ma ci
fermiamo qui.
Nel N.T. non c’è neppure un esempio in
grado di evidenziare che, nella realtà
della persona Gesù Cristo, abbiano agito le due nature in unità (cioè come se fossero una sola natura). Ma come sarebbe
nella realtà di fatto la natura “uomo-Dio” o “Dio-uomo” in unità? Non lo sappiamo; e non lo sappiamo, né mai lo sapremo,
perché è impossibile! Il concetto è contro ragione. Non può esistere l’unità di due essenze. Gesù è il Cristo,
il Messia, il Signore, non è Dio. E questo lo si può dedurre facilmente dal
N.T. D’altra parte, non basta mettere un trattino d’unione tra le parole “Dio”
e “uomo” per evidenziare che si tratta di una unità. Dire Dio-uomo con la pretesa di affermare una
verità è un grosso sbaglio; così come sarebbe sbagliato se dicessimo albero-pesce per provare l’esistenza
dell’unità costituita da due essenze (l’essenza “albero” e l’essenza “pesce”) o
almeno per provare che il concetto non si opporrebbe alla ragione. Adottando
ragionamenti di questo genere, che i trinitari portano avanti a sostegno della
loro dottrina, potremmo dare la prova che anche le cose più assurde non si opporrebbero
alla ragione. Si tratta, invece, di ragionamenti errati, che derivano non dalla
Bibbia, ma dalla filosofia greca (non sempre interpretata in modo esatto) che
sono contenuti, per implicito, nella dottrina cristiana extra-biblica. Si veda:
Matteo Manzella, L’Ultimo Adamo, opera citata,
soprattutto il § 23 e i capitoli IV e V: pagine 48-53 e 199-238.
61. Ci sarebbe,
intanto, da chiedersi: perché l’autore degli Atti riferisce questo episodio ponendo l’accento sul fatto che gli
abitanti di Listra credevano che la divinità poteva assumere sembianze umane?
C’è una sola spiegazione: per mettere in evidenza le false credenze dei pagani
politeisti; per far capire ai lettori degli Atti
che credere alla incarnazione degli dèi (alla incarnazione in quanto tale) non è dottrina cristiana. Insomma, il
racconto così com’è ha un valore didattico: esprime, implicitamente, la
condanna della credenza secondo la quale un dio potrebbe prendere forma umana,
o come dicono altri “incarnarsi”. Certamente Dio (il vero Dio) può fare tutto;
ma la concezione monoteistica (che è propria delle religioni israelita,
cristiana e islamica) per coerenza ci
impedisce di credere ad una simile possibilità. Secondo noi, l’autore degli Atti intendeva suggerire al lettore
questa idea, vale a dire che non c’è “incarnazione” della divinità, indicando
con ciò un concetto che è perfettamente secondo ragione. Ciò che è “carne” è
creatura. La ragione nega che il Creatore possa essere creatura o anche
creatura.
62. Dice Gesù: «Il vostro cuore non sia turbato; voi avete
fede in Dio, abbiate fede anche in me! Nella casa del Padre mio ci sono molte
dimore; se no, ve l’avrei detto; io vado a prepararvi un luogo; e quando sarò
andato e v’avrò preparato un luogo, tornerò
[letteralmente: πάλιν ἔρχομαι = di
nuovo verrò] e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche
voi…» (Giovanni 14,1-3). E l’apostolo Paolo ricorda ai Tessalonicesi che «il giorno del Signore [il giorno del “ritorno” di Cristo] verrà come viene un ladro nella notte [all’improvviso]» (1 Tessalonicesi 5,2), e che in quel giorno i morti risusciteranno
(4,13-18). L’apostolo Pietro dice che la promessa di Gesù sarà adempiuta, senza
ritardo: «Il Signore non ritarda
l’adempimento della sua promessa, come alcuni reputano che faccia…verrà come un
ladro [nella notte]…» (2 Pietro 3,9-10). Tutto il N.T. parla di
questa promessa e del suo «prossimo» adempimento, che è indicato con
l’espressione l’avvenimento della sua
presenza. Non c’è dissenso tra i commentatori di questa dottrina facilmente
deducibile dal N.T., dai Vangeli fino all’Apocalisse. Tuttavia si è discusso, e
a volte se ne discute ancora, se l’avvenimento del Cristo che ritorna
implicherà una sua presenza invisibile
(e tuttavia evidente), oppure visibile
(oltre che evidente). Noi rileviamo dal N.T., con quasi tutti i commentatori,
che il ritorno di Cristo consisterà in una presenza (gr. parusia) visibile, per due motivi: a) perché l’origine del termine parusia
evidenzia che si tratta di una presenza visibile;
b) perché i testi biblici lo
affermano quasi esplicitamente. Nella dedica alle sette chiese (Apocalisse cap. 1) Giovanni annuncia il
tema del libro dicendo, del Cristo che ritorna, che «ogni occhio lo vedrà; lo vedranno anche quelli che lo trafissero».
Coloro che affermano che Cristo sarebbe
già ritornato, in modo invisibile, sono in disaccordo con il N.T. Secondo
costoro ci sarebbero tre fasi: la prima è la presenza del Cristo storico che
predica il Regno di Dio per le contrade della Palestina; la seconda è la
presenza (evidentemente invisibile) a partire dalla sua risurrezione e
ascensione al cielo («dove
due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro… sono con voi tutti i giorni, sino
alla fine dell’età presente»: Matteo
18,20; 28,20); la terza sarebbe iniziata in epoca relativamente vicina a
noi: sarebbe la “parusia”, ma intesa come presenza “invisibile” attuale. Se così fosse dovremmo
domandarci: qual è la differenza tra la presenza invisibile di Cristo a partire
dalla sua ascensione e quella ugualmente invisibile a partire dalla “parusia”?
Evidentemente non ci sarebbe differenza, e questo significa che Cristo non è
ancora ritornato; e significa altresì che il “ritorno” di Cristo (al di là
delle espressioni metaforiche proprie del linguaggio del N.T.) non è altro che
il passaggio dal modo attuale di essere presente (a partire dalla sua
ascensione) a quello escatologico della fine dei tempi, allorché Cristo si
renderà visibile sicché ogni occhio lo potrà vedere (Apocalisse 1,7); è il giorno del suo svelamento, della sua
completa, definitiva e visibile rivelazione (ἀποκάλυψιϛ = rivelazione,
manifestazione)
che coincide con il giorno di Dio (Gioele 2,28-32; Atti 2,14-36; 1 Corinti
15,24), allorché tutto sarà fatto nuovo (Apocalisse 21,5).
Secondo il N.T., dunque, non c’è “ritorno invisibile” di Cristo.
Per una trattazione più ampia si veda: Risurrezione e “ritorno” di Cristo, in: Matteo Manzella, L’Ultimo Adamo, op. citata, pp. 292-370; Dizionario biblico, a cura di Giovanni
Miegge, op. citata, voci “Ritorno di Cristo”, “Parusia”,
“Risurrezione”.
63. Che cos’è
lo Spirito? La risposta richiederebbe un intero lungo capitolo di questo libro.
Cercheremo di sintetizzare l’essenziale. Le prime parole della Bibbia sono le
seguenti: «Nel principio Iddio creò i cieli [o il cielo] e la terra» (Genesi 1,1). Al di là del significato
letterale dei termini, che ovviamente è il primo, i commentatori, quasi
unanimemente, danno anche un significato metaforico, per il quale le parole
“cielo” e “terra” indicherebbero rispettivamente “spirito” e “materia”. In tal
modo per prima cosa Dio ha creato lo spirito e la materia. Ma non ciascuna cosa
in sé, separatamente, prima lo
spirito e poi la materia o viceversa, bensì simultaneamente e in unità, creando
gli esseri, talché non esiste spirito senza materia e non esiste materia senza
spirito. Lo spirito e la materia non sono mai in sé. Noi, infatti, non abbiamo percezione o cognizione reale
dello spirito in sé e non abbiamo percezione della materia in sé. Abbiamo
l’idea di “spirito” come modo di essere della materia, e l’idea di “materia”
come modo di essere dello spirito. Il primato è dunque della materia, che Dio
ha creato nell’eternità, ma con lo
spirito. Si potrebbe dire pure che il primato è dello spirito, ma non privo di
materia. Perciò, “spirito” e “materia” (ovvero cielo e terra) esprimono
un concetto assai simile a quello espresso da Aristotele quando parla di essenza e materia: il composto (non la somma o il
miscuglio) di essenza e materia è la “sostanza”: questo sasso qui, questo piatto, questo fiore, questo albero,
questo cavallo, questo uomo ecc. sono sostanze, individui che ci danno l’Idea
del sasso, del piatto, del fiore, dell’albero, del cavallo, dell’uomo, ecc.;
per i quali, rispondere alla domanda “che
cosa?” (dire che cosa sono),
significa indicare l’essenza (nel
caso nostro lo “spirito”) di ciascun individuo, che ci permetta di
“catalogarli” nella specie, cioè in
“gruppi” della stessa essenza o meglio nei quali l’essenza è replicata in ogni
individuo. Per Aristotele, quando la risposta è ciò che la cosa “non può non essere ciò che è”,
indica l’essenza necessaria.
Nell’A.T. il termine “spirito” è rûah, nel Nuovo
è pneuma.
Con lo spirito che è dentro le cose, immanente, in unità con la materia, Dio
(che è onnisciente, onnipotente e onnipresente: Salmo 139) ha dato e dà forma e “vita” al Mondo, all’Universo e a
tutte le cose che lo formano, animandolo e
animandole da dentro. Lo spirito,
però, non è l’anima; la parola
“anima” indica un’altra cosa, con altri termini in ebraico e in greco: nell’A.T. è néfeš, e nel Nuovo
psykhȇ. L’azione dello spirito è indicata nella Genesi con il termine “aleggiare”: «lo spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque» (1,2). Dio, per così dire, dirige lo
spirito con la potenza delle sue “mani” e con la forza della sua “parola” (Salmo 119,73; Ebrei 1,10; Genesi 1,2
up; 2 Pietro 3,5; cfr. Genesi 2,7). Lo spirito, nell’accezione
di “Ragione” è logos, mentre nell’accezione di “santità” è Spirito Santo; ma
lo spirito in quanto tale è uno. La vita del cristiano ha come ideale quello di
essere condotta dallo spirito di santità o Spirito Santo. Cristo dirige la sua
Chiesa per lo Spirito Santo. Lo spirito trasformerà l’uomo in “corpo spirituale”, da mortale a
immortale; ma tutto ciò avviene sempre per il volere e per la potenza di Dio,
talché la metafora vi allude come “mani di Dio”. Il Mondo intero sarà
trasformato completamente dalle “mani” di Dio, dal rûah: da
“materia carnale” a “materia spirituale”. Oscar
Cullmann afferma: «La
trasformazione del corpo carnale in corpo di resurrezione avverrà solo al
momento in cui l’intera creazione sarà creata di nuovo dallo Spirito Santo,
quando la morte non esisterà più. Allora la sostanza [la materia] del corpo non
sarà più la carne, ma lo Spirito. Esisterà, secondo san Paolo, un “corpo spirituale”… quando Dio con un nuovo atto creatore non distruggerà la materia
ma la libererà dalla potenza della Carne, dalla corruttibilità… [Perciò] la risurrezione non può
avvenire al momento della morte individuale ma solo alla fine dei tempi… Dio ha compiuto qui (alla
risurrezione di Cristo) per anticipazione quel miracolo di creazione nuova che
si attende per la fine» (Dalle fonti dell’Evangelo alla teologia
cristiana, traduz. presso Editrice A.V.E., Roma 1971, pag. 208-209). Lo
spirito non è Dio; è il suo strumento;
e soprattutto non è una persona, né tanto meno la cosiddetta Terza Persona
della Trinità. Nella Bibbia non è mai definito o chiamato Dio; è di Dio, ma non è Dio, è la sua Forza in
azione (la Forza di Dio), in perenne azione; perciò Paolo parla esplicitamente
della Dýnamis di Dio (Romani 1,20). Né si può pensare che Dio
e la Forza di Dio siano una sola cosa, idea che ci porterebbe al panteismo
classico. Dio governa il mondo con la sua Dýnamis, ma dall’esterno. Parafrasando Aristotele, potremmo dire che Dio “muove” il
Mondo senza “muoversi”. Tuttavia, ciò che è di Dio (lo spirito è di Dio) è
qualcosa che ha a che vedere, da vicino, con la natura di Dio: “Dýnamis”,
“Forza” e simili, sono termini metaforici, che certo includono il “movimento” e
la “forza” in senso proprio, ma che esprimono qualcosa di più vasto e di più
profondo, che va al di là del significato letterale dei termini. Di modo che
possiamo dire che Dio è trascendente e immanente ad un tempo. (Vedere anche la nota 50 bis).
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