venerdì 10 luglio 2009

UNO, UNITA' E TRINITA'

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1. LA SOSTANZA.
La dottrina trinitaria, nella concezione tomista che ancora oggi è codificata nel Catechismo1, si basa esplicitamente sull’affermazione che Dio è “sostanza” (Sostanza “spirituale”).
Fra tutti i filosofi, Aristotele è quello che ha formulato meglio la dottrina della sostanza. Lo ha fatto, come è noto, in quella raccolta dei suoi scritti che i posteri intitolarono Metafisica. Questo titolo, che pertanto non è di Aristotele, in greco è tà metà tà physiká e può significare sia “al di là della fisica” e sia “dopo la fisica”. Cosicché il primo significato implicherebbe la trascendenza; il secondo alluderebbe a un fatto temporale: i “libri” scritti dopo la Fisica. Dunque il titolo della più importante raccolta di scritti di Aristotele, in se stesso, nulla di attendibile ci dice sulla dottrina della sostanza, anzi c’è il rischio che ci porti fuori strada.
Non abbiamo qui intenzione di scrivere un trattato sulla “sostanza”. Non ne parleremmo neppure, se questo argomento non fosse considerato fondamentale dai trinitari per la loro dottrina. Ci limitiamo, perciò, all’essenziale, sintetizzandolo con un occhio tutto per Aristotele, ed evidenziando tuttavia i punti sui quali non siamo del tutto d’accordo con il filosofo. Ci rendiamo conto che una sintesi di questo tema corre il rischio di cadere in eccessive semplificazioni od omissioni, se non in errori, ma riteniamo di dire quanto basta per concludere che Dio non è “Unità”, bensì “l’Unico Semplice in sé fuori di ogni composto”, imparagonabile, incomprensibile, inconoscibile nella sua natura fuori metafora. Per questo la Rivelazione è necessaria; Cristo è il Ri-velatore (o mediatore) per eccellenza: rivela Jhwh come Padre, che è l’unico vero Dio: solo il Padre è Dio (Giov.17,3).
Non abbiamo, comunque, difficoltà ad ammettere che la nostra interpretazione di Aristotele è sui generis. D’altra parte, la dottrina della sostanza, anche prescindendo da Aristotele, è la più opinabile, e osiamo dire che è anche la più inutile.
1. Critica delle Idee. L’individuo: la sostanza.
Diciamo subito che Aristotele parte da una posizione di critica alle Idee (o “archetipi”) di Platone. In questa chiave, precisa che la sostanza non trascende la cosa di cui è sostanza; non è una realtà fuori dalle cose; le quali, in qualche modo, parteciperebbero a questa realtà trascendente come “ombre”. La vera realtà è le cose stesse e non le Idee astratte. Dice: «La sostanza, infatti, non appartiene a null’altro se non a sé medesima o al soggetto che la possiede e di cui essa è sostanza»2. Platone poneva la vera realtà nell’universale trascendente, nell’Idea; Aristotele nelle singole cose, in quelle che esistono in sé e per sé.
Per Aristotele l’essenza (o Idea) come “universale” non è reale, è soltanto una astrazione dalla realtà delle cose che serve a indicare la specie o il genere3. E conclude: «Si è dimostrato come né l’universale né il genere siano sostanza»4. L’argomento è ribadito diversi secoli dopo da vari filosofi; e nel 1651 da Thomas Hobbes nel suo Leviathan. Dice il filosofo inglese: «Dei nomi alcuni sono propri e singolari a ciascuna cosa, come: Pietro, Giovanni, quest’uomo, quest’albero; ed altri sono comuni a molte cose, come: uomo, cavallo, albero [sottinteso: l’uomo, il cavallo, l’albero], ognuno dei quali, benché non sia che un nome, è tuttavia il nome di diverse cose particolari, rispetto alle quali, tutte insieme, esso è chiamato universale, non essendovi altro nella parola universale che i nomi, perché le cose nominate sono ciascuno di quei nomi preso in senso individuale e particolare. Un nome universale è imposto a molte cose, per la loro somiglianza in qualche qualità o altro accidente; e, mentre un nome proprio rievoca allo spirito una cosa sola, gli universali ne richiamano molte»5.
Aristotele dice (riassumiamo con nostre parole) che la realtà è l’essenza determinata, che chiama appunto “sostanza” (o “sostanza prima”). È l’individuo: questo sasso qui, quest’altro sasso...; questo albero qui, quest’altro albero...; questo cavallo qui, quest’altro cavallo...; questo uomo qui, quest’altro uomo, Francesco, Lucia, Paolo... eccetera. La realtà è quel soggetto che esiste in sé e per sé, che di nulla ha bisogno per esistere fuorché di se stesso. Perciò l’individuo (o “sostanza”) è ciò che non può essere partecipato, che non è “parte” di nulla, né ha qualcosa realmente in comune con chicchessia: non è né comprendente né compreso; non comprende altri individui e non è mai compreso da altro individuo, perché ogni determinata essenza è un individuo a sé, e nessun individuo potrebbe essere determinato da due essenze o più, neppure se queste fossero considerate in unità per assurdo6. Perciò il filosofo dice che «l’essenza dovrà appartenere, primariamente e assolutamente, alla sostanza... e l’essenza si dice essere, appunto, la sostanza di ogni singola cosa»; non ci sono essenze (o Idee) fuori dalle cose; l’essenza determinata di una cosa è la cosa stessa, e le essenze indeterminate non sono reali, sono termini, parole, che indicano ciascuna la specie o il genere di “determinate essenze” (o sostanze), vale a dire indicano l’universale (appunto la specie o il genere) che è la base del conoscere. «Conoscere la singola cosa – è sempre Aristotele che parla – significa precisamente conoscere l’essenza, così che... è necessario che l’essenza [tautologicamente singola] e la cosa singola costituiscano una unità»7. Quanto a noi ricordiamo che Adamo conosce il mondo che lo circonda dando il nome a ciascuna cosa (Genesi 2,19-20). Elémire Zolla dice che «il nome è sempre l’essenza della cosa, nella misura in cui ne è l’unico nome. Un soffio di voce regge le cose. Il Verbo genera gli oggetti»8.
Stando così i fatti, è facile dire che cos’è la sostanza: è, appunto, l’individuo. È le realtà che non hanno bisogno di inerire a qualche cosa per esistere: è questo albero, questo cavallo, questo uomo...(è l’essenza necessaria). E perciò la sostanza è immanente, non trascende la realtà delle cose, è le stesse singole realtà. La realtà è “sostanza”, è le singole sostanze. «È dunque chiaro – dice il filosofo – che nulla di ciò che si dice in universale è sostanza... la ‘sostanza prima’ di ciascun individuo è propria di ciascun individuo e non appartiene ad altri»9; anzi è l’individuo stesso; è l’essere in atto, cioè “forma” o, meglio ancora, la “materia formata”, in quanto la forma è principio di determinazione della materia: la “cosa” reale deve presentarsi determinata; la materia non si dà mai senza la forma, senza il principio di determinazione. E tuttavia la questione non è così semplice.
Aristotele per dire “sostanza” dice ousía, che in greco è una forma del verbo essere equivalente a “essere reale”; letteralmente significa “essentità”; è l’essere, l’essere per eccellenza. Per sola curiosità ricordiamo che il termine ousía si trova nel Nuovo Testamento nel significato di “sostanze” nel senso di “beni”, “patrimonio” (Cfr. Luca 15,12-13). E questo lascia intravedere che il termine ousía si presta comunque a indicare cose reali, non astratte. Il termine “ousía”, già di per sé, ci lascia intuire che abbiamo a che fare con l’essere reale, in quanto essere. Ciò che è reale in sé è appunto la sostanza. Questo significa che cercare che cosa sia la sostanza tautologicamente immanente, equivale a cercare che cosa sia l’essere tautologicamente reale, l’essere primo. L’essere pertanto, anche come idea o concetto, non trascende gli esseri.
2. L’essere è sempre determinato. Nessun “principio” può essere costituito da più “principi”.
«L’essere primo – dice Aristotele – ossia non un particolare essere, ma l’essere per eccellenza, è la sostanza»10. Vale a dire: tutto ciò che esiste come individuo, esiste nella forma più radicale dell’essere. E se la sostanza non trascende le cose, allora neppure l’essere trascende le cose, dato che è la sostanza. Infatti, nella realtà l’essere è gli esseri, è le sostanze, gli individui. «Chi infatti è in grado di comprendere – dice ancora Aristotele – che l’essere in se stesso è qualcosa, se esso non è propriamente qualcosa di determinato?»11. Perciò il filosofo conclude: «In verità, ciò che dai tempi antichi, così come ora e sempre, costituisce l’eterno oggetto di ricerca e l’eterno problema: “che cos’è l’essere”, equivale a questo: “che cos’è la sostanza”...»12. Tuttavia, volendo essere ancora più precisi, bisogna rilevare una sfumatura del discorso di Aristotele, là dove dice che la sostanza è causa dell’essere13, però la causa è immanente, si identifica con la sostanza stessa. In definitiva la sostanza è la causa di se stessa, ovvero è la causa dell’essere, il principio. Infatti, dice Aristotele che tutte le cause sono “principi”, e principio (arkhê) è «il primo termine a partire dal quale una cosa o è o è generata o è conosciuta»14. Da ciò è facile dedurre che (nel reale; e soltanto il reale è o è “generato” o è conosciuto) i termini “principio”, “causa”, “sostanza”, “essere”, “individuo”, in questo discorso (non sempre dunque) possono assumere il valore di sinonimi: la sostanza si identifica con l’essere; cosicché essendo l’essere come sostanza “composto”, la sostanza è anche causa del divenire. Il filosofo, all’inizio della Metafisica parla della sapienza che consiste nella ricerca delle cause prime e dei principi15. Inoltre, egli dice: «Se la sostanza [prima] è una unità [come è effettivamente], non potrà essere costituita da sostanze [prime] presenti in essa», cioè da più essenze16. Vale a dire, in una sostanza (come in ogni sostanza) non possono esserci più “unità” (o meglio ancora: nessuna sostanza può essere più di una unità) perché la sostanza è già unità e in quanto unità non può che essere una, senza l’apporto di altra unità che concorra a formarla, ed è così non per capriccio ma per necessità di ragione. E, poiché la sostanza è “principio” (meglio: principio principiato: tautologicamente principiato), vuol dire anche che «nessun “principio” può essere costituito da più “principi” presenti in esso»17; o ancora: due o più principi non possono essere “parti” essenziali di un “principio” o sostanza, cioè di un individuo; e nessun individuo può essere costituito da due essenze (o nature) e da una materia, o da due materie (o “differenze”) e da una essenza senza che la logica diventi assurdità.
Come dunque Gesù Cristo potrebbe essere l’unità di due principi (quello umano e quello divino)? L’uomo Gesù Cristo è costituito dall’unità di una sola essenza e dalla materia, come tutti gli uomini; la sua essenza, proprio in quanto essenza, deve essere una essenzialmente e tautologicamente; non può essere unità di due essenze. L’essenza, per sua natura, rifiuta ciò che non le appartiene: o è questa o è quest’altra, o è umana o è divina. Se fosse possibile l’unità dell’essenza-uomo con l’essenza-Dio (o viceversa), l’essenza che ne risulterebbe che essenza sarebbe? Non sarebbe né essenza-uomo né essenza-Dio; o tutt’al più e per assurdo – considerata la particolarità dell’essenza divina – sarebbe soltanto “essenza divina”. Ma in questo caso non potrebbe essere a sua volta in unità con la “materia-uomo” per formare l’individuo-persona Gesù Cristo, perché l’essenza divina è Dio stesso, il quale è il Semplice in sé (il Non-composto fuori di ogni composto); ma in unità con la “materia-uomo” (o comunque con la “materia”) non sarebbe più il Semplice in sé perché sarebbe “composto” o almeno in un composto. In effetti l’essenza-divina non può essere in unità con l’essenza-umana, perché – come abbiamo già detto – nessun principio può essere costituito dall’unità di due principi. Le realtà (tutte le realtà) devono essere e sono o realtà in sé (vale a dire individui, “composti”), oppure “parti” degli individui inseparabili dagli individui stessi. Nell’uno e nell’altro caso, una realtà essenziale è una realtà, non può essere l’unità di due realtà: o è un individuo (determinato tautologicamente da una sola essenza), o è una “parte” sostanziale di individuo, quindi una, non due. Nessun essere può essere costituito essenzialmente dall’unità di due essenze e della materia. La materia, in questo caso assurdo sarebbe determinata in due modi diversi, ovvero (a seconda dei punti di vista) determinerebbe due essenze diverse [?!] in un solo modo, il che è impossibile e contraddittorio, e se tuttavia fosse possibile ci troveremmo con due individui in unità, cioè con due unità in una unità, il che non soltanto è contro ragione, ma dà fastidio il solo pensarlo. Gesù Cristo che è vero uomo, l’uomo per eccellenza, a immagine di Dio, è uno. Inoltre, secondo Aristotele e secondo ragione, l’essenza e la materia sono l’unità dell’individuo da sempre, da quando esiste quell’individuo stesso (quel determinato individuo) e nessuna delle due preesiste realmente rispetto a quel determinato individuo o essere [quest’essere (o sostanza) – dice Aristotele – è (tutt’ora) ciò che era (anche prima), tò tí ên eínai18]; mentre l’essenza divina, nell’ipotesi che fosse in Gesù Cristo, preesisterebbe rispetto all’individuo Gesù Cristo, il che è inammissibile: è contro Aristotele e contro ragione. In conclusione, come tutti gli individui, come tutte le realtà in sé, Gesù Cristo non può essere due forme, perché ogni forma è già unità per sé: se per assurdo è due forme, allora è due individui; ma sappiamo che la sostanza non può essere costituita da sostanze [prime] presenti in essa. Se fosse possibile l’unità di due essenze, questa “unità” in atto (perciò essenze determinate, individui) non sarebbe una doppia natura (una doppia essenza) come vorrebbero i trinitari riguardo a Gesù Cristo; non sarebbe né uomo né Dio; l’uomo-Dio (o il Dio-uomo) sarebbe quell’individuo che si potrebbe definire soltanto per ciò che non è: in atto non sarebbe né “uomo” né “Dio”, perché i due “principi” non possono essere in atto ciascuno per sé, e in unità non sarebbero né l’uno né l’altro. L’attribuzione della “divinità” a Gesù Cristo porrebbe tali e tanti problemi (come in effetti li pone ai trinitari), da rendere impossibile una spiegazione; anzi ogni spiegazione finisce con l’evidenziare chiaramente che la doppia natura attribuita erroneamente al Salvatore, non soltanto è inutile dal punto di vista teologico, ma è anche un concetto contro ragione, cioè impossibile. Inoltre è un concetto estraneo alla Bibbia, che non lo contiene neppure per implicito; anzi, l’implicito esclude il concetto trinitario.
3. Ricerca della causa dell’essere.
Aristotele inizia il discorso sulla ricerca della causa dell’essere partendo dalle cose evidenti, accettate senza difficoltà da tutti, per portarlo successivamente sulle cose e sui concetti meno evidenti. Parte dalle sostanze facilmente accettabili come tali; dalla loro analisi deduce il concetto o definizione di sostanza che vale per tutte le sostanze. Dice: «Si ricerca la causa della materia [sensibile o intelligibile: VIII, 6, 1045 a], vale a dire la forma [eîdos, l’essenza determinata] per cui la materia è una determinata cosa: e questa è appunto la sostanza [tautologicamente “composta”]. È evidente, allora, che delle cose semplici... dovrà esserci un altro tipo di ricerca... Ciò che è composto di qualche cosa in modo tale che il tutto costituisce una unità, non è come un mucchio [non è come una somma o un miscuglio], ma come una sillaba... non è riducibile unicamente alle lettere... ma a qualcosa di diverso da esse»19. Infatti, un tutto può essere concepito in due modi: 1) un “tutto” logicamente posteriore alle sue parti, e questo si configura più propriamente come una “somma” di parti o un “miscuglio”, o anche un “insieme” omogeneo o eterogeneo; in questa concezione le “parti” esistono realmente prima del “tutto”; 2) un “tutto” logicamente anteriore alle sue parti, e questo è un vero e proprio tutto che va oltre le sue parti, e si può dire anche con altre parole: una cosa costituita da “parti” (cioè in unità) è “maggiore” (meglio: diversa) della somma delle sue parti (ciascuna considerata in sé); in questa concezione le “parti” non esistono prima del “tutto” e non lo seguono (nel tempo) ciascuna in sé, perché sono inseparabili dal “tutto”. Perciò soltanto nel secondo caso abbiamo propriamente un tutto, perché nel primo le parti del tutto sono realmente distinte, mentre nel secondo costituiscono una sola unità o “composto”, e quest’ultimo concetto è la definizione di “tutto” o sostanza presentata da Aristotele.
Con un esempio moderno e con nostre parole si potrebbe dire: l’acqua, che è formata dal composto (o unità) di idrogeno e ossigeno, non è né idrogeno né ossigeno, è un’altra cosa, è acqua. Il “composto” è la causa dell’acqua, che è terza rispetto ai due componenti, e per terza intendiamo appunto che non è né l’uno né l’altro. In questo modo abbiamo dato la definizione di “unità” (che in chimica si dice precisamente “composto” e nella filosofia d’Aristotele si dice anche, e più spesso, “sostanza”). Naturalmente la metafora non può corrispondere esattamente al concetto che si vuole esprimere (tra l’altro, l’idrogeno e l’ossigeno esistono anche ciascuno in sé; mentre né l’essenza né la materia esistono ciascuna in sé). Vogliamo comunque dire che i concetti di “unità” e di “sostanza” si identificano. La sostanza è “unità”, vale a dire un composto (di essenza e materia). Sì, deve essere un composto; tanto è vero che i “semplici”, considerati in sé, non sono reali perché in se stessi non sono sostanza, tuttavia lo sono in quanto sono “parti” inseparabili della sostanza, non possono essere fuori della sostanza per avere una esistenza propria, che oltretutto sarebbero inconoscibili. Il “bene”, considerato in se stesso, è un “semplice”; non può essere conosciuto se non è un composto, vale a dire un determinato bene (e non in sé); perché, dice Aristotele, se «le sostanze e le loro essenze vengono separate le une dalle altre [come fanno i platonici], delle prime non ci sarà scienza e le seconde non avranno più alcun essere... [cosicché verrebbe fuori che] ciò cui non appartiene l’essenza del bene non è [non potrebbe essere] bene», non ci sarebbe neppure l’idea del bene comunque la si voglia considerare20 (l’idea viene dalla realtà, e non la realtà dall’idea). Insomma, le Idee o essenze o archetipi (se così vogliamo chiamarli) sono astrazioni a posteriori (universali), mentre gli individui (che sono particolari) sono realtà a priori. La realtà è gli individui che formano il molteplice, non è l’universale. Quando Aristotele dice che i “semplici” devono far parte di un composto, secondo noi si riferisce a tutti i “semplici”, i quali in modo evidente fanno parte delle sostanze tout court che sono quelle tautologicamente e ovviamente composte, perché (mettendo da parte l’interpretazione “ortodossa” della filosofia aristotelica) non ci possono essere e non ci sono altri semplici oltre quelli delle sostanze composte e non ci sono quindi sostanze semplici. Altrimenti è come se Aristotele dicesse: “Cari lettori, i semplici che fanno parte di un composto (non quelli che non fanno parte di un composto, che non esistono) devono far parte di un composto”; bella scoperta! Insomma, si deve intendere (e se ciò non intendeva dire Aristotele, lo diciamo noi) che tutti i “semplici” comunque considerati devono far parte di un composto, di un tutto; o ancora meglio, che non esistono “sostanze” semplici. Perciò Dio è unico e solo, perché è l’unico Semplice che non fa parte di un composto. Però è in compagnia della sua stessa manifestazione, cioè delle sue creature, che costituiscono il Mondo. Non sappiamo come questa “compagnia” si possa configurare, se non ricorrendo a concetti antropomorfici: l’affermazione che Dio gode (o che Dio debba godere) della compagnia degli esseri infiniti da lui creati è comunque un concetto antropomorfico, giusto o sbagliato che sia.
4. I “semplici” devono stare nel “composto”.
Insomma, quando Aristotele discute del rapporto tra Idee e Cose, non lo pone, per esempio, soltanto tra “albero-idea” e “albero-cosa” (che potrebbe risultare equivoco), ma sceglie una o più Idee (archetipi, potrebbe dire Platone) inequivocabilmente “semplici”, come il bene, e lo pone in rapporto alle “cose” che sono buone: il semplice contro il composto. E conclude che quel semplice deve stare in quel composto, che la realtà è il composto; che il bene da solo (considerato in sé) come trascendente le “cose” stesse che sono buone, è una falsa realtà, non esiste. E proseguendo lo stesso discorso con l’animale, il bello, l’essere..., evidenzia le molte incongruenze e assurdità delle Idee trascendenti21. Noi aggiungiamo – contro Platone e contro Aristotele stesso – quest’altra osservazione: perché il bello non può esistere da solo (o meglio anche da solo) oltre che nelle cose belle, se si ammette l’assurdità dell’esistenza di sostanze semplici? C’è il sospetto che Aristotele esclude (giustamente) le “sostanze semplici” trascendenti ammesse da Platone, soprattutto per dare l’esclusiva alle sue “sostanze soprasensibili”. Ma in effetti, neppure queste (semplici o non semplici, non importa) possono esistere. Tanto è vero che le prove logiche che il filosofo dà della loro esistenza non sono prove, ma anzi affermazioni prive dell’avallo logico. Con la stessa “logica” si potrebbe affermare qualsiasi cosa, anche l’esistenza di somari con le ali, se per caso “gli antichi” (vedi più oltre) avessero affermato che esistono. Insomma, che l’Idea trascendente del bello non esiste realmente, vuol dire semplicemente che non esiste alcuna sostanza semplice e reale in sé, e non soltanto che non esistono a parte le essenze delle sostanze composte, perché tutte le sostanze sono composte: la definizione di “sostanza” è il “composto” o “unità”.
L’unico semplice che non faccia parte di un composto è Dio. La sostanza è composta di materia e forma (o essenza) non nel senso che esistono realmente da qualche parte l’essenza e la materia, e si unirebbero ad un dato momento per formare la sostanza (così non sarebbero “unità” bensì “miscuglio”), è composta nel senso che esistono simultaneamente in unità nel composto, senza essere stati prima fuori del composto medesimo: l’essenza e la materia di una data sostanza non esistevano, non esistono e non esisteranno in sé; sono sempre e da sempre indivisibili (inseparabili), a partire dall’esistenza di quella sostanza; si che non possono separarsi l’una dall’altra per continuare ad essere ciascuna (o almeno una di esse) per proprio conto ciò che era nell’unità della sostanza. E se non sono “separabili” non sono neppure “unibili”: “nascono” in unità; non preesistono rispetto all’unità. Se la forma (l’essenza) di “casa” si separa dalla materia – si fa per dire – significa che la casa è distrutta (ed anche qui l’esempio non è del tutto calzante). Ovviamente non è distrutta la sostanza-casa in universale, come concetto, come idea non reale in sé, ma quella determinata casa, essendo sottoposta al divenire, è distrutta. Infatti, la sostanza-casa (come tutte le sostanze) considerata in astratto, come concetto o definizione, o idea indeterminata, o come “principio” che impropriamente diciamo astratto, non si genera e non diviene, non nasce e non muore. Ma l’unità reale di essenza e materia, questa sostanza qui, l’individuo tautologicamente in atto, questa determinata casa, si genera e diviene, nasce e muore, grazie alle quattro cause (materiale, formale, efficiente, finale) di cui Aristotele stesso parla nella sua Fisica.
5. L’eídos, ovvero l’essenza determinata.
Quando Aristotele parla della forma non intende parlare soltanto e propriamente della forma intesa come aspetto esteriore fatto di linee e superfici, che in greco si dice morphê e di cui a volte si serve come esempio-metafora per spiegare l’inseparabilità dell’essenza dalla cosa di cui è essenza; intende invece parlare dell’essenza determinata, che chiama anche “essenza necessaria”, quella che appartiene alla cosa, vale a dire intende parlare della cosa stessa, che è l’individuo nella sua completezza: quest’albero, questo cavallo, quest’uomo (Paolo, Lucia, Francesco...). Certo – come abbiamo detto più sopra – usa il termine eídos per indicare l’essenza (che in greco si dice tí estin), quindi un uso improprio del termine. Ma se si tiene conto che etimologicamente eídos contiene la radice idêin che significa “vedere”, si comprende che il filosofo intende riferirsi ad una realtà immanente22. Il termine eídos letteralmente significa “forma”, ma Aristotele lo usa per indicare l’essenza determinata, quella che è in unità con la materia, è l’individuo: un altro modo per dire “sostanza”. Ovviamente nella sostanza non è esclusa quella forma che è indicata con il termine morphê; essa è implicita nel significato del termine eídos. “Morphê” è compresa; “eídos” è comprendente. Questo uso aristotelico del termine eídos è in polemica con l’uso che ne fanno i platonici. Aristotele preferirebbe il termine ousía. Platone usava eídos per indicare il trascendente; Aristotele per indicare l’immanente. Per Platone l’eídos (la forma, l’essenza, la realtà) si poteva “vedere” soltanto con gli occhi della mente; per Aristotele si vede (e si tocca) in senso proprio, è l’essenza necessaria, le cose composte, è le realtà, gli esseri; mentre l’essere in universale non è sostanza. Per Platone, quella che noi chiamiamo “realtà” (gli individui) è l’ombra della vera realtà trascendente; per Aristotele, la realtà è proprio gli individui, quelli che vediamo e che tocchiamo o, più in generale, quelli che si possono vedere e toccare. Un discorso a parte meriterebbero gli “intelligibili”. Qui ci limitiamo a ricordare che per Aristotele l’intelligibile è l’oggetto dell’intelletto, ma non entriamo nel profondo del discorso. Diciamo semplicemente che se ciò che è oggetto dell’intelletto fosse in se stesso una realtà trascendente, che non si vede e non si tocca, cadremmo di nuovo nell’eídos inteso come lo intendeva Platone.
Si dice nel comune linguaggio che la forma è sostanza, e il riferimento è ad Aristotele. Ma bisogna precisare che, in questi termini, la forma di cui il filosofo parla non è l’essenza considerata in sé, ma quella determinata essenza individuale, appunto l’individuo. Si dice perciò che la forma è sostanza per dire che la realtà è l’individuo e non le astrazioni. La sola realtà è la sostanza. Dunque, si può dire meglio che la sostanza (l’unità di essenza e materia) è forma.
6. Il “replicato” e la “differenza”; ovvero: essenza e materia.
Ma facciamo un passo indietro. Abbiamo detto che la sostanza è l’unità di essenza (estin) e materia (ýlê), che in unità sono “forma” (eídos). L’essenza è ciò che è replicato (non diviso) in tutti i soggetti (o individui) della stessa specie; mentre la materia è ciò che non è replicato nei soggetti (ogni individuo è la sua propria), vale a dire la materia è la “differenza”, quella che costituisce più profondamente l’individuo. L’essenza è la determinazione della materia, oppure – a seconda dei punti di vista – la materia è la determinazione dell’essenza. Se l’essenza è uguale (cioè “replicata”) in tutti gli individui della stessa specie, ed è essa a determinare la materia come una sorta di “stampo” che lascia la sua impronta, gli individui della stessa specie (cioè quelli dello stesso stampo) dovrebbero essere tutti completamente uguali tra loro. Ma non è così; e secondo noi non è così perché potrebbe essere che è la materia a determinare l’essenza (vale a dire si partirebbe già da una diversità, da una “differenza” potenziale); e così essendo diversa la materia, diversa e separata da individuo a individuo (ognuno sarebbe la sua, non replicata), tutti gli individui sono diversi anche se sono uguali in quell’essenza che la loro materia avrebbe determinato. Certamente, di fatto, l’unità sostanziale nell’ambito della specie è il “simile” (non l’uguale); quindi gli individui di una stessa specie non sono del tutto uguali, né del tutto differenti. «Neanche due sole cose nell’universo – dice Nicola Cusano – possono essere perfettamente uguali in tutto»23. Il problema rimane aperto: è l’essenza a determinare l’individuo, o è la materia individuale a determinare l’essenza? Noi simpatizziamo con quest’ultima possibilità. Comunque sia, questa problematica mette in luce (e suggerisce perciò una soluzione) che l’individuo deve essere l’unità. Non c’è realmente essenza “in sé” e non c’è realmente materia “in sé”; c’è la sostanza. La materia, dice Aristotele, è potenza24 . Ma noi ci domandiamo: è potenza per il fatto che viene determinata dall’essenza, o è potenza per il fatto che determina l’essenza? È un’altra faccia dello stesso problema precedente. Secondo noi “essenza” e “materia”, ovvero “forma” e “differenza”, sono tutte e due potenza, sono la potenza della sostanza. Ma sono potenza a posteriori (e in questo abbiamo qualche appoggio da Aristotele stesso). La potenza come essenza e come materia, cioè come “parti” della sostanza, è “astratta” a posteriori dalla sostanza stessa, perché abbiamo detto che esse (l’essenza e la materia) non hanno esistenza propria fuori dell’unità sostanziale, non possono essere separate. Per esprimere questo concetto, Aristotele si serve di una metafora: dice che è come la forma della statua di bronzo che non si può separare dal bronzo della statua25. La potenza non è reale, è reale la sostanza, per cui se le “parti” della sostanza, considerate in sé, sono potenza, la sostanza è atto. Se le “parti” fossero realmente in sé, sarebbero “atto” esse stesse e non potenza. L’essenza e la materia, senza l’atto (senza l’unità) che le faccia esistere, sarebbero nulla; per esistere devono essere, e per essere devono essere sostanza tautologicamente in atto. La realtà, ogni realtà, è atto oppure lo è come parte dell’atto, in quanto è nell’atto stesso: l’essenza e la materia sono reali perché, e in quanto, sono da sempre nella sostanza (cioè nell’atto) in modo inseparabile, mai fuori. L’atto (che è la sostanza) precede la potenza (che è le parti della sostanza). Tutto questo discorso (quello che riguarda il rapporto tra “parti” e “tutto”) Aristotele lo sintetizza dicendo che la sostanza è tò tí ên eínai, letteralmente: “ciò che l’essere era”, dove l’imperfetto era indica quella continuità dell’essere che si oppone al divenire (questo essere è “ciò che era”)26. E qui apriamo una parentesi. Dato che ciò che “è” (vale a dire l’essere, la sostanza) si oppone al divenire, perché è sempre “ciò che era” (questo albero finché è albero è “albero”; se diviene legno per un tavolo, non è più “albero”) dobbiamo concludere che se un certo essere diviene non può essere sostanza? Certamente non può essere ancora quella sostanza o realtà che era prima; è un altro e diverso individuo che non conserva alcuna continuità con il precedente. Perciò, se il cosiddetto “Preesistente” (Gesù-Dio) che alcuni “leggono” in Fil. 2,5-11 diviene uomo, allora cessa di essere Dio. Ovviamente, Dio non è un particolare essere, non è un individuo, semmai si potrebbe ammettere che è l’essere per eccellenza o meglio ancora un “non-essere fuori dell’essere” (il Nulla), certamente infinito, eterno e indivisibile. E allora a maggior ragione non può divenire, perché divenendo diverrebbe “altro”, “particolare”: individuo. Dio “crea” (non genera, non diviene, non emana); e crea senza essere, né in parte né totalmente, ciò che crea; è fuori del Creato (creazione ex nihilo). D’altra parte, poiché Dio non può cessare di essere Dio, si deve concludere che non può neppure “divenire” uomo. Dio non può cambiare, né “incarnarsi” propriamente nelle cose immanenti che lui ha creato. Dice san Giacomo che presso il Padre (in Dio) «non c’è variazione né ombra di mutamento» (1,17).
7. L’unità è la “sostanza”, ovviamente (o meglio: tautologicamente) “composta”.
Dunque, la sostanza è il composto indivisibile di essenza (o forma) e materia (o differenza); e questo si dice “unità” o semplicemente “forma” (ma “forma” tautologicamente reale), che Aristotele chiama pure “sinolo” (sýnolon); che significa: un composto di parti inseparabili27; letteralmente “tutt’uno”, vale a dire “un tutto che è uno”. Ora, secondo lo stesso Aristotele, «Tutto si chiama... ciò che contiene le cose in maniera tale che esse costituiscano una unità... quando vi sia una unità costituita da una molteplicità di parti..»28. E perciò dice pure: «Parti sono anche quelle in cui il tutto... si compone»29. Il fatto che la sostanza (il tutto che è uno) sia indivisibile nelle sue parti, implica che sia un composto di “parti”, perché il tutto è costituito da parti, in questo caso da parti indistinte o sostanziali. Se non fosse un composto che senso avrebbe dire che è indivisibile? E perché chiamarla “sinolo”? Ancora secoli dopo Aristotele, Christian Wolff sosteneva nella sua Ontologia che l’unità è l’inseparabilità di quelle cose per mezzo delle quali un ente è determinato e che la determinazione è la “forma” dell’ente30. Per riprendere la metafora di Aristotele, una statua di bronzo è “unità” perché le sue “parti” sostanziali non si possono dividere, non si possono separare le une dalle altre come, nella metafora, la forma (la forma di quella statua) non può separarsi dal bronzo (dalla materia); dunque la “sostanza-statua” è composta. Infatti, dice il filosofo: «Tutto ciò che è indivisibile e appunto in quanto indivisibile, viene detto unità»31; e abbiamo visto più sopra che l’unità è un composto. Ma l’attributo “indivisibile” esclude necessariamente che una sostanza possa essere semplice (non composta)? No, non lo esclude. Ma il fatto che tutti insistano, a cominciare da Aristotele, sull’indivisibilità della sostanza, o sull’indivisibilità del sinolo, la dice molto lunga su questo punto. Al contrario, perché definire “indivisibile” un semplice, che piuttosto e ovviamente sarebbe proprio uno? Oppure bisogna ammettere che Aristotele usa l’aggettivo “indivisibile” solo per le sostanze cosiddette composte? Secondo noi, non ci sono sostanze semplici, perché la causa della sostanza (per noi della sostanza tout court) cioè dell’essere, è definita “sinolo” (tutt’uno), e poiché la causa non può che essere una (non ci possono essere due cause per un solo effetto) dobbiamo concludere che tutte le sostanze sono composte, perché l’essere è uno ed immanente, non trascende le cose che sono. Se la causa dell’essere è il “composto”, non ci possono essere sostanze semplici. Filone d’Alessandria dice che Dio è uno perché è semplice, la sua natura non è composta, mentre noi uomini e tutte le creature siamo molteplici perché siamo composti32. Cosicché se ci fossero delle sostanze semplici non potrebbero essere molteplici, sarebbero una sola (come uno solo è Dio, proprio perché è semplice: l’unico Semplice fuori di ogni composto); in tal caso questa ipotetica sostanza semplice (e sola) coinciderebbe con Dio stesso: ci sarebbe soltanto Dio; il Mondo non esisterebbe.
8. Ci sono sostanze “semplici”?
Tutto questo equivale ad ammettere che non ci sono sostanze semplici. Certo non è esattamente questo che Aristotele sostiene, ma noi si. Il filosofo ammette l’esistenza di sostanze semplici, ma timidamente, non decisamente, e comunque con argomenti che non sono affatto convincenti e spesso contraddittori. Anzi, quando ne parla, non è proprio chiaro se intende parlare di sostanze semplici. Le chiama, ora “sostanze prime” (ma chiama sostanze “prime” anche quelle composte), ora sostanze “soprasensibili”, e a volte “intelligibili” o “non-sensibili”, a seconda del contesto nel quale ne parla, ma appunto non si può essere sicuri che si riferisse proprio a sostanze semplici: ad un certo punto dice che «il senso primario e fondamentale di necessario è il semplice»33. Sembra che volesse dire che il semplice è sostanza per eccellenza (?), quindi “sostanza semplice”, perché altrove afferma che “necessaria” è proprio l’essenza determinata, vale a dire la sostanza; perciò, nell’affermazione precedente, è come se avesse detto che nulla è più sostanza della “sostanza semplice”, se quest’ultimo è il necessario primario e fondamentale. Però dice pure che nessuna sostanza è più o meno34 sostanza di un’altra. E là dove parla delle sostanze soprasensibili, dice testualmente che è necessario che «siano scevre di materia, perché devono essere eterne, se mai esiste qualcosa di eterno»35. Dunque sarebbero semplici (scevre di materia) ma ha qualche dubbio che possano essere eterne. Ora, se esistono dei semplici reali e a parte dalle sostanze composte, non sarebbero sottoposte al divenire e alla corruzione (proprio perché “non-composte”) e dunque devono essere eterne, mentre Aristotele nel momento stesso in cui ammette che devono essere eterne aggiunge se mai esiste qualcosa di eterno. Ma allora, le sostanze soprasensibili sono semplici? Un po’ più avanti – dimenticandosi che nessuna sostanza è più o meno sostanza di un’altra – dice che «nell’ambito della sostanza, ha il primo posto la sostanza che è semplice»36. C’è, dunque, una gerarchia nell’ambito della sostanza? Ci sono sostanze semplici? E in che cosa si differenzierebbe una sostanza semplice da un’altra sostanza semplice se non hanno “materia”, vale a dire se non hanno “differenza”?! La verità è che qui Aristotele ha abbandonato la logica propria della filosofia che lo ha fin qui distinto – anche se con qualche contraddizione – per entrare nel campo della teologia e della fede; sì, della fede!
Ad un certo punto dice: «Se anche ora non sappiamo quali sostanze non sensibili esistano [semplici?], è tuttavia necessario [?!] che, almeno alcune, esistano»37. La prova? la prova logica, beninteso, qual è? Non c’è! Come i teologi, in generale, quando non hanno la prova di ciò che affermano ricorrono alla fede, così allo stesso modo anche Aristotele, quando non può appoggiarsi alla logica, ricorre a qualcosa di molto simile alla fede. Dice che bisogna credere all’esistenza di sostanze non-sensibili (sostanze semplici?) perché la loro esistenza è provata dal fatto che gli antichi vi credevano. Dice che anche se gli antichi hanno tramandato questa verità circondata da elementi mitologici, bisogna ammettere che almeno quelle divine (che chiama “sostanze prime”) esistono. Anzi, continua il filosofo, «l’affermazione (degli antichi) che le sostanze prime sono dèi, bisogna riconoscere che essa è stata fatta per divina ispirazione»38. Dunque Aristotele quando non è in grado di giustificare pienamente le sue affermazioni per mezzo della ragione, ricorre agli antichi e perfino all’ispirazione divina, e perciò dobbiamo dedurre che egli stesso non è molto convinto delle “ragioni” che porta a sostegno dell’esistenza di sostanze non-composte; non ha comunque argomenti validi. Se Aristotele ha criticato Platone e negato gli archetipi, tutti gli archetipi, cioè in quanto tali (di certo quelli riferiti alle sostanze composte), come può nello stesso tempo ammettere sostanze cosiddette semplici (o comunque si vogliano chiamare)? Ammesso che possano esistere, prenderebbero il posto degli archetipi dei platonici. Forse Ralph Waldo Emerson allude a questo quando scrive: «Aristotele e Platone sono riconosciuti come rispettivi capi di due scuole. Ma il saggio vedrà bene che Aristotele platoneggia»39. Secondo noi, possiamo ammettere – nell’ambito di un sistema aristotelico – l’esistenza di “reali” che siano sostenze “non-sensibili” a patto che si ammetta che siano composte e tuttavia imperiture. Aristotele diceva che c’è materia sensibile e materia intelligibile; se così stanno le cose, forse la materia intelligibile potrebbe costituire la “differenza” delle sostanze non-sensibili e rendere possibile la loro molteplicità e la loro stessa esistenza40.
9. Non ci sono sostanze semplici.
Aristotele come teologo ci piace meno del filosofo. In quella parte della Metafisica che riguarda la filosofia, chiama l’essenza determinata con il termine “forma” (eîdos) e dice che la suddetta forma non può separarsi dalla materia. In altre parole dice che la sostanza è appunto l’unità di forma (essenza) e materia (differenza), e perciò – secondo noi – si deve dedurre ovviamente che la “forma” (la forma tout court, non soltanto la forma delle sostanze composte) è parte inseparabile della e dalla materia, è elemento essenziale dell’unità, esclusivo del composto, anzi è il composto stesso: l’essenza considerata in sé è “semplice” e tutti i semplici devono far parte di un composto, tranne Dio. Non ci possono essere da una parte alcuni “semplici” che facciano parte di un composto e dall’altra altri “semplici” che non facciano parte di un composto, cioè puri (soli). Il concetto espresso dal termine “semplice” è uno, e non può che essere uno: perciò anche il modo di essere semplice deve essere uno. Per quale ragione dovrebbero esistere due “modi” dell’essere semplice? Se ci fossero dei semplici fuori dei composti – se fosse possibile – sarebbero dèi perché non sarebbero sottoposti al divenire, alla corruzione, sarebbero eterni per natura. In conclusione, ammesso che ci siano sostanze non-sensibili, queste devono essere composte, cioè costituite dall’unità di “ciò che è uguale (o replicato)” e di “ciò che non è replicato (la differenza)”. In ogni caso (cioè sempre) la sostanza è l’unità di essenza e materia. Dobbiamo affermare, secondo ragione, che non ci possono essere sostanze semplici, cioè prive di “materia” perché tautologicamente il semplice esiste unicamente nel composto. Che non possono esistere sostanze semplici (prive di materia) lo si può dedurre anche dal fatto che perfino il neoplatonico Plotino ammette che la materia è delle Idee e non soltanto del mondo sensibile [per noi ammesso che esista veramente un mondo intelligibile trascendente fatto di “cose” reali in sé]; la materia sarebbe anche nel mondo intelligibile. Dice:«Se lassù c’è un mondo intelligibile e il mondo sensibile ne è un’imitazione, poiché questo è composto anche di materia, deve esserci della materia anche in quello»41. Per cui, quando i trinitari dicono che Dio è “sostanza”, dicono implicitamente che Dio è composto o che è in un composto, e questo potrebbe implicare il panteismo politeista. Se invece si può considerare che Dio sia l’unica sostanza semplice (perciò inconoscibile), allora è inutile parlare di sostanza, basta dire che Dio è Semplice (il Semplice in sé, l’unico Semplice in sé dato che tutti i semplici sono nei composti quindi conoscibili) evitando così la contraddizione in termini. Ma i trinitari preferiscono dire che è “sostanza”, perché questo termine prepara la strada all’altra affermazione trinitaria, che «Dio è Unità»; con il che dimostrano implicitamente (e senza intenzione) che la sostanza è “unità”, cioè un composto di “parti”, e che non ci sono sostanze semplici. Infatti, certamente “unità” implica “parti”, sia pur indistinte, e di nuovo la strada che porta al politeismo è aperta (si veda la seconda parte di questo saggio).
Nella storia della filosofia, dopo Aristotele, il concetto di sostanza si è modificato di poco o niente; oggi non suscita alcun interesse. La sostanza non implica nulla di realmente trascendente: la realtà è immanente e Dio è l’assolutamente Altro. Noi ne abbiamo parlato perché la dottrina trinitaria, come abbiamo detto all’inizio di questo capitolo, pretende, ancora oggi, di basarsi sul concetto di sostanza; afferma che Dio è Sostanza Spirituale. Abbiamo visto, però, che questa affermazione non può essere accettata nel senso che Dio sia “Unità”, ma tutt’al più nel senso che Dio è “il Semplice in sé”; Dio è l’unico semplice che non fa parte di un composto. E in quanto unico è Uno e Unico, cioè solo.
10. Un problema e una soluzione. Il primato dello Spirito si identifica con il primato della Materia.
Se gli individui non hanno nulla realmente in comune tra loro perché sono l’impartecipabile-impartecipato, il Mondo non si disperderebbe nella diversità degli individui separati che negherebbe il Tutto (il Mondo)?
Gli individui hanno in comune la materia, che “determinata” si presenta sotto la realtà di “differenza”. Diciamo “in comune” per dire che ogni individuo ha ed è “materia”, ma ognuno ha ed è la sua propria “materia”, in quanto quest’ultima è determinata dalla sua propria essenza (dell’individuo), e in quanto, a sua volta, essa materia determina quell’essenza. La materia determina ed è determinata. Quando è considerata indeterminata o indifferenziata, è potenza, perché può divenire ed essere “questo”, “quello”, “quell’altro”...; ora questo, ora quello, ora quell’altro... eccetera. Di fatto, cioè determinata, è sempre qualcosa, perché la potenza della materia ovviamente non è “cosa” esistente; se fosse “cosa” realmente esistente sarebbe atto e non potenza; la materia perciò è sempre e da sempre in atto e costituisce il Tutto, il Mondo.
1) Il primato dello Spirito è… Le essenze sono il diverso e molteplice autodeterminarsi della materia, ciò che sul piano astratto produce il passaggio della potenza all’atto creativo. Dunque, gli individui costituiscono la diversità e la molteplicità della materia, la quale materia accomuna tutti in un tutto, perché “mossa” dall’unico e solo Logos (o Spirito) che è la “mano” di Dio che opera governando ogni causa e ogni principio, determinando ora questo ora quello; è lo stesso operare dell’Immanente dall’immanenza. Il ruah, il vento della Bibbia è equivalente all’essenza di Aristotele. «Il spirito... la vita [il ruah], dice Bruno, si ritrova in tutte le cose e, secondo certi gradi, empie tutta la materia; viene certamente ad essere il vero atto e la vera forma de tutte le cose»42. Dio crea la materia dal nulla, cioè nell’eternità, non dal suo stesso “essere”; simultaneamente la sua “mano” la ordina, nel tempo, in un tutto razionale ma vario. Che “Dio crea dal nulla” non è una espressione che vale letteralmente, perché nulla può venire dal nulla (il nulla non è “cosa” e non è la fonte delle cose); ha un senso metaforico, per dire che allorquando Dio ha creato non c’era qualcosa da cui trarre gli esseri, non c’era neppure la materia cosiddetta informe, ammesso che possa esistere materia informe. Ma quando “non c’era qualcosa”? Dio c’è da sempre, dunque Lui c’era; ma le cose non sono state tratte da Dio (non sono state emanate), visto che furono create, cioè tratte dal nulla e non dall’essere divino; perciò evidentemente furono tratte quando non c’era qualcosa: sono state chiamate all’esistenza nell’eternità che non ha inizio, perché il “momento” in cui furono tratte dal nulla non è un determinato momento, non è un inizio nel tempo, ma eterno; questo significa “creazione ex nihilo”. Dunque: Dio c’è da sempre, è l’eternità stessa, perciò da sempre le cose sono create, o “sono”, visto che l’inizio è nell’eternità. Se l’inizio è nell’eternità, le cose stesse che iniziano sono nell’eternità dato che non c’è inizio senza le cose che iniziano, e dunque il Mondo (l’Universo visibile e invisibile) è eterno. Dio, nella sua più profonda natura, è Colui che crea e governa il Mondo; e poiché Dio è eterno (non ha né inizio né fine), eterno è il Mondo. Infatti, la natura di Dio è “creare”: non può esserci un momento in cui Dio non crei, perché Dio c’è sempre, da sempre. Il Mondo dipende da Dio; Dio non dipende dal Mondo; ma Dio esiste con il Mondo perché la sua natura (eterna) è “creare”: il suo “strumento” (lo Spirito) è sempre in azione, dall’eternità e per l’eternità. Lo Spirito è la “mano” di Dio, ovvero il “pensiero” di Dio. Dio pensa dall’eternità, opera eternamente, “soffia” sempre e da sempre, perciò l’oggetto del suo pensiero, che è il Mondo, è eterno. Dio pensa dall’eternità, ma non pensa senza l’oggetto del suo pensiero, senza il Mondo.
Abbiamo espresso dei concetti servendoci di metafore, il cui significato è inesprimibile in senso proprio, dato che di Dio nulla possiamo sapere in senso proprio e dunque neppure se pensa o se parla o se soffia, né tanto meno se lo fa in senso proprio e antropomorfico. La Bibbia accenna a questa metafora dicendo soltanto che i pensieri di Dio non sono i pensieri dell’uomo (Cfr. Isaia 55,8-9), e che «i cieli furono fatti dalla parola di Jhwh, e tutto il loro esercito dal soffio della sua bocca» (Sal. 33,6). D’altra parte, lo stesso Plotino dice che Dio non ha bisogno di pensare: «(L’Uno [Dio] non è) pensiero, altrimenti in Lui ci sarebbe alterità. E neppure è movimento, poiché Egli è prima del movimento e prima del pensiero. Infatti, a che cosa dovrebbe pensare? A se stesso? Ma allora, prima del pensiero, dovrebbe essere ignorante e dovrebbe ricorrere al pensiero per conoscersi, Egli che basta a se stesso! Perciò in Lui non ci sarà mai ignoranza, in quanto Egli non conosce né pensa se stesso: poiché l’ignoranza sussiste quando esiste un secondo essere e l’uno ignora l’altro. Ma Colui che è solo non conosce nulla, e nemmeno ha qualcosa da ignorare; invece essendo uno con se stesso, non ha bisogno di pensare se stesso»43. Il primo atto (o “pensiero”) di Dio, in ordine logico non temporale, è la creazione dello “strumento” che determina la diversità e quindi gli individui, è il modo di essere e di “muoversi” proprio della materia stessa (dell’unica realtà) che genera appunto la diversità; cosicché nessuna delle cose fatte (o “pensate”) da Dio è stata fatta senza lo strumento (Giov. 1,3) che è il Logos (o Spirito) immanente, il ruah, e quindi nessuna cosa è stata fatta senza la materia [primato della materia], dato che lo strumento è immanente, per natura, alla materia stessa e non in sé come altro dalla materia. La realtà è materia sotto varie forme. Anche il Mondo dunque è composto: è l’Unità di Materia e Spirito (o Logos). Non c’è realtà fuori del Composto. Lo Spirito, perciò, è il “produttore-immanente” della varietà nell’Unità del Mondo, cioè della realtà che è la Materia: è l’Essenza delle essenze, ma non essenza in sé, perché si identifica con la materia determinata, vale a dire con la materia tourt court; è l’autodeterminazione eterna del Mondo come varietà, la quale spiega l’affermazione che Dio simultaneamente crea e ordina essendo ad un tempo fuori del Mondo e nel Mondo (trascendente e immanente). Il suo “strumento ordinatore” o immagine (Logos, Spirito) è nel Mondo come “movimento creante” o Dýnamis; perciò Dio è nel Mondo e anche fuori del Mondo: nel Mondo come “Materia-Spirito”, fuori del Mondo come “Mente”. Filone d’Alessandria dice:
«L’ombra [o immagine] di Dio è il suo Logos, di cui Dio si serve come di uno strumento nella creazione del mondo... Se, infatti, Dio è il paradigma [il Modello] di quella immagine, che qui chiama “ombra”, <è pur vero che> questa medesima immagine diviene paradigma [modello] delle altre realtà, come anche la sacra Scrittura ha mostrato chiaramente all’inizio della Legge, dicendo: “E Dio fece l’uomo a immagine di Dio” . Come l’immagine è riportata a Dio, così l’uomo è rapportato all’immagine, che, dunque, assume il carattere di paradigma [di Modello]»44.
2) …il primato della Materia. In tutto il nostro discorso la materia ha dunque il primato. Ma questa è “mossa” dallo Spirito immanente che spiega la realtà e la varietà che è propria della realtà: materia e spirito (differenza e soffio) sono come due facce indiscernibili e inseparabili di una sola e medesima realtà. «Nel principio Iddio creò [trasse dal nulla] i cieli e la terra... e lo spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque» (Gn. 1,1-2). Lo Spirito per essere “spirito” deve “muovere” qualcosa (meglio ancora: deve muovere il “tutto”), deve “aleggiare”; e il qualcosa per essere ciò che è deve essere “mosso”, deve essere “aleggiato” dallo Spirito, talché non c’è materia senza spirito, né spirito senza materia, perché il “mosso” deve essere mosso da Colui che muove, e Colui che “muove” deve muovere ciò che si muove. Ma il movimento non ha una “direzione” predeterminata: lo spirito di Dio “soffia” dove vuole perché Dio è sovrano assoluto (“pensa” liberamente da onnipotente), al quale niente e nessuno può porre dei limiti, anzi il pensiero di Dio è la stessa cosa pensata. Niccolò Cusano dice che Dio parla per chiamare «all’essere quelli che non sono. [Tu, oh Dio] li chiami perché ti ascoltino e, quando ti ascoltano, essi sono. Quando parli, parli a tutti, e tutti quelli a cui parli ti ascoltano. Parli alla terra e la chiami ad essere natura umana; la terra ti ascolta e il suo ascoltarti significa divenire uomo. Parli al nulla come fosse qualcosa, e chiami il nulla ad essere qualcosa; il nulla ti ascolta e da nulla che era diviene qualcosa. O potenza infinita, il tuo concepire è un parlare. Concepisci il cielo, ed esso esiste così come lo concepisci. Concepisci la terra, ed essa esiste così come la concepisci. E mentre concepisci, vedi, parli, operi, e così via... parli una sola volta, concepisci una sola volta... [perché] nulla può avvenire posteriormente all’eternità semplicissima. Quella durata infinita, che è l’eternità, abbraccia ogni successione»45. Lo Spirito (la “dýnamis” di Dio) deve “soffiare” (o “chiamare”) perché soffiare è la sua natura; e così la natura della materia è di essere “soffiata”: perciò “soffiatore” e “soffiata” (Spirito e Materia) sono simultanei ed un’unica cosa, mai ciascuno in sé: la materia è variamente dýnamica e lo spirito è molteplicemente corporeo, e questo significa che quello “umano” è persona. Infatti, la Bibbia usa il termine “spirito” anche come sinonimo di “persona” (Cfr. 1 Giov. 4,1-3). Lo spirito non è mai separato dalla materia perché è la materia stessa; la materia non è mai separata dallo spirito perché è lo spirito stesso: materia e spirito costituiscono l’unità dell’operare o del manifestarsi di Dio, un solo operare: il Mondo, ovvero la teofania. In questo senso il Mondo è “Figlio” di Dio. Aristotele esprime un concetto simile là dove dice che «il divino circonda [o abbraccia] la natura tutta»46. Questo “divino” di Aristotele, per noi è il ruah biblico (lo Spirito, il vento di Dio) che Giordano Bruno nel suo De la Causa chiama “vestigio”. Nella Sacra Scrittura Elihu risponde a Giobbe e ai suoi amici dicendo: «Nell’uomo, quel che lo rende intelligente è lo spirito [i greci direbbero il logos], il soffio [il ruah] dell’Onnipotente... Lo spirito che è dentro di me mi stimola... Lo spirito di Dio mi ha creato, il soffio [il vento] dell’Onnipotente mi dà la vita» (Giobbe 32,8,18; 33,4). Il concetto (che biblicamente è quello dell’onnipresenza di Dio tramite il ruah) si potrebbe esprimere (con qualche precisazione) con le parole di Nicola Cusano: «La quiddità assoluta [per esempio] del sole non è diversa dalla quiddità assoluta [per esempio] della luna, perché è Dio stesso, che è l’entità e la quiddità assoluta di tutte le cose»47. Ancora il Bruno dice:«La mente, il spirito, l’anima, la vita che penetra tutto, è in tutto e move tutta la materia»48. Dio è l’Eterno eternamente Autore e reggitore del Mondo che lo manifesta, senza essere Mondo esso stesso (Cfr. Agostino, De civitate Dei X,31; XI,4-6); è Colui che lo “muove”. È il Creatore del Mondo per “natura”. Per cui l’Universo non esisterebbe senza Dio; e conseguentemente Dio esiste sempre e da sempre con l’Universo. Dio e l’Universo sono distinti, ma ciascuno dei due implica necessariamente l’altro, anche se l’Universo dipende da Dio, mentre Dio non dipende dall’Universo: il Creatore è Dio, l’Universo è il Creato. Sole e luce del Sole si implicano necessariamente, nessuno dei due esiste senza l’altro; ma il Sole non è grazie alla luce che esiste, mentre la luce esiste grazie al Sole.
Gli scienziati studiano il modo di “operare”, o di “muoversi”, del Mondo. Molto di ciò è stato già scoperto, e quando tutto sarà messo in luce (se mai si giungerà a comprendere tutto), la scienza avrà scoperto come Dio opera. Intanto la rivelazione biblica ci dice perché opera: Dio opera per amore. Potrebbe non operare per amore? È una domanda che equivale a chiedersi se Dio può non esistere o se può cessare di esistere; domande che non hanno significato: la natura di Dio è di operare (di creare) per amore, come la natura del Sole è di illuminare. Non siamo in grado di definire questo amore (l’amore divino); significherebbe definire Dio. Ora, la natura di Dio (che è Dio stesso) non può cessare neanche per un istante (l’amore divino è eterno); non ha avuto inizio né avrà fine (è eterna), cosi anche la Creazione è eterna. Una Causa eterna produce eternamente un Effetto eterno.
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La nostra interpretazione critica di Aristotele, riguardo alla “sostanza”, è senza dubbio sui generis o almeno contro corrente. Tuttavia abbiamo dedotto alcune “verità”, che qui sintetizziamo.
a) La dottrina della sostanza sfrondata da ogni contorno si può sintetizzare con l’affermazione secondo la quale questa cosa qui è «questa cosa qui». Vale a dire che la realtà è immanente ed è costituita da individui. Infatti:
b) La sostanza è un “composto indivisibile”: l’unità di essenza e materia.
b) Perciò l’unità (l’unità sostanziale) è un composto di “parti” inseparabili l’una dall’altra.
c) L’individuo, in quanto tale, si identifica con la sostanza, per cui nessun individuo (e quindi nessuna realtà in sé) può essere formato da più sostanze.
d) Non esistono sostanze semplici.
e) Il “semplice” esiste unicamente nei “composti” (nelle sostanze); i quali composti (o individui) non sono né un miscuglio né una somma di parti, bensì un tutto di “parti” inseparabili, talché nessuna di esse, considerata in sé, è quel composto (o individuo), perché quest’ultimo è una realtà nuova risultante dall’unità di quelle “parti”.
f) Gesù Cristo non può essere due “nature” o essenze (umana e divina in unità) perché in tal caso dovrebbe essere due sostanze, e questo è impossibile. In ogni caso – se fosse due nature in unità – non sarebbe né uomo né Dio.
g) Dio non è “Unità”, perché se fosse tale, sarebbe composto secondo la concezione propria del politeismo-panteista; Dio è il Semplice in sé fuori di ogni composto (l’Unico semplice fuori dei composti). In quanto tale, Dio è Unico e uno solo. Il Mondo è la creatura (o il “figlio”) di Dio, che egli stesso regge e governa tramite il ruah.

2. IL POLITEISMO TRINITARIO.
E` noto che i termini “unità” e “uno” in filosofia hanno un loro proprio significato che va al di là del comune linguaggio. Aristotele, facendo il paragone tra “uno” e “semplice”, dice che «l’uno e il semplice non sono la stessa cosa»49; quindi, passando alla terminologia matematica, chiama l’uno col termine “unità” e dice che «l’unità [l’uno] significa una misura, invece la semplicità significa il modo di essere della cosa»50. Noi abbiamo la pretesa di precisare ulteriormente questo significato dal nostro punto di vista, non solo per il termine “semplice” ma anche e soprattutto per quanto riguarda l’uno e l’unità. E ci basiamo anche sui presupposti che abbiamo stabilito a proposito della “sostanza”.
11. Due concetti opposti.
L’uno e l’unità possono esprimere due concetti opposti. Il primo potrebbe escludere la molteplicità, il secondo la implica certamente. Ma spesso si fondono in un solo significato per l’influsso della matematica. Infatti, in matematica l’uno non è indivisibile, perché è, per così dire, un composto o almeno un insieme; indica una quantità concreta che può essere divisa in parti, e dunque non è il semplice come giustamente dice Aristotele. Il numero 1 indica una quantità indefinita o definita. Per esempio una bacchetta di cioccolata, un asse di legno... (quantità indefinite), oppure un metro di stoffa, un grammo di sale, un litro di vino... (quantità definite). E queste quantità (indefinite o definite) si possono dividere (anche solo idealmente) in parti. Prescindendo dalla realtà specifica che il numero indica, se l’uno (meglio: la cosa che indica) si divide in 10 parti uguali, ciascuna di queste parti è un decimo (0,1) e tutte e 10 le parti assieme sono l’intero 1, che in questo caso prende il nome di “unità frazionaria”. Dunque, l’uno è divisibile perché è “unità”, è composto di parti uguali divisibili (separabili) all’infinito (0,1; 0,01; 0,001; 0,0001...). Pertanto l’uno non può indicare propriamente il Semplice, se non per il fatto che in se stesso è singolare; perciò tutt’al più lo indica in modo inadeguato e convenzionale.
Ma l’uno di cui vogliamo parlare non è il numero “uno”, né l’unità frazionaria, neppure in senso metaforico in quanto numero, ma un termine che la filosofia ha preso in prestito dalla matematica (anche se non si possono escludere punti di contatto tra l’uso matematico e quello filosofico). In filosofia l’unità non è formata da parti divisibili, bensì da parti indistinte e indiscernibili, è un composto nel senso proprio del termine filosofico, e corrisponde al concetto di “sostanza”. Mentre l’uno è il Semplice, è la natura della cosa, dunque in modo pressoché inverso al significato matematico. L’argomento è stato sviluppato soprattutto dai neoplatonici. Da questo momento scriveremo i due termini in questione con le iniziali maiuscole.
A questo punto il lettore si domanderà che cosa questo discorso ha a che fare con l’argomento di questo libro. È presto detto. Ci proponiamo di dimostrare che l’idea di Trinità è importata dalla filosofia neoplatonica panteista e politeista (che poggia su una concezione particolare dell’Uno) e che perciò non è propriamente di origine cristiana.
12. Si allude alla natura di Dio.
L’Uno e l’Unità, nel loro rapporto dialettico, secondo l’uso filosofico in generale, soprattutto di quello neoplatonico, alludono tutti e due alla natura di Dio, sia pur in modi diversi. In generale, l’Uno allude al monoteismo, mentre l’Unità allude al politeismo. Ma non sempre questa distinzione è valida, e vedremo perché.
Si hanno due concezioni. L’Uno è tautologicamente indivisibile, perché non ha (in sé) e non è né varietà né parti, neppure indistinte e indiscernibili: gode della “semplicità”, la sua natura si identifica con il Semplice; mentre l’Unità è indivisibile per l’inseparabilità logica delle sue parti indistinte e indiscernibili: è una sola cosa indivisibile, “un tutto”. Perciò l’Uno non è costituito da parti, mentre l’Unità è costituita da parti; quest’ultima ha una certa rassomiglianza con quella della matematica. L’Uno non ha nulla da separare (se non ha e non è parti, quali parti potrebbero separarsi?), e questo è il Semplice in sé: è il Nulla, nulla delle “cose”; e può definirsi soltanto per ciò che non è, mentre non può definirsi in alcun modo per ciò che è: è inconoscibile, non sottoposto al divenire, eterno. Invece l’Unità è indivisibile pena la sua frantumazione e distruzione. L’Uno può indicare bene Dio (il trascendente); mentre l’Unità può indicare altrettanto bene anche l’immanente (il Mondo). Pertanto l’Uno (Dio) è senza confronti. Dice la Bibbia: «A chi vorreste voi assomigliare Iddio? e con quale immagine lo rappresentereste?» (Isaia 40,18). Se Dio è senza confronti (cioè Uno per natura) non ce ne possono essere altri. Non ci possono essere altri Dii [dèi]. Se ce ne fossero altri, sarebbe possibile un confronto in linea di principio; ma in questo caso Dio non sarebbe Semplice, non sarebbe Uno per natura perché il confronto e la pluralità implicano una “differenza” e la differenza implica “parti” e le parti implicano che abbiamo a che fare con il “composto”; se al contrario i soggetti fossero semplici e uguali, si identificherebbero; non sarebbero plurali ma uno solo e non due (non due in uno, ma uno solo). Quindi non ci sarebbe affatto una pluralità di Dii, ma uno solo. Cosicché, se l’Uno è senza confronti, è anche unico e solo. Nel monoteismo Dio è solo; che è solo significa che è una sola essenza semplice e perciò una sola persona, dove l’aggettivo “sola” (“solo”) sta per unica (unico) ed esprime una tautologia. La Trinità di tre persone è esclusa.
Plotino dice51 che l’Uno è il Primo, e precisa che è necessario «che il Primo sia semplice, anteriore a tutte le cose e diverso da tutto ciò che è dopo di Lui... Se dopo il Primo ci dev’essere qualcosa d’altro, questo non sarà affatto semplice...» (En. V 4,1). Il cristianesimo può accettare molte affermazioni di Plotino, per esempio quella per la quale Dio è «al di là dell’essere» (En. V 5,6), vale a dire al di là delle cose, «al di là della sostanza» (En. VI 8,19); però ovviamente non può accettare il politeismo (En. II 9,9). E quest’ultimo è conseguenza “logica” della concezione plotiniana dell’Uno come Unità: una perfetta contraddizione. La citazione testuale che abbiamo appena fatto più sopra (l’Uno [il Dio] è anteriore a tutte le cose; è al di là dell’essere...) è adatta ad esprimere il monoteismo: Dio è l’unico Semplice (in sé), e tutto ciò che viene dopo di Lui «non sarà affatto semplice». Qui c’è concordanza con la nostra affermazione (v. cap. precedente) che non esistono sostanze semplici e che Dio è l’unico semplice in sé. Ma le parole “primo”, “dopo”, “sarà”, che Plotino adopera, implicano un procedere che va da Dio alle cose, mentre per il cristianesimo il Creatore trae le cose dal nulla, non “procede”, non emana dal suo essere, se di “essere” possiamo parlare a proposito di Dio.
13. Il primo della serie numerica.
Plotino parla di Dio come dell’Uno, quindi in senso metaforico. L’Uno è inteso come il Primo della serie numerica, dove la serie è il molteplice, mentre il Primo è al di là della serie pur essendo l’arkhê (il principio, l’inizio), perché lo considera (altra contraddizione) ingenerato, cioè un inizio in atto che non è iniziato. Dice: «È necessario... che prima della molteplicità [il Mondo] ci sia l’Uno, dal quale anche la molteplicità deriva: infatti in ogni serie numerica l’unità [l’uno] è prima... Colui dal quale [le cose] procedono... persiste nella sua semplicità, mentre ciò che procede da Lui è molteplice in se stesso e dipende da Lui» (En. V 3,12). In altre parole: il 385 – per esempio – esiste perché esiste il numero “1”. Il 385 infatti è 385 “uni” (ovvero 385 volte uno) senza essere “uno” esso stesso, perché l’uno rimane sempre uno e solo. Il 385 dipende dall’uno, mentre l’uno non dipende dal 385 (l’Uno «di nulla ha bisogno»: En. V 2,1): egli dà tutto senza avere e senza ricevere nulla. Questa concezione implica il “procedere” da Dio, cioè l’emanazione del Mondo, talché l’Uno è il Primo della serie senza essere la serie. Uno infatti (il numero uno) non è la serie, ma è l’Autore della serie.
La logica di Plotino non ci sembra molto coerente nella metafora della serie numerica. L’uno, inteso come il Primo, quanto alla sua “natura” (bisogna pur uscire dalla metafora dei numeri) è pur tuttavia un elemento della serie, perché la serie non è completa senza l’uno, mancando del primo termine. Il numero uno è certamente il primo della serie, ma il primo come parte, altrimenti non sarebbe della serie. Perciò l’Uno non può essere un elemento a sé, fuori di ogni classe, e neppure come se appartenesse ad una classe di un solo membro; la classe dell’uno è propriamente la serie numerica (ad essa appartiene, di essa è “parte”), la quale non può essere di altra natura rispetto al “primo” della stessa serie o classe. La metafora perciò rimarrebbe circoscritta al fatto che l’uno è singolare e può rappresentare il Dio, mentre i numeri che seguono (dal 2 in poi) sono plurali: ovviamente soltanto il primo è singolare. Così l’Uno (Dio) sarebbe uno di numero, mentre le cose che costituiscono il Mondo sono plurali. Ma il concetto dovrebbe andare oltre il problema “singolare-plurale”, “precedente-seguente”, per entrare in quello della natura di Dio, per descriverla, ovviamente per mezzo di metafore, ma più da vicino. Se si rimane nella metafora della serie numerica, si potrebbe concludere che Dio è la prima “cosa”, ma comunque cosa tra le cose.
Plotino ha presente questo problema, e cerca di uscire da quella metafora per prevenire le obiezioni dei suoi discepoli e dei suoi lettori. Dice: Tutto ciò che è determinato appartiene al molteplice, al diveniente. Quale cosa del diveniente assegnerai all’Uno? Egli «non è alcuna di esse, potrai dire soltanto che Egli è al di là di esse». Quel “al di là” esprime soltanto il “non questo”; mentre l’Uno è per natura infinito. «Il nome “Uno” non è altro che la negazione del molteplice [la negazione delle cose distinte]. Perciò anche i pitagorici, fra loro, lo chiamarono simbolicamente Apollo per significare la negazione della molteplicità [a-pollon]... Forse il nome “Uno” gli fu dato affinché l’indagatore, cominciando da ciò che significa la massima semplicità, finisse poi col negargli anche questo, pensando che esso, benché scelto felicemente dal suo inventore, non era degno di rivelare quella natura, poiché Colui non può essere compreso...» (En. V 5,6). Qui Plotino è quasi monoteista e, grosso modo, un cristiano potrebbe sottoscrivere, almeno in parte, ciò che dice. Ma andiamo avanti.
14. Il politeismo neoplatonico.
Plotino non si ferma al concetto di “Apollo”. Dice ancora: «Il Grande Re degli esseri intelligibili [l’Uno]... manifesta la sua grandezza attraverso la molteplicità degli dèi... ciascuno dei quali è nunzio dell’Uno agli uomini e con oracoli dice quello che a Lui è caro» (En. II 9,9). Qui si rivela in pieno il politeismo di Plotino, il quale però, prevedendo l’obiezione dei suoi lettori, si domanda come l’Uno, pur essendo al di là delle cose (pur non avendo in sé le cose) possa produrre le cose traendole da se stesso (dall’Uno), se non ce l’ha in se stesso. Insomma, se l’Uno non ha la molteplicità, come può dare la molteplicità? Ritornando alla metafora numerica, se il 25 non è nell’uno (se l’uno non ce l’ha) come l’uno lo può produrre? Niente e nessuno può dare ciò che non ha (En. V 3,15). Per comprendere la portata del problema di Plotino bisogna ricordare che la filosofia antica in generale, e quella panteista in particolare, non ammettevano la creazione dal niente, ex nihilo, che è filosofia cristiana. Da dove, perciò, l’Uno “prende”, per così dire, la “materia” della molteplicità, cioè le cose che produce, dal momento che l’Uno è prima della molteplicità espressa dalla “materia”? Ecco la risposta di Plotino (En. VI 5,9): dal fatto che la “natura” dell’Uno è “Unità”! L’Uno “è” le cose in quanto le “ha”; è tutte le cose (perciò noi diciamo che in questo modo è il contrario del Semplice!). Questo è il punto centrale del discorso. Ecco la risposta testuale di Plotino: L’Uno è principio (inizio, arkhê) di tutte le cose perché «le possedeva già. Ma così l’Uno [è sempre Plotino che parla] sarebbe molteplicità. Si, le possedeva già, ma non distinte» (En. V 3,15). E Plotino continua il discorso, in modo ambiguo, dicendo che le cose sono in atto, cioè di già, nell’Intelletto [che corrisponde al Logos], mentre sono indistinte nella potenza dell’Uno. Ecco la nascita dell’Unità di Dio di cui parlano i trinitari. Plotino parla dell’Uno ma in effetti intende Unità; dice che l’Uno è Unità. Ora l’Unità è pur sempre qualcosa che determina l’Uno (visto che l’Uno “è” Unità). Infatti, l’Unità plotiniana è tutte le cose (indistinte), quindi non è il Niente; è una sola cosa, diversa (altro) dalle cose distinte del molteplice. Per dirla in parole povere e approssimative, è una cosa tutta d’un pezzo (omogenea) e completamente diversa da ogni cosa del molteplice, distinta; ma è pur tuttavia determinazione, è la determinazione dell’Uno, è la sua natura in modo contraddittorio distinta dall’Uno. Si intende nell’Uno plotiniano e non nel Semplice. Infatti, il concetto plotiniano bene lo esprime il filosofo Emanuele Severino, quando dice: «L’Uno in sé [l’Uno di Plotino] non è una semplicità (=non molteplicità) vuota, ma piena... e quindi è Unità del molteplice (“in lui c’è tutto”; egli è “tutte le cose”)... In quanto unità, l’Uno è privo di qualsiasi molteplicità... perché tutto è originariamente in lui nella forma dell’unità suprema»52. Del resto, Plotino stesso esplicitamente dice che la natura (l’essenza) dell’Uno è l’Unità: «Se quest’Uno, di cui si può predicare l’unità come essenziale, è unità vera, è necessario che esso, in un certo modo, dimostri di contenere nella sua potenzialità la natura contraria alla sua, cioè la molteplicità; ma poiché esso non viene ad avere dal di fuori questa molteplicità ma solo per sé e da sé, esso è veramente uno e racchiude nella sua propria unità l’infinitezza e la molteplicità» (En. VI 5,9). Vale a dire: le cose non sono “aggiunte” all’Unità dell’Uno, sono l’Unità stessa, la quale è la natura di Dio; in Dio la Cosa è, per così dire, un solo pezzo. Per Plotino, l’Unità (che è nell’Uno) è atto eterno e infinito (?!); mentre la potenza dell’Uno è molteplicità. E così introduce la potenza nell’atto (?!). Allo stesso modo i trinitari introducono tre persone in Dio, giustificando il fatto che esse non sono “aggiunte” ma sarebbero l’unica natura (o essenza) divina, che non viene dal di fuori, è dentro, è l’Unità di Dio. Ma anche qui in definitiva si introduce la molteplicità nell’Uno (nel Semplice). Torneremo un po’ più avanti su questo concetto. Insomma, Plotino dice che l’Unità non è vera “unità” se non unisce qualcosa, se non ha in sé (in modo indistinto) le cose che fuori di sé sono distinte, cioè molteplici. Cosicché, in Dio oltre alla sua più profonda natura (che è inconoscibile) ci sarebbe in potenza la natura opposta: il Semplice conterrebbe in sé il composto! È un concetto contradditorio, evidentemente molto simile a quello della Trinità. L’Unità plotiniana è divisibile. Infatti, si divide producendo il molteplice, ma non si esaurisce per la sua infinita potenza. Ora, secondo noi, anche la Trinità si divide, nel senso che ciascuna delle tre Persone si separa dall’Unità divina, per estrinsecarsi come molteplice: Dio Creatore (o Padre), Dio Figlio (incarnato in Gesù Cristo), Dio Spirito Santo (Amore). Se le tre Persone rimanessero intra, se in qualche modo, come dicono i trinitari, fossero distinte e inseparabili e non “modalità” dell’unico essere divino, allora non potrebbero avere alcun rapporto reale e distinto (cioè come persone tre) con il mondo. Invece, secondo i trinitari, le tre Persone opererebbero nell’immanente (o no?). Dunque è evidente che in quanto operatori immanenti e distinti sarebbero molteplici, cioè fuori dell’Unità divina (politeismo). Di fatto le cose stanno pressappoco così, anche se i trinitari presentano la loro dottrina in altro modo (torneremo sull’argomento).
15. Filosofia neoplatonica e dottrina trinitaria.
Per Plotino, le cose “unite”, che formano l’Unità, sono l’Uno stesso, «perché – dice il filosofo – esso non viene ad avere dal di fuori questa molteplicità»; non è aggiunta alla natura di Dio, e se non è accidentale, i trinitari direbbero che è sostanziale, è la natura di Dio; per cui Dio più che Uno per natura è uno di numero e Unità per natura (una “unità”), e pur tuttavia non è «qualcosa di unitario» ma è (contraddizione delle contraddizioni) l’unità in sé (En. V,3,12): «è» ma «non è» (En. V,5,9); «è tutte le cose e non è nessuna di esse [distinte]» (En.V,2,1): la parentela con la dottrina trinitaria aumenta. Ritroviamo, infatti, un impianto molto simile (non uguale dunque) nella dottrina trinitaria. Il Catechismo già citato, ripete “contraddizioni” della stessa portata di quelle plotiniane, secondo le quali Dio (il Semplice) conterrebbe in sé «la natura contraria alla sua, cioè la molteplicità». Infatti, citando le disposizioni di vari Concili, il Catechismo dice: «Il Padre è tutto ciò che è il Figlio, il Figlio tutto ciò che è il Padre, lo Spirito Santo tutto ciò che è il Padre e il Figlio, cioè un unico Dio quanto alla natura» [ma in Dio c’è qualcos’altro oltre alla sua propria natura? Se è semplice è soltanto essenza, è soltanto “natura”, è soltanto la sua propria natura che è il “Non-composto”, inconoscibile!]. Quindi prosegue, poco più sotto, affermando cose che sono in parte ovvie, se si tiene conto delle premesse, e in parte opposte alle precedenti: «Il Figlio non è il Padre, il Padre non è il Figlio, e lo Spirito Santo non è il Padre o il Figlio». E spiega testualmente: «La distinzione reale [il nero è nostro] delle Persone divine tra loro, poiché non divide l’unità divina [ma la preposizione “tra” non implica almeno due realtà distinte, cioè due sostanze?], risiede esclusivamente nelle relazioni che le mettono in riferimento le une alle altre»53. Ora, Cartesio ci insegna che la “distinzione reale” si riferisce a due o più sostanze54, mentre Dio è una sola sostanza (ammesso che sia sostanza). Inoltre, poiché – come dicono gli stessi trinitari – in Dio è tutto [?!] reale, si deve arguire che reali sono le distinzioni in se stesse e reali e distinte sono “le une” e “le altre” (cioè le Persone). Ma ogni distinzione reale è una sostanza; ci sono, dunque, più sostanze in Dio?! O meglio: Dio è (per assurdo) l’unità di più sostanze? E queste “sostanze-persone” sono uguali tra loro o diverse? Se sono uguali, allora sono una (sola) Persona e non tre; se sono diverse, e tuttavia sono Dio tutte e tre, allora ci sono tre dèi. Il linguaggio paradossale dei trinitari (che in ultima istanza è inaccettabile nelle inevitabili implicazioni) prende vita dalla premessa nella quale si afferma che Dio (l’Uno, il Semplice) è Unità. Come nell’Uno di Plotino la natura è Unità (cioè il Composto), così per la dottrina trinitaria la natura di Dio è ugualmente Unità (unità di tre Persone). Sia Plotino che i trinitari, di fatto sostengono che il Semplice è Composto! E ciò è il massimo della contraddizione.
Giuseppe Faggin, nella sua Introduzione alle Enneadi plotiniane edito da Rusconi, dice che non vi sono affinità della dottrina di Plotino con quella cristiana. Ma dice pure che «i primi Padri della chiesa non tardarono ad attingere dalle Enneadi i motivi essenziali della Trascendenza e la natura spirituale dell’anima, e persino i fondamenti speculativi del Logos eterno»; e che le tre ipostasi (l’Uno, l’Intelletto e l’Anima) «costituiscono la trinità plotiniana»55. E tutto questo non costituirebbe una affinità con la dottrina “cristiana” della Trinità? (Oppure bisogna ammettere che la dottrina trinitaria non può considerarsi propriamente cristiana?). Il concetto di Unità come natura di Dio, sul quale poggia quello di Trinità, è un concetto proprio della filosofia panteista e politeista e fa a pugni col monoteismo per il quale l’Uno (Dio) non è Unità, bensì il Semplice in sé, che trae le cose dal nulla (creazione ex nihilo). D’altra parte, è sufficiente fare un raffronto tra la descrizione delle ipostasi fatta da Plotino, con la descrizione delle Persone della Trinità fatta dai trinitari, per rendersi conto della loro stretta parentela. Vediamole:
A) Plotino dice (sintetizziamo al massimo) che l’Uno pensa; ma questo pensiero dell’Uno che pensa è fuori dell’Uno («l’Uno non ha bisogno di pensare se stesso»: En. VI 9,6) perché è “generato” dall’Uno per emanazione (appunto “fuori”); il pensiero contemplando Colui che lo ha generato (cioè l’Uno) diventa Intelletto (ed ecco già il molteplice “distinto”). L’Intelletto (o Intelligenza) genera l’Anima [del Mondo], la quale pensa a tre: a Colui che l’ha generato, a se stessa e al Mondo che nella processione viene dopo l’Intelletto. Ed è così che l’Intelletto (ovvero Intelligenza o Logos), pensando al Mondo, lo governa (Cfr. En. V,4,2; IV,8,3: 21-29). Insomma, l’Uno concepito come “unità” è una contraddizione in termini, perché il semplice non può essere composto, il semplice è il non-composto. Plotino per giustificare questa contraddizione enuncia altre contraddizioni, come l’atto che è potenza, o la potenza che è atto.
B) I trinitari dicono (testualmente)56: Dio, Sommo e Purissimo Spirito intelligente, conosce eternamente se stesso [Plotino direbbe: “pensa”]: ecco la persona del Padre [Plotino lo chiama Genitore, ma anche Padre: En. V 2,1; II 9,2]. Nel suo conoscersi [Plotino direbbe: “pensandosi”] Dio Padre genera in sé [Plotino direbbe: “emana fuori”], eternamente, una sua immagine [e qui sia Plotino che i trinitari potrebbero dire “Logos” o “Intelletto”] sostanziale sussistente da cui è riconosciuto pienamente [Plotino direbbe: “pensato”]: ecco la persona del Figlio. Padre e Figlio [Plotino direbbe: “Genitore e Intelligenza o Logos] nel loro eterno conoscimento reciproco [Plotino direbbe: “nel pensarsi reciprocamente”] eternamente si amano [“profumano”, direbbe Plotino, come metafora dell’emanazione], e questo amore sostanziale sussistente che spira [“che procede” direbbe Plotino] da entrambi costituisce la persona dello Spirito Santo [Plotino direbbe “costituisce o genera l’Anima”]. Anche qui c’è la contraddizione per la quale si vuole introdurre la molteplicità nell’Uno.
16. Il concetto trinitario e il politeismo neoplatonico sono paralleli.
È evidente che le due concezioni non sono del tutto uguali. Ma è altrettanto evidente che ci sono alcuni punti quasi uguali, altri simili, e che nel complesso l’idea è la stessa: un Dio, tre ipostasi o persone. Inoltre quello che colpisce maggiormente è l’impianto, o meglio ancora il ritmo del procedere “logico”. Sicuramente l’idea di Trinità e il neoplatonismo di Plotino attingono ad una comune fonte. Per il Cristianesimo, tutto questo è accaduto come conseguenza di un equivoco che identifica “Figlio di Dio” con “Dio”: “Figlio di Dio” non vuol dire “Dio”, vuol dire semplicemente “Messia”! Il parallelo antropomorfico per il quale un figlio di uomo è “uomo” (e quindi un figlio di dio è “dio”) non è valido. Gli ebrei parlavano e scrivevano del “Figlio di Dio”, ma non dissero e non credevano che fosse Dio, e così pure i primi cristiani57. Non appena il cristianesimo fu corrotto dalla filosofia greca, si determinò l’equivoco e si presentò di conseguenza il problema trinitario.
La fortissima rassomiglianza tra dottrina neoplatonica e cristianesimo trinitario balza evidente dagli scritti di Meister Eckhart (Johannes Eckhart, domenicano). Certamente, com’è noto, il famoso predicatore tedesco non era un trinitario alla maniera ortodossa, e forse per questo in lui si sente maggiormente il clima originario del cristianesimo, anche se platonico o neoplatonico; insomma, per così dire non era un trinitario dell’ultima ora, appiattito sulle posizioni di Tommaso d’Aquino. Forse per questo – nonostante tutto e in certi aspetti della sua predicazione che ci è nota – lo sentiamo più vicino alle nostre posizioni. Era comunque un trinitario. Ebbene, Eckhart in certi punti delle sue prediche è la copia di Plotino. Dice: «L’Uno è Uno più veramente di ciò che è unito. A ciò che è Uno, è tolta ogni altra cosa... E se [Dio] non è né bontà, né essere, né verità, né Uno, che cosa è dunque? È il nulla, né questo né quello. Se tu pensi ancora che è qualcosa, non è quello...»58. E in un altro luogo dice il contrario: «Dio ha tutte le cose in se stesso in pienezza... niente è al di fuori di Dio. Tutte le creature sono in Dio e sono la sua propria divinità... Dio solo ha l’unità. L’unità è il modo di essere proprio di Dio»59. In tutta l’opera di Eckhart il linguaggio, i concetti e il clima mistico espressi da Plotino, sono evidentissimi, anche se il domenicano li ha rivisti e trasfigurati in quella chiave cristiana propria della sua predicazione che ci affascina. E questo, a oltre dieci secoli di distanza di Eckhart da Plotino, mostra comunque – e come se ce ne fosse bisogno – la forte influenza che la filosofia neoplatonica ebbe sul cristianesimo. Soprattutto su questa filosofia è basato il concetto della “Trinità nell’Unità di Dio”. Ora, né questa filosofia neoplatonica, né quella di Tommaso d’Aquino, né il concetto di Trinità comunque espresso, hanno alcun appoggio nella Sacra Scrittura.
1) Il Molteplice nell’Uno? Dunque, Plotino dice che l’Uno (l’Uno semplice) deve «contenere nella sua potenzialità la natura contraria alla sua, cioè la molteplicità». E perciò l’Uno è Unità. L’Uno (il Semplice), in quanto Uno, la contiene in potenza perché contiene (o meglio “é”) l’Unità in atto, che è il Molteplice indistinto. Pertanto, secondo Plotino, l’Unità (o Composto) è la natura dell’Uno. Per questo il filosofo si chiede (e ci chiediamo anche noi) come possa essere possibile che la natura del Semplice sia la molteplicità, senza che ci sia contraddizione; in altre parole come sia possibile che in Dio ci sia una “potenzialità reale”, dato che se in Dio c’è qualcosa, questo qualcosa deve essere appunto reale. Se la potenzialità è la realtà dell’Uno ed è molteplicità (molteplicità reale!) è contraria alla sua stessa natura (dell’Uno) che è di essere semplice. La contraddizione è, appunto, già contenuta nel fatto che in Dio ci sia una potenzialità; da un punto di vista generale la potenza in quanto “potenza” non è reale; sarà reale nel momento in cui è atto. Ma poiché in Dio deve essere comunque reale, si evidenzia la contraddizione plotiniana secondo la quale in Dio ci sarebbe una “non-realtà” che è “realtà”, e che questa realtà è il molteplice. Questa contraddizione per il monoteismo vero e proprio è inammissibile; e però l’eliminazione della contraddizione (dichiarando che in Dio non c’è il molteplice neppure sotto forma dell’unità) significa che Dio, in quanto Semplice in sé, è inconoscibile: l’uomo può conoscere soltanto il molteplice, cioè le cose composte, mentre quelle semplici le può conoscere in quanto “parti” di quelle composte, e mai in sé, dato che ovviamente non esistono “semplici in sé”, tranne Dio il quale è fuori di ogni composto, cioè fuori di ogni individuo. Ma anche i trinitari si chiedono se tre persone in Dio non contraddicano la sua semplicità. La risposta di Tommaso d’Aquino è appunto la stessa risposta che secoli prima di lui aveva dato Plotino. Infatti, Plotino giustifica la “contraddizione” dicendo che l’Uno (il Semplice) non viene ad evere dal di fuori la molteplicità, perché è sua propria, ce l’ha per sé e da sé nell’Unità: la molteplicità nell’Uno (in Dio) è la natura di Dio che è una (Cfr. En. VI 5,9). E in sostanza è questo che dice Tommaso, riguardo alla Trinità. Dice (riassumiamo con nostre parole) che le relazioni delle persone divine, date in Dio dal riferimento di ciascuna alle altre, non vengono da “fuori” e sono reali perché in lui non c’è nulla di accidentale, e questo significa che sono la sua stessa natura semplice: le tre persone sono l’unica indivisibile natura di Dio60. Anche qui il molteplice costituisce come in Plotino la natura del Semplice, il quale (contraddizione!) è concepito come Unità. Nell’Uno plotiniano la realtà del molteplice sarebbe giustificata dal fatto che è dentro, che non viene da fuori, che è la stessa natura semplice [!?] dell’Uno; perché ciò che è dentro è quella natura semplice.
Così pure nella concezione tomista della Trinità, le relazioni in Dio (che rivelerebbero le persone) sono dentro, non vengono da fuori, sono la stessa natura semplice di Dio; sono reali perché la realtà in Dio è una sola (non c’è in lui nulla di accidentale), è quella che coincide con la stessa natura di Dio. Ciò che fuori di Dio (cioè nelle creature) è un essere accidentale, dice Tommaso (per esempio le relazioni), trasferito in Dio ne acquista uno sostanziale, perché tutto ciò che è in lui è la sua essenza61.
E questa è una contraddizione; ed è la stessa che troviamo nel politeismo di Plotino.
2) Problematica delle “relazioni”. Quanto a noi, riguardo alla “relazione”, diciamo chiaro e semplice ch’essa non è in sé reale. Allorché c’è una relazione, come quando per esempio si dice che “A è precedente a B”, certamente vorrà dire implicitamente che A e B esistono come due individui o come “parti” di due individui o anche di un solo individuo; ma – come giustamente fa osservare Bertrand Russell, proprio a proposito di questo stesso esempio – non per questo esiste un oggetto il cui nome è “precedente”.62 Dunque una relazione se non è reale in sé (e nessuna relazione lo è!) non può essere in Dio; ma se tuttavia fosse reale in sé e fosse altresì in Dio, ovvero se fosse in Dio e perciò stesso sarebbe reale, Dio sarebbe comunque composto perché la relazione indicherebbe almeno due individui (oppure “parti” di individuo) tra i quali “corre” la relazione data dal riferimento di ciascuna “persona” alle altre due, perciò ci sarebbero più dèi. Tutto ciò che è in Dio è “Dio”; e così tre persone realmente distinte63 (cioè tre individui) sarebbero tre dèi. I soggetti realmente distinti tra i quali “correrebbe” la relazione reale in sé dovrebbero essere anch’essi altrettante realtà in sé, cioè individuali, perché se non fossero realtà individuali non potrebbero essere tre persone, e se non fossero tre non ci sarebbe Trinità, e così è effettivamente. Il monoteismo esige che Dio sia Semplice di per sé (il semplice fuori di ogni composto); e questa semplicità (che è Dio stesso), proprio in quanto fuori di ogni composto, non viene da fuori (non è il fuori), mentre è incontrovertibile che il molteplice sia fuori di Dio, perché Dio sul piano logico è prima del molteplice e il molteplice in quanto molteplice è sua creazione: se il molteplice fosse Dio (sia pur dentro, costituendone l’unità) ci troveremmo comunque e certamente in pieno politeismo, per il quale la Divinità non è propriamente Creatore (ex nihilo) ma soltanto ordinatore della materia che emana: in un modo o in un altro Dio sarebbe il possessore delle cose che “emana” ovvero che “ordina”. Dunque, secondo il monoteismo, è la semplicità di Dio che non viene da fuori e non la molteplicità, perché la molteplicità proprio perché è contraria alla semplicità, è e rimane ovviamente fuori di Dio (è tratta dal nulla), non può essere e non è in lui; la molteplicità non è Dio intra e non è Dio fuori, è la sua espressione o “immagine” come altro da sé. La natura di Dio (la quale è Dio stesso) rifiuta in se stessa (per sua peculiarità) il molteplice, il molteplice in quanto tale; dunque rifiuta non soltanto questo o quel molteplice (cioè una parte, quella che è fuori di Dio), o questa o quell’altra determinazione del molteplice, ma il molteplice (o la molteplicità) tourt court, anche se è – come dicono i neoplatonici – sotto forma di “unità”. È dunque pretestuoso, capzioso e contraddittorio parlare di molteplicità conforme alla semplicità di Dio; chi afferma che la molteplicità è, o può essere, in Dio lo afferma arbitrariamente. E tre persone sono una molteplicità di persone a prescindere dalla definizione del concetto di “persona”: tre sono tre! Il discorso di Tommaso non è valido neppure come semplice ipotesi; è assolutamente arbitrario e inammissibile. Il concetto di Trinità è contro ragione.
3) Il capovolgimento della concezione tomista. Insomma, che la natura di Dio (cioè Dio stesso) è Semplice vuol dire che è “semplice” intra (la semplicità non gli viene da fuori, è Dio stesso); e se “intra” (intra, dentro!) è semplice non può contenere (cioè essere intra) la molteplicità. I concetti di “Uno-semplice” e di “molteplice”, riferiti a Dio, riguardano la sua natura, convenzionalmente il suo “intra”; e soltanto il primo caratterizza il monoteismo: Dio è semplice intra! Egli è altro dal mondo, dunque è, per così dire, tutto “intra” e questo “intra” è il Semplice in sé che rifiuta il composto sotto qualsiasi forma. Perciò non può essere composto, non può avere in sé (o essere) la natura a Lui opposta. Il molteplice in unità, infatti, implica il concetto di composto. L’unità è di per sé un composto. Per esempio, gli uomini sono molteplici perché sono composti (ciascuno è una “unità” nella quale l’essenza è replicata); e così pure tutti gli altri esseri. È un errore fondamentale affermare – come fa Tommaso – che la molteplicità (tre persone) può essere in Dio senza contraddire il concetto di “Uno-semplice” proprio del monoteismo, adducendo il motivo [!?] che le dette persone sarebbero intra (in Dio), cioè la stessa natura semplice e indivisibile di Dio. Tommaso afferma come vero (e assiomatico) ciò che invece necessita di dimostrazione. Quell’intra (quel “luogo”) è proprio la stessa semplicità di Dio, cioè Dio stesso. Il “luogo” di Dio (cioè Dio stesso) non può essere semplice e composto ad un tempo. In altre parole, non possiamo pretendere di fare entrare in Dio ciò che vogliamo e poi affermare che è comunque la semplicità divina per il fatto che è in Dio, cioè Dio stesso. In Dio, cioè “intra”, è soltanto la semplicità di Dio, vale a dire Dio stesso. In questo caso la parola “intra” deve identificarsi e si identifica con la parola “Semplice”. Vale a dire, ciò che è Uno-semplice è intra, ciò che non è Uno-semplice (ovvero che è molteplice, sotto qualsiasi forma) è fuori perché è composto. È contro ragione affermare i Molti (necessariamente composti!) nell’Uno-semplice. Se l’Uno è semplice (come effettivamente è) non può avere in sé i Molti composti. L’affermazione di Plotino (e dopo di lui quella di Tommaso), secondo la quale sarebbe possibile che l’Uno-semplice avesse in sé (o meglio: che fosse) la Molteplicità-composta, è contro ragione.
In conclusione, la logica esige il capovolgimento della dottrina tomista, riguardo alla Trinità, per adeguarla al monoteismo; perciò il discorso va riformulato in questo modo: Ciò che è accidentale è proprio delle creature e perciò non può essere riferito al Creatore, non può essere riferito a Dio neppure per analogia. In Dio non c’è nulla di accidentale, dato che Egli è la sua stessa essenza che è semplice e fuori di ogni composto. In Dio (dentro) non ci sono relazioni e non ci sono persone, perché sia le une che le altre si opporrebbero alla semplicità di Dio, la quale è l’intra di Dio stesso. Per questo, Dio nella sua più profonda natura è inconoscibile e perciò incomprensibile; Cristo ce lo ha rivelato come Padre.
“Rivelare”, “rivelato”, significa velato di nuovo (ri-velare), esprimere qualcosa con una nuova metafora più adeguata. Oppure significa: “togliere il velo” (svelare): ritornare alla condizione primitiva. Nell’uno e nell’altro caso significa avvicinarsi maggiormente alla realtà, ma (soprattutto per il nostro argomento) sempre mediante metafore, mediante un “velo”. Il “velo” adoperato da Cristo è il più esplicito: Dio è Padre; è “padre” per natura, e poiché la natura è una, non può essere “figlio”: la “natura figlio” non è la “natura padre”. C’è un solo Dio: Padre. Per questo nella Bibbia il Figlio e lo Spirito non sono mai chiamati o definiti “Dio”. Lo ribadiamo: la natura “padre” non è la natura “figlio”. Il Figlio Gesù di Nazareth è l’Unto, il Messia, l’Adottato.
4) La dottrina trinitaria è contro ragione. Quando Tommaso afferma che tutto in Dio deve essere reale, ammette con ciò, implicitamente, che Dio è quel “tutto”; e allora Dio sarebbe veramente “sostanza” (un composto di parti: “unità”), e dovremmo ammettere il politeismo. Un “tutto” è un composto di parti (sia pur indistinte), non può essere semplice, non può essere Uno-Uno. Su questo concetto riportiamo qui di seguito un brano del Parmenide di Platone.

«Ebbene – disse Parmenide –, se l’Uno è Uno, non è vero che per nessuna ragione potrà essere molti?
Infatti, come potrebbe?
Allora, è necessario che non si abbia una parte dell’Uno e che esso stesso non sia un tutto.
Perché?
La parte è parte di un tutto.
Si.
Che cos’è un tutto? Non è forse quello a cui non manca alcuna parte?
Senz’altro.
Quindi, in ambedue i casi, che sia un tutto o che abbia parti, l’Uno sarebbe composto di parti.
Necessariamente.
Pertanto, sia in un caso che nell’altro, l’Uno sarebbe molti, ma non Uno.
Vero.
Occorre invece che sia non molti, ma Uno.
È necessario.
Non sarà quindi un tutto e non avrà parti l’Uno, se è Uno.
Certo che no»64.

Si dirà che questa concezione dell’Uno lo farebbe vuoto e improduttivo. Allora rispondiamo ribadendo che l’uomo non può concepire la natura di Dio perché l’uomo è “Molti-uno” (un soggetto la cui essenza è replicata), e il “Molti-uno” non può concepire l’Uno-Uno, che è l’unico Semplice in sé, cioè quella “natura” (non replicata e non replicabile) che di per sé non si lascia comprendere dall’uomo, perché è Assolutamente Altro rispetto al Mondo. Dio non è produttivo, è Creatore: trae le cose dal nulla,cioè dall’eternità: Dio e il Mondo (che è Altro da Dio) sono eterni in quanto simultanei, come la luce del Sole è simultanea al Sole e tuttavia dipende dal Sole (esso la “crea”), mentre il Sole non dipende dalla luce che emana; in questa metafora (che esprime ciò che è ai limiti della comprensione umana) il Sole è il creatore, la luce è creatura; il Sole precede la luce che emana sul piano logico, mentre su quello temporale sono simultanei, talché nessuno dei due precede l’altro temporalmente. Perciò Jaspers dice: «non è possibile passare col ragionamento dal mondo nel suo insieme a qualche cosa che pretenda essere di natura diversa dal mondo»65.
La nostra concezione dell’Uno è improduttiva? Forse! Ma quella dei trinitari è politeista. La Bibbia dice che Dio è inconoscibile (Isaia 40,18), perché non può essere paragonato a nessuna cosa mondana e a nessun concetto antropomorfico. Che è inconoscibile non vuol dire che soltanto per i limiti della mente umana imperfetta non conosciamo “come potrebbe essere possibile” che Dio sia trino (e che tuttavia la Trinità esisterebbe comunque); vuol dire invece che non possiamo conoscere la natura di Dio per la nostra peculiare natura e non per la sua imperfezione, perché non c’è alcuna affinità di “natura” (o essenza) tra il Creatore e le creature, anche se quest’ultime fossero perfette: l’Immagine di Dio, di cui in Genesi 1.26-27, non è la natura divina; al contrario, è la natura dell’uomo edenico, dell’uomo dunque, non di Dio. Con la ragione (intesa come facoltà propria dell’uomo) non possiamo affermare alcunché di Dio, e dunque neppure che sia trino. Ciò che di Dio conosciamo, lo conosciamo per sua rivelazione ai profeti e tramite essi nella Scrittura. E la Bibbia implicitamente nega il concetto trinitario. Perché allora dovremmo ammettere, senza alcuna ragione, che Dio è trino? Se il concetto di Trinità si oppone al concetto di “Semplice in sé” (come effettivamente si oppone), e non è affermato nella Bibbia (che la dottrina cristiana considera come rivelazione di Dio scritta) neppure implicitamente, allora conosciamo almeno questo: che la Trinità non è possibile. In questo modo non abbiamo espresso soltanto un concetto opposto a quello che ammette che la Trinità è possibile; abbiamo espresso invece un concetto più radicale, perché che la Trinità è possibile (secondo i trinitari) significa che può esistere come anche no (che il concetto non si opporrebbe alla ragione); mentre dire che è impossibile significa proprio che è contro ragione, e pertanto si deve dedurre che non esiste. Tutto questo vuol dire anche che per concepire la natura di Dio-produttivo, non si può forzare la ragione e affermare qualcosa che lo faccia essere Uno-Molti attraverso “ragionamenti” capziosi. Non si può affermare che Dio non è nulla delle “cose” e poi dire che è tutte le “cose”. Plotino, infatti, fa questo (e i trinitari con lui: vedi Eckhart); dice che è necessario che nell’Uno vi sia la natura a lui opposta, contraria alla sua (En. VI 5,9); e secondo noi, è opposta anche se è sotto forma dell’Unità Suprema. Per dimostrare che l’Unità Suprema è semplice non basta affermarlo! Tommaso dice che in Dio tutto deve essere reale, introducendo anche lui il composto nel semplice. È evidente che se la natura di Dio (cioè Dio stesso, dato che Dio è soltanto essenza) è una e semplice, non può essere “Tutto”, semmai “Nulla”, non può essere un composto. Certamente, detto da un punto di vista antropomorfico, Dio non può mancare di nulla, ma solo perché non ha bisogno di nulla; è infinito e perfetto, e tuttavia non è nessuna delle cose antropomorfiche e mondane, esse non costituiscono la perfezione di Dio, il quale di nulla ha bisogno; e questo concetto si esprime con una sola parola, “semplice”; anzi Dio è il Semplice in sé, rifiuta ogni cosa (ogni cosa!). In quanto tale, Dio è fuori del Tutto (che è il Mondo, visibile e invisibile), è al di là (come la mente dell’uomo è al di là dell’uomo, lo trascende); non nello spazio, ovviamente, ma come “natura”; perciò è inconoscibile. L’espressione tomista “in Dio”, contiene già gli errori che ne sono seguiti; essa, mediante la preposizione “in”, affrma che in Dio (nella sua “natura” inconoscibile) ci sia o ci debba essere o ci possa essere “qualcosa”.
Ancora una considerazione (a costo di ripeterci). Quando i trinitari, a proposito del Figlio, dicono che Dio “genera”, in altre parole dicono che produce, che fa essere, che fa esistere (non ci sono termini perfettamente appropriati); e che questo avviene non ad un dato momento, ma nell’eternità: Dio è eterno (non ha né inizio né fine); la generazione del Figlio (e perciò anche il Generato) sarebbe simultanea al Padre e dunque eterna; non ha né inizio né fine. Potrebbe significare che la “generazione” avviene in Dio, non fuori.
Sorvolando su questa contraddizione trinitaria per la quale si afferma che ciò che è “generato” non ha inizio (che è ingenerato), ci domandiamo: il Padre, “generando”, fa essere o no qualcosa distinta da se stesso? Il Figlio è distinto o no dal Padre? Ora, se la distinzione fosse reale ci sarebbero due Dii (due nature divine separate, due sostanze, tre con lo Spirito Santo); se invece non fosse reale, non potrebbe essere in Dio; e per questi motivi sarebbe giocoforza ammettere che il Figlio è il Padre stesso: cioè che non c’è distinzione. E se non c’è distinzione non ci sono il “Padre” e il “Figlio”, ma una sola persona divina. Se poi si dice – come dicono i trinitari – che la distinzione non è data da due (o tre) sostanze separate ma dal riferimento dell’una all’altra... chi sono quest’una e quest’altra? O meglio, quel è la loro “natura”, quella per la quale sono e per la quale ci sarebbe la distinzione? La distinzione dà le persone o le persone danno la distinzione? Il riferimento “produce” le persone e quindi la distinzione, oppure è viceversa? Se non sono due sostanze, non sono neppure “una” e “altra”, vale a dire non c’è distinzione e non ci sono due persone (o anche tre). Soltanto le persone (le sostanze tautologicamente separate, gli individui) possono dare la distinzione reale con il riferimento dell’una alle altre. Non c’è riferimento e distinzione se non ci sono almeno due persone distinte e separate che si riferiscono reciprocamente: la distinzione deriva dal riferimento reciproco delle persone, è conseguenza; mentre le persone, e implicitamente il loro stesso reciproco riferimento che ne segue, non possono essere conseguenza della distinzione e del riferimento in se stessi: la persona (la persona! e dunque la sostanza!), in questo caso, più precisamente, le persone sono la causa; il riferimento e la distinzione sono l’effetto. Se dunque il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, sono in quanto si evedenziano riferendosi ciascuno agli altri due, vuol dire che l’essere di ciascuno dei tre è distinto dall’essere degli altri due, perché non potrebbero riferirsi l’uno agli altri se l’essere di ciascuno dei tre non fosse realmente distinto da quello degli altri due, se cioè non fossimo in presenza di una pluralità di esseri, precisamente “tre”. Dire – come dicono i trinitari – che le distinzioni (in Dio) sono reali in sé (ma comunque in Dio) e che sono l’unica natura indivisibile di Dio, equivale a dire che le persone sono reali in sé, cioè realmente distinte, cioè tre sostanze tautologicamente separate (e composte): tre Dii; vale a dire che l’Indivisibile è Diviso; diviso in tre dèi. Affermare che nell’unica natura indivisibile di Dio vi sono tre distinzioni reali, significa affermare una contraddizione in termini. In altre parole più semplici ma ugualmente vere, se Dio è uno solo ed è la sua stessa essenza (il Semplice in sé) e diciamo che è Persona, allora dobbiamo dire anche che è una sola persona.
Alcuni anni fa il teologo John A. T. Robinson scriveva: «C’è chi non si senta un poco depresso quando viene la Domenica della Trinità? Per lo meno, credo che tale sia lo stato di coloro che devono predicare in questa solennità, e so che è lo stato di molti loro ascoltatori. “...Il Padre incomprensibile, il Figlio incomprensibile, lo Spirito Santo incomprensibile...” dice il Simbolo atanasiano. Un uomo comune non può pensare: incomprensibile tutta la faccenda. Per quale ragione al mondo i cristiani si devono trovare impigliati con questo abracadabra proprio nel cuore della loro fede?»66. In effetti è così, poiché i trinitari non possono dimostrare che la Trinità è possibile (e perciò non possono dire che è comprensibile) si appellano spesso al fatto che è incomprensibile, e tuttavia affermano che è una verità vera; mentre è incomprensibile per il semplice fatto che è impossibile; il concetto trinitario è contro ragione.
Tommaso, come Plotino, afferma che la molteplicità se è in Dio non è molteplicità composta, ma semplicità; sarebbe la stessa semplicità di Dio. Allora bisognerebbe dimostrare almeno che ciò è possibile: 1) che la molteplicità è in Dio; 2) che se è in Dio è semplicità e non molteplicità (ma se non è molteplicità non c’è molteplicità in Dio). Ma questo non può essere dimostrato come vero, né come possibile, perché è evidentissimo che non è né vero né possibile. Infatti, se la molteplicità è Uno-semplice, allora, al di là di ogni ragionamento capzioso, non è vero che è molteplicità; e se non è vero che è molteplicità, non è vero che ci possano essere tre persone. Aveva ragione Lutero quando diceva che «Tommaso è un gran chiacchierone, perché fu sedotto dalla metafisica. Ora, Dio ci ha tratti fuori da tutto questo miracolosamente...»67. E noi affermiamo che quel “tutto questo” a cui allude Lutero (cioè la dottrina di Tommaso; e noi aggiungiamo: dei trinitari in generale) poggia su un equivoco che, in parole semplici e sintetiche, identifica il “Figlio di Dio” con “Dio”. Mentre dall’Antico e dal Nuovo Testamento apprendiamo, senza ombra di dubbio, che l’espressione biblica “Figlio di Dio” vuol dire semplicemente Messia e non Dio68. Il Messia Gesù di Nazareth è la copia dell’Adamo edenico (Rom. 5,14), ma a differenza di Adamo ha raggiunto l’immortalità, è colui che siede alla destra di Dio69, il quale Dio si svelerà alla fine dei tempi, nel giorno della parusia di Cristo, quando la natura dell’uomo sarà conforme a quella del Messia nello stato di Signore. La dottrina trinitaria è dottrina di Plotino, grande filosofo, ma non è dottrina di Cristo. Il Messia Gesù ha rivelato Dio come Padre, non come Trinità. Dio è il Creatore Onnipotente ed Eterno: un solo Dio, e dunque una sola persona, non tre.
CONCLUSIONE.
La Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) ci parla di Dio come di una sola persona. Gesù di Nazareth è il Messia, il Salvatore atteso da secoli. La “natura” di Dio è di essere Padre, Creatore. Il quale ha scelto (adottato) Gesù Figlio di Giuseppe (Luca 3,23; Giov. 1,45; 6,42) come “Cristo” (Messia): Matteo 3.17 (e testi paralleli); Salmo 2,7.
Nella Bibbia non vi è traccia della Trinità. I pochi versetti (anzi pochissimi) che sembrano alludere alla divinità di Cristo (e quindi alla Trinità) non sono mai espliciti: a volte non sono autentici, a volte l’interpretazione dei teologi trinitari è forzata. In ogni caso, Cristo non è mai definito “Dio”. Per contro, molti testi biblici escludono per implicito la divinità di Cristo (cfr. il mio L’Ultimo Adamo, op. cit.). Vi è un solo versetto che, di primo acchito, potrebbe definirsi trinitario, ma quasi sicuramente non è autentico70.
Le parole dell’apostolo Paolo possono sintetizzare l’argomento che abbiamo trattato: «Sebbene vi siano [secondo i politeisti] dei cosiddetti dèi tanto in cielo che in terra, come infatti ci sono molti dèi [gli imperatori di questo mondo] e molti signori [padroni], nondimeno, per noi c’è un Dio solo, il Padre… e un solo Signore, Gesù Cristo…» (1 Cor. 8,5-6). Cfr. Matteo Manzella, L’Ultimo Adamo, Roma 2004, §§ 62-63.

NOTE
1. Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992, edizione stampata in Novara presso De Agostini, 1993, §§ 251, 252, 253 ss., pagine 80-81 ss.

2. Aristotele, Metafisica VII 16, 1040 b 25, traduz. Di Giovanni Reale, collana “Testi a fronte”, Rusconi Editore, Milano 1993, pag. 359.

3. Aristotele, Metafisica, si veda il Libro VII e soprattutto i capp. 6 e 13, op. citata, pagg. 287-365.

4. Aristotele, Metafisica VIII 1, 1042 a 20, op. citata, pag.369.

5. Thomas Hobbes, Leviatano, I,4, traduzione dall’inglese di Mario Vinciguerra, Laterza, Roma-Bari 1974 (due volumi), pag. 25.

6. Aristotele, Metafisica, VII 13, 1039 a 5, op. citata, pag. 349.

7. Aristotele, Metafisica, VII 4, 1030 a 25-30, op. cit., pag. 301; VII 6, 1031 a 15, op. cit., pag. 305; VII 6, 1031 b 20, op. citata, pag. 309.

8. Elémire Zolla, Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia, Marsilio Editori, Venezia 1991, CDE Milano 1996, pag. 375.

9. Aristotele, Metafisica, VII 13, 1038 b 10; VII 16, 1041 a 5, op. citata, pag.347 e 361.

10. Aristotele, Metafisica, VII 1, 1025 a 30; cfr. VII 6, 1032 a 5, op. cit., p. 289 e p. 309.

11. Aristotele, Fisica I, 187 a 5, traduzione di Luigi Ruggiu, Collana “Testi a fronte”, Rusconi Editore, Milano 1995, pag. 21.

12. Aristotele, Metafisica, VII 1, 1028 b 35, op. citata, pag.289.

13. Aristotele, Metafisica, VII 17, 1041 b 25; VIII 2, 1043 a 35, op. cit., p. 365 e p. 375.

14. Aristotele, Metafisica, V 1, 1013 a 15; VII 17, 1041 b 5, op. citata, p. 189 e p. 363.

15. Aristotele, Metafisica, I 1, 981 b 25; VII 8, 1033 b, op. citata, pag. 7 e pagg. 317-321; Fisica, II, 3 e 7, op. citata, pagg. 71 ss., 91 s.; Metafisica I 3, 983 a 25, op. citata, pag. 15.

16. Aristotele, Metafisica, VII 13, 1039 a 5, op. citata, pag. 349.

17. Abbiamo detto con Aristotele che tutti i “principi” sono cause e che la causa per eccellenza è la sostanza prima, in quanto essere auto-causato e causante. Il principio come causa che costituisce la realtà di un individuo (o semplicemente la realtà, o semplicemente l’individuo, che è dire la stessa cosa), cioè l’essenza determinata, è la sostanza, talché “sostanza” o “principio” (principio principiato) è equivalente a “individuo”, ciascuno dei quali (cioè ogni individuo) è un principio a sé. Ora, nessun individuo può essere costituito dall’unità di più sostanze prime perché in tal caso sarebbe costituito da più individui, il che sarebbe assurdo e impossibile. Ne viene di conseguenza che nessun principio può essere costituito da più principi, se “sostanza” (sostanza prima) e “principio” (principio principiato) sono equivalenti.
Di conseguenza, se Dio fosse sostanza, dovremmo concepire Dio come tutte le altre sostanze (alla pari); Aristotele dice che «nessuna sostanza è più o meno sostanza di un’altra» (v. Le Ctegorie, V, 2 b 25). In questo caso Dio sarebbe “individuo”, cosa tra le cose. E aggiungere – come fanno i trinitari – il termine “spirituale” al termine “sostanza” non cambierebbe il discorso.

18. Aristotele, Metafisica, VII 7, 1032 b 14, op. citata, pag. 312 (nel testo greco).

L’espressione tò tí ên eínai indica l’essenza necessaria, cioè la sostanza. Ora, una determinata essenza necessaria è una determinata sostanza, cioè un individuo, nel quale l’essenza necessaria (o semplicemente l’essenza) è una in atto (e perciò anche in potenza) perché è nell’atto. Infatti, la potenza non è reale in sé in quanto “potenza”; essa infatti è astratta dall’individuo, cioè dall’atto; noi sappiamo della potenza perché conosciamo l’atto: ciò che è “uomo” è costituito dall’essenza uomo e dalla materia, ma comunque da una sola essenza, così anche ogni individuo, di qualsiasi specie, è costituito da una sola essenza e dalla materia o differenza. Con l’espressione “una sola essenza” non intendiamo indicare tanto il numero di essenze di cui potrebbe essere o non potrebbe essere composto un individuo, quanto piuttosto la specie (e la specie, proprio la specie di quel soggetto di cui parliamo, come del resto di ogni soggetto di qualsiasi specie, è una sola). Infine, nessuna essenza indeterminata preesiste perché le essenze indeterminate non sono reali; ovvero: non c’è nessuna sostanza o individuo la cui “essenza propria” possa essere stata comunque preesistente all’individuo stesso; ovvero ancora: la realtà è soltanto l’essenza determinata, cioè la sostanza, l’individuo, vale a dire questo albero qui (reale), quest’altro albero qui (reale)..., questo pesce qui, quest’altro pesce qui..., questo uomo qui, quest’altro uomo qui... Ciò che è in potenza non è reale e non è, ovviamente, esistente. La potenza vera e propria è a posteriori.

19. Aristotele, Metafisica, VII 17, 1041 b 5,10,15, op. citata, pag. 363.

20. Aristotele, Metafisica, VII 6, 1031 b 30,10, op. citata, pag. 307.

21. Aristotele, Metafisica, VII, tutto il § 6 e specialmente 1031 a / 1031 b, 30, 5, opera citata, pagg. 305-311.

22. Sui termini “essenza”, “sostanza”, “forma”, “essere” si vedano le rispettive voci in Dizionario di filosofia a cura di Nicola Abbagnano, Editrice UTET-TEA, Torino-Milano 1971-1993.
Il termine greco eídos (forma), e il termine greco idéa (idea), sono legati da una comune parentela. Infatti, sia eídos che idéa contengono la radice idêin che in italiano vuol dire vedere. Insomma, il primo e il secondo termine (cioè “eídos” e “idéa”) sono certamente sinonimi, e poiché il secondo (cioè “idéa”) nella sua accezione platonica di archetipo, forma, modello, Idea appunto, è sinonimo di eikôn (immagine), anche “eídos” è sinonimo di “eikôn” (immagine). Nella filosofia greca, essenza era detta con i termini estin, eídos, ousía, ognuno dei quali avrebbe qui bisogno di essere spiegato nella sua più precisa accezione. In Aristotele, comunque, il significato del termine morphê è compreso in quello del termine eídos, è “parte” dove eídos è il “tutto”. Se il termine «morphê», usato da Paolo in Filippesi 2.6 (testo dai trinitari interpretato erroneamente, come se si trattasse dell’incarnazione di Dio in Gesù), si dovesse intendere rigorosamente nel senso aristotelico, verrebbe ad attribuirsi a Dio una forma, nel senso comune del termine, una struttura e configurazione formale, allora Dio avrebbe un corpo quale che sia. Nell’uso filosofico Cartesio preferiva la parola idea alla parola immagine, alludendo a quest’ultima per lo più nel senso di phantasma, rappresentazione, immaginazione... Mentre eikôn si può comunque riferire a immagine, rappresentazione, idea... eccetera. Conclusione: nel testo di Filipp. il termine “morphê” (forma) è equivalente al termine “eídos” (forma), ma non nel senso di essenza (essenza divina in questo caso), bensì nel senso di immagine. “In forma di Dio” significa “a immagine di Dio” [cfr. il mio L’Ultimo Adamo, cap. II, Roma 2004]. Visto che i termini che ci riguardano, fuori del N. T. sono usati con molte sfaccettature e accezioni di significato generico e di significato filosofico, per l’esegesi dei testi biblici bisogna basarsi soprattutto (ma non solo) sull’uso biblico, particolarmente del Nuovo Testamento.
Aggiungiamo brevemente quanto segue: l’essenza risponde alla domanda “che cos’è?”. Se la risposta a questa domanda si riferisce ad una realtà individuale, immanente, quest’ultima è l’essenza stessa come sostanza, e allo stesso tempo la risposta indica a quale specie possiamo assegnare quell’individuo. È ciò che, in sintesi, dice Aristotele. Invece quando la risposta si riferisce a ciò cui un individuo parteciperebbe, assieme ad altri individui (che perciò stesso diciamo della stessa specie), quale ombra della realtà universale (che sarebbe l’unica vera realtà), allora è ciò che dice Platone. Insomma, per Platone la vera realtà trascende gli individui, per Aristotele la realtà è gli individui stessi. Ancora più brevemente: per Platone la realtà è trascendente; per Aristotele è immanente.

23. Nicola Cusano, La Dotta ignoranza (De Docta ignorantia), XI, traduzione di Graziella Federici Vescovini, Città Nuova Editrice, Roma 1991, pag. 145.

24. Vale a dire: ciò che normalmente chiamiamo con il termine “materia”, per esempio lo zolfo, il piombo, l’acqua, il bronzo..., non è qualcosa di indeterminato perché è “zolfo”, “piombo”..., è determinato da queste essenze (o è queste essenze), ciascuno dalla sua propria (“zolfo” non è “acqua”), talché “questa” materia non è “quella”, per la determinazione che la qualifica e la distingue realmente. La materia indeterminata non è cosa reale: è potenza. Inoltre, se (per esempio) la materia è zolfo, piombo... è a sua volta potenza per le forme che può assumere come bronzo, come piombo…: il bronzo può essere cerchio, statua, pugnale... (da una realtà, altre realtà). Insomma, la materia in quanto tale (pura e semplice) è inconoscibile; noi la intuiamo come potenza, come ciò che può essere “questo”, “quello”... Significa che realmente la materia non è mai informe, non esiste materia informe: dire “materia informe” significa dire “potenza”, ovvero “materia in universale” (indeterminata). Ma la realtà è questa materia qui (cioè determinata), è quella dello zolfo, del bronzo, o meglio è “lo zolfo”, “il bronzo”..., ma anche quella del cerchio, del pugnale, dell’albero, del cavallo... o meglio di questo cerchio, di questo pugnale, di questo cavallo, di questo uomo... ovvero ancora: questo cerchio qui, questo pugnale qui, questo cavallo qui, questo uomo qui... cioè la sostanza o individuo. In ultima istanza la realtà è “individua”; fuori dell’individuo non c’è realtà. Aristotele, Metafisica, VII 7, 1032 a 20; VII 10, 1036 a 5-12; IX 7, 1049 a 15-25, op. citata, pagg. 311, 333, 415.

25. Quando diciamo – così come abbiamo già detto più volte – che la sostanza è l’unità, cioè il “composto” (il quale “composto” beninteso non è “miscuglio”, né “somma”) di essenza e materia, dobbiamo intendere ciò che ha esigenza di questa “unità”, vale a dire le “parti” che formano l’unità stessa in atto, l’individuo. Le “parti” che hanno esigenza di questa unione, ce l’hanno nel senso che esistono soltanto nell’unità; non possono dividersi, non possono separarsi l’una dall’altra, come il bronzo e la forma non possono separarsi finché sono la statua di bronzo. La statua è la “sostanza”, cioè l’essenza necessaria che Aristotele chiama eídos (forma); mentre la forma intesa come struttura e configurazione formale (per intenderci quella fatta di linee e superfici, la forma comunemente detta) è chiamata dal filosofo con il termine morphê: «Chiamo materia, ad esempio, il bronzo, forma [morphên] la struttura e la configurazione formale, sinolo ciò che da queste risulta, cioè la statua...». Ed ancora (altro esempio): «Nella ricerca del perché si cerca la causa della materia [di quella determinata materia], vale a dire la forma [touto d’ estì tò eídos] per cui la materia è una determinata cosa: e questa [determinata cosa spiegata (denominata) nel suo perché o causa] è appunto la sostanza», vale a dire un “composto”. Aristotele, Metafisica, VII 3, 1029 a 5; VII 17, 1041 b 5, op. cit., pag. 293 e pag. 363.

26. Aristotele, Metafisica, VII 7, 1032 b 14, op. citata, pag. 312 (nel testo greco). Cfr. Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, Vol. Primo § 73, p. 161 ss., TEA-UTET, Milano-Torino1995.

27. Aristotele, Metafisica, VII 3 1029 a 1-5, op. citata, pag. 293.
Cfr. voce “sinolo” in Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti Editore Milano, 1981 – 1993.

28. Aristetele, Metafisica, V 26, 1023 b 28, 33, op. citata, pag. 255.

29. Aristotele, Metafisica, V 25, 1023 b 20, op. citata, pag. 255

30. Christian Wolff, Philosophia prima sive Ontologia (1729), § 328.

31. Aristotele, Metafisica, V 6, 1016 b 4-5, op. citata, pag. 209.

32. Filone d’Alessandria, Le allegorie delle leggi, II, 1, [2], traduzione di Roberto Radice, in: La filosofia mosaica, Rusconi Editore, Milano 1987, pag. 143.

33. Aristotele, Metafisica, V 5, 1015 b 10-15, op. citata, pag. 203.

34. Qui l’espressione “più o meno”, ovviamente non va riferita alla dimensione o alla quantità, ma piuttosto alla qualità, meglio ancora all’essenza della sostanza; la quale essenza (in atto o in potenza, non importa) deve essere una come una è la sostanza. In altre parole si esprime quel concetto che Aristotele stesso puntualizza come segue: «Se la sostanza è una unità [come è effettivamente], non potrà essere costituita da sostanze presenti in essa». Infatti, l’atto (che è la sostanza) è costituito dall’unità dell’essenza e della materia (una sola essenza). Se, per ipotesi assurda, la sostanza fosse costituita in potenza da due essenze e dalla materia, allora anche la sostanza in atto dovrebbe essere costituita da due sostanze, dato che nel nostro caso, secondo Aristotele, la potenza segue all’atto. “Sostanza” e “atto” sono una sola e medesima realtà, e la potenza per così dire è “astratta” dalla sostanza che la precede; la sostanza precede la potenza; precede l’essenza (indeterminata) e la materia (indeterminata), che risultano ovviamente una sola essenza e una sola materia. L’atto ovviamente non può essere potenza; è impossibile che la sostanza, considerata in potenza, risulti due o più essenze, dato che essenza e materia, astratte secondo Aristotele (e secondo logica) dalla sostanza, risultano ciascuna una e sola. Se per assurdo ammettiamo che ci possa essere un individuo che sia più sostanza di un altro, quest’individuo dovrebbe essere costituito, sempre per assurdo, da almeno due sostanze, sicché la sua sostanza (cioè esso stesso) sarebbe più sostanza di quegli individui costituiti tautologicamente da una sola sostanza. Ma poiché per essere costituito da due sostanze dovrebbe risultare costituito da due essenze, l’ipotesi è assurda e inammissibile sotto ogni punto di vista, come del resto abbiamo sopra dimostrato e come è evidente dal fatto che risulterebbe composto mostruosamente da due individui, per esempio da un albero-pesce. Cfr. Aristotele, Metafisica, VII 13, 1039 a 10; VII 16, 1041 a 5, op. cit. p. 349 e p. 361.
Cosicché Gesù Cristo non può essere costituito o determinato da due essenze (cioè da due forme); non può essere due “nature” perché non può essere due sostanze in atto; non può essere due essenze, né in atto né in potenza in unità. E se per assurdo e tuttavia lo fosse in unità (due essenze in una, in potenza o in atto non importa), non sarebbe né vero uomo né vero Dio. Inoltre, non ci sembra possibile che una così importante “verità”, quale sarebbe quella del “vero Dio vero uomo”, per farsi accettare debba ricorrere ad erudite, quanto complicate e capziose, spiegazioni che non possono essere vere prescindendo dalla fede in base alla quale, in ultima istanza, è accolta, anche se non per la fede biblica.
Dire “unità” e dire “sostanza” nel medesimo contesto, significa perlopiù la stessa cosa; nel nostro caso significa “individuo”. Si può parlare dell’unità come “semplice” e dell’unità come “composto”. Aristotele ha definito l’unità ciò che è necessariamente uno, vale a dire indivisibile; e può essere indivisibile per due aspetti: 1) o perché priva di parti, e questo è il “semplice”; 2) o perché le sue parti sono inseparabili sia dal “tutto” e sia l’una dall’altra, e questo è il “composto” o “sostanza”, cioè l’individuo. La realtà come individuo ( che propriamente tale è la realtà) è soddisfatta soltanto dal secondo tipo di unità; il primo, cioè il semplice, è realtà soltanto in quanto inerisce una sostanza: non esistono “semplici” in sé, separati dalla sostanza, il che significa che ogni realtà è “individua” e che ogni individuo è composto. Tralasciamo le altre accezioni dell’unità perché non riguardano da vicino il nostro argomento. Cfr. Aristotele, Metafisica, V,6 op. citata, pagg. 205-213.
Cfr. Plotino, Enneadi, VI, 6, 13, traduzione di Giuseppe Faggin, Collana “I classici del pensiero”, Rusconi Editore, Milano 19923, pagg. 1191-1195; voce “unità” in Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano, op. citata.
E` chiaro che abbiamo espresso soltanto delle tautologie. Ma la verità è, appunto, espressa da tautologie. Cfr. Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Filosophicus, London 1922, 4.46 [traduzione italiana di Amedeo G. Conte, Giulio Einaudi editore, Torino 1978, pagine da 101 a 105].

35. Aristotele, Metafisica, XII 6, 1071 b 21, op. citata, pag. 559.

36. Aristotele, Metafisica, XII 7, 1072 a 33, op. citata, pag. 563.

37. Aristotele, Metafisica, VII 16 1041 a 3, op. citata, pag. 361.

38. Aristotele, Metafisica, XII 8, 1074 b 8-9, op. citata, pag. 575.

39. Emerson, Natura e altri saggi, op. citata (vedi nota 22), pag. 148.

40. Aristotele, Metafisica, VII 11, 1037 a 35 ss., op. citata, pag. 337.

41. Plotino, Enneadi, II 4, op. citata, pag. 235.
Poiché la “sostanza”, secondo Aristotele, è l’essenza necessaria, ci domandiamo: necessaria per chi o per che cosa? Certamente è necessaria al soggetto che è sostanza; vale a dire per l’individuo. Infatti, la “necessità” propria dell’essenza necessaria non avrebbe alcuna ragion d’essere (o non avrebbe alcun significato) se fosse priva di ciò che in unità con essa costituisce quella sostanza; dunque “necessaria” non è soltanto l’essenza da sola, ma con ciò di cui è sostanza. Questo significa che l’essenza necessaria non può esistere “sola” (pura), cioè priva di quel “ciò” che è necessario con essa (in unità), cioè priva di ciò che fa l’individuo, vale a dire priva della “differenza” o “materia”. E dunque non esistono sostanze semplici (prive di materia). Se la sostanza appartiene esclusivamente al soggetto di cui è sostanza (all’individuo), una volta accettato questo concetto, affermare che esistono delle sostanze semplici (sia pur altre sostanze), come fa Aristotele, che cioè alcune essenze necessarie (ma “sole”, semplici) siano esse stesse (e sole) il soggetto a cui si riferisce la propria necessità, è una pura congettura. Certo questo nostro ragionamento è valido in quanto prende le mosse dalle sostanze materiali o cosiddette materiali (e da dove se no?); chi ci assicura che esistano veramente delle sostanze immateriali (semplici, intelligibili, o in qualsiasi altro “modo” si vogliano ammettere)? Le sostanze come “principio” – dice Aristotele – non si generano e non divengono, non nascono e non muoiono, sono eterne. Certo! ma per il semplice fatto che i principi non principiati sono astratti, non sono reali, non sono cose (se si ammette che lo siano, si cade in qualcosa di simile al platonismo). È vero ciò che dice Emerson: Aristotele platoneggia. Però ad un certo punto Aristotele stesso dice che per sostanza immateriale intende l’essenza (l’essenza considerata in sé): VII 7, 1032 b 14. I principi sono reali soltanto se sono “principiati”, cioè atto, vale a dire se e quando sono “sostanza” (sostanza materiale! l’unità di materia e forma). Il “principio” reale (cioè “principiato”) è causa immanente e simultanea, e non precede l’atto, è l’atto stesso, cioè la sostanza tautologicamente reale, la quale nasce e muore, si genera e diviene, perché l’unica sostanza “vera e reale” è appunto quella materiale. Questa è la realtà. Non esistono sostanze semplici. Se esistessero, sarebbero dèi. Dice Aristotele: «Io affermo... che la materia costituisce per ciascuna cosa il sostrato primo dal quale la cosa si genera non accidentalmente»: Fisica, I 9, 192 a 31, op. citata, pag. 55.

42. Bruno, De la causa, principio e uno, II, La Scaligera, Verona 1941, pag. 53.

43. Plotino, Enneadi, VI 9, 6, op. citata, pag. 1351.

44. Filone d’Alessandria, Le allegorie delle leggi, XXXI 95, op. citata, pag. 191-192.

45. Niccolò Cusano, La visione di Dio [De visione Dei], X, traduzione di Giovanni Santinello, Zanichelli Editore, Bologna 1980 / Mondadori Editore, Milano 1998, pag. 53.

46. Aristotele, Metafisica, XII 8, 1074 b 2, op. citata, pag.575.

47. Nicola Cusano, La dotta ignoranza, IV, op. citata, pag. 122.

48. Bruno, De la causa, principio e uno, II, op. citata, pag. 53.

49. Aristotele, Metafisica, XII 7, 1072 a 33, op. citata, pag. 563.

50. Aristotele, ìbidem.

51. Plotino, Enneadi, traduzione di Giuseppe Faggin, op. citata. Anche le citazioni che seguiranno sono tratte da questa edizione delle Enneadi.

52. Emanuele Severino, La filosofia antica, Rizzoli Editore, Milano 1984 / CDE, Milano 1987, XII, 4,5, pagg. 199, 198.

53. Catechismo della Chiesa Cattolica, op. citata, §§ 253, 254, 255, pag. 81.

54. René Descartes, Les principes de la philosophie (Paris 1647), I,60 [traduzione italiana di Paolo Cristofolini, I principi della filosofia, Bollati Boringhieri editore, Torino 1967 / CDE, Milano 1993, pag. 101.

55. Giuseppe Faggin, Introduzione alle Enneadi di Plotino edito da Rusconi, op. citata.

56. Adattiamo i concetti ricavandoli dal Vangelo tradotto da Don Giuseppe Guerini, edizione dei quattro Vangeli, con note esplicative, curata dalla Repubblica dei Ragazzi di Civitavecchia, 14ma edizione, Milano 1967, nota al primo v. del Vang. di Giovanni.

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Una concezione particolare della Trinità la troviamo in Dante Alighieri, che la descrive, avendo un occhio soprattutto per Aristotele, nel Convivio (2do, IV [V]- V [VI]); vedi: Tutte le opere, Newton-Compton Editori, Roma 1993, pagg. 907-911. Nel pensiero del grande poeta, il rapporto che evidenzia le Persone trinitarie è legato piuttosto alla concezione aristotelica del cielo, e a quella cristiana tradizionale degli angeli. Inutile dire che non trova alcun riscontro, né in campo astronomico, né in quello teologico degli angeli, né in quello biblico. È una concezione poetica che si allontana ulteriormente dal monoteismo puro e semplice. Nella storia della fede “cristiana” e della teologia in generale, esistono diverse concezioni trinitarie; alcune ai limiti della ortodossia cattolica romana, altre “eterodosse”; nessuna però trova riscontro, sia pur implicito, nella Sacra Scrittura, neppure quella ufficiale che troviamo nel Catechismo già citato, perché sono tutte viziate dal presupposto che afferma la preesistenza del “Figlio di Dio” rispetto alla sua nascita in Palestina, la quale nascita per questo viene indicata come “incarnazione” piuttosto che come “nascita”. Nella concezione trinitaria l’espressione “Figlio di Dio” non indica soltanto il Messia, come è nella Bibbia, ma anche e soprattutto la “Terza persona della Trinità”. Sappiamo però che la preesistenza nella concezione ebraica, e quindi in quella biblica, non implica una esistenza temporale e premondana, ma che la persona [storica, che è l’unica] e l’opera di Gesù sono dovute ad una iniziativa di Dio (v. K. J. Kuschel).

57. Gesù di Nazareth è l’Adottato, il Messia. Giovanni il Battezzatore (“un uomo mandato da Dio”: Giov. 1,6) battezza Gesù nel fiume Giordano; «una voce dai cieli dice: “Questo è il mio diletto Figliuolo; in te mi sono compiaciuto”» (Luca 3,22). Questa espressione è presa dalla cerimonia, in uso presso gli Ebrei, con la quale veniva ufficialmente eletto il re (“adottato Figlio di Dio”). Cfr. il mio L’Ultimo Adamo, op. citata, e la relativa bibliografia.

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Afferma Charles Guignebert: «In linea di principio tutti i Giudei sono figli di Jahvé, e appunto questa qualità li distingue dagli altri uomini [Jahvé a Davide: “Sarò per lui un padre ed egli sarà per me un figlio” (2 Sam. 7,14); “Siete figli del Signore Dio vostro” (Deut. 14,1) e altri testi citati in nota]. Più particolarmente, i messaggeri divini, e specialmente, i re [in nota: i testi biblici si possono trovare in Encyclopedia Biblica, voce Son of God, § 1-5 (oppure tramite una “chiave biblica”)] sono “figli di Dio”». Si suppone che le parole del Salmo 2,7 che compaiono nel racconto del battesimo di Gesù, secondo il codice D: “Tu sei il mio figliuolo diletto, ti ho generato oggi”, facessero parte del rituale d’incoranazione dei re asmonei; e nel post-esilio l’uomo pio era ritenuto “figlio di Dio”. Evidentemente «si tratta soltanto di esprimere una relazione religiosa e morale più intima di quella che unisce gli umani in genere al loro Creatore; ma non c’è neppur da parlare, né da vicino né da lontano, di una filiazione vera e propria; perchè un Giudeo non vi scorgerebbe che un’assurdità inconcepibile e una enorme bestemmia [il nero è nostro]». Se eventualmente alcuni Giudei avessero chiamato Gesù con l’appellativo di “Figlio di Dio”, «l’espressione avrebbe sempre avuto per loro il valore di una immagine, o di un modo di dire». Ora, se Gesù considera tutti gli uomini figli di Dio, l’espressione “Figlio di Dio” adoperata per se stesso, cioè per Cristo, rimane per lo meno smorzata. Gesù non parlava greco, ma aramaico. e «là dove i nostri Evangelisti scrivono ho patêr mou = “il padre di me”, ovvero patér mou (vocativo) = “padre di me” o “padre mio”, egli diceva tutt’al più abba = il “padre” o “padre”. Di conseguenza, una distinzione su cui si soffermano compiaciuti [J. Lebreton, Les origines du dogme de la Trinité, pp. 242 sgg.] gli ortodossi, come quella che dà Lc., XXII, 29 (“E io vi attribuisco il Regno come mio Padre me l’ha attribuito”), cade di per sé, poiché il “mio” scompare» (Gesù, trad. ital. di Marisa Zini, Giulio Einaudi editore, Torino 1950, pagg. 314-316).
Gesù, pur avendo implicitamente abolito ogni religione e predicato il perdono di Dio per tutti indistintamente, era tuttavia assai rispettoso nei confronti di tutti e particolarmente delle tradizioni e delle credenze (almeno di quelle più importanti) dei suoi connazionali; egli era, in sostanza, un ebreo osservante: Cfr. Robert Aron, Ainsi priait Jesus enfant [1968], trad. ital. di Mariangela della Valle Così pregava l’ebreo Gesù, Oscar Mondadori, Milano 1988; Riccardo Calimani, Gesù ebreo, Mondadori, Milano 20012. Gesù non avrebbe potuto affermare qualcosa che per i Giudei sarebbe stata una bestemmia. E ciò implica che l’espressione “Figlio di Dio” non era e non è equivalente a “Dio”. In ogni caso se egli all’espressione “Figlio di Dio” avesse dato il valore di “Dio”, ovvero di “natura divina”, di Figlio generato in senso proprio da Dio, avrebbe trovato il modo di spiegarlo ai suoi ascoltatori, almeno a quelli più attenti, con parole semplici e senza urtare troppo la loro suscettibilità. Invece Gesù, nella circostanza in cui lo volevano condannare a morte con l’accusa di farsi Dio (in Giov. 10,34-36), nega di essere Dio (e quasi per esplicito); e non si può pensare che lo abbia fatto dicendo una bugia (Cfr. il cap. I, §§ 49, 50).

Di John Locke aggiungiamo ancora: «Chiedo che ciascuno legga con attenzione l’ultima parte del primo capitolo di Giovanni, dal versetto 25, e mi dica se è chiaro o no che questa frase: “Figlio di Dio” è espressione usata per il Messia. A ciò mi si permetta di aggiungere la dichiarazione di fede di Marta (Gv. 11,27) che così si esprime: “Io credo che tu sei il Messia, il Figlio di Dio, che doveva venire nel mondo” e il passaggio di Gv. 20,31: “Che voi crediate che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio; e che credendo abbiate la vita nel suo nome”, e quindi mi si dica se si può dubitare che Messia e Figlio di Dio erano termini sinonimi in quel tempo tra i Giudei» (La ragionevolezza del cristianesimo, op. citata, pag. 293).

Cfr. Matteo Manzella, Gesù, “Figlio di Dio” (eBook su CD), Roma 2009.

Riassumiamo alcuni concetti riguardo alla problematica trinitaria.
Secondo la Bibbia è Dio stesso che, parlando a Mosè, spiega il significato [o uno dei significati?] del suo nome (Jhwh). «Dirai così ai figli d’Israele:”l’Io Sono mi ha mandato da voi”» (Esodo 3,14). Questo significato non implica in nessun modo il concetto di Trinità. Ma i trinitari non si rassegnano; affermano: alla creazione del mondo, in Genesi 1,26, là dove Dio si accinge a creare il capostipite dell’umanità, è detto: «Dio [‘elóhîm] disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine…». Il plurale espresso nelle parole “facciamo” e “nostra” implica che Dio è trino.
Rispondiamo: Non è così! Una prima considerazione, spicciola ma significativa, è la seguente: se dal plurale di Gen. 1,26 dovessimo dedurre che Dio è trino, allora dovremmo (come infatti possiamo) dedurre dal singolare di Esodo 3,14 che Dio è Uno, e che se fosse trino dovremmo trovare “Noi Siamo” e non “Io Sono”. Il termine “Dio” è generico, e nel suo significato non si opporrebbe al concetto di Trinità; ma JHWH vi si oppone perché significa “Io Sono”, è l’ESSERE, e l’essere divino è semplice, uno, e indivisibile. Non è possibile scegliere l’uomo (come invece fanno i trinitari) per l’analogia intesa a spiegare che la dottrina trinitaria non si opporrebbe alla ragione. Se l’uomo è creato a immagine di Dio (come infatti afferma la Bibbia) e fosse vero che Dio è tre persone, allora anche l’uomo dovrebbe essere costituito da tre persone (attenzione: “persone”, non “parti”; l’analogia riguarda la persona), ma non è così: l’uomo è una persona, non tre! Francesco è uno perché la persona è una e non è mai in unità sostanziale con altra o altre persone. E questo è assolutamente vero anche riguardo a Dio. Il Creatore è semplice (non composto); l’uomo è una unità tautologicamente composta di parti, ma non di più persone; la persona è una sola perché è l’unità. Dire “persona”, dire “sostanza”, dire “unità” ̶ riguardo all’uomo ̶ significa dire la stessa cosa. Se dunque l’uomo è una sola persona, si potrebbe dedurre che Dio non è trino, dato che l’uomo fu fatto a immagine di Dio. In realtà l’immagine di Dio è l’uomo nella sua natura perfetta, non è Dio. L’immagine di una cosa non è la cosa stessa di cui è immagine. Certamente non si tratta di “immagine” analoga alla natura di Dio. Di sicuro non c’è nessuna analogia tra l’uomo e il Dio dei trinitari; e non c’è nessuna analogia neppure con qualsiasi altra cosa antropomorfica e mondana. L’affermazione della Trinità è certamente una forzatura della ragione con la quale si vorrebbe giustificare (prescindendo dalla fede) la credenza nella divinità di Gesù Cristo.
Vi è poi una spiegazione che riguarda l’uso della lingua semitica nell’ambito della concezione politeista, che con il termine ‘elóhîm (divinità, l’insieme di tutto il divino) esprimeva Dio al plurale. Evidentemente, in quel momento storico, il termine non poteva essere che il plurale della lingua semitica, perché esprimeva bene l’idea di divinità, perciò fu usato anche per il monoteismo. Per questo le parole plurali “facciamo” e “nostra” era necessario che si accordassero con il termine plurale che indicava la divinità. Il singolare El (dio) indicava uno degli dèi, non esprimeva la pienezza della Divinità. In sostanza ‘elóhîm è un termine obbligato per necessità linguistica a cui si accorda “facciamo”, e non implica una concezione trinitaria di Dio. Isaac Asimov, uomo di scienza, scrittore e saggista, nella sua opera che ha per argomento il primo libro della Bibbia, cioè Genesi, intitolata In principio (Oscar Mondadori, Milano 19995) ci ricorda che «gli Israeliti e tutti i popoli circostanti… parlavano di “dèi” anziché di “Dio”: ossia, in ebraico, di Elohim anziché di El. Elohim diventò un’espressione tanto familiare da essere inseparabile dalla divinità… Ciò spiegherebbe anche l’uso del “facciamo” e del “nostra”…» (pag. 76).
Il discorso della filosofia trinitaria inizia considerando due concetti contrapposti come se fossero concordi: afferma che Dio non è “composto” e nel contempo che è “Unità”. A nostro parere, il “composto” è certamente un tutto, ma ovviamente un tutto formato (o composto, appunto) da parti, le quali costituiscono quella sostanza o “composto” (quel tutto). Le “parti” di quel tutto (o “composto”) sono sostanziali ancorché diverse (la forma di una statua non è la materia della statua…); le parti sono proprie di quel tutto (non sono “aggiunte”), per questo viene definito Unità: ciascuna delle parti è inseparabile dalle altre e dal tutto. Si precisa, inoltre, che Dio è “semplice”, ma si pretende che questa affermazione non sia in contraddizione con la precedente (che afferma che Dio è Unità). Ammesso che Dio sia Unità, domandiamoci: che cosa sono più precisamente le “parti” che la compongono? dato che una Unità priva di parti non è niente! Aristotele insegna: «Parti sono quelle in cui il tutto… si compone»; «Tutto si chiama… ciò che contiene le cose in maniera tale che esse costituiscano una unità… quando vi sia una unità costituita da una molteplicità di parti». Non siamo d’accordo con Aristotele quando chiama “unità” indifferentemente quella costituita da una molteplicità di parti e quella che è formata da una sola “parte” o meglio da una sola realtà immateriale (semplice). Tuttavia condividiamo il pensiero di Aristotele quando afferma che l’unità può essere costituita da una molteplicità di parti, anche se, secondo noi, deve essere costituita da una molteplicità di parti, altrimenti piuttosto che una unità sarebbe un semplice. Ora secondo i trinitari Dio sarebbe Unità e Semplice allo stesso tempo, il che è impossibile. Il Catechismo dice: «Il Padre è tutto ciò che è il Figlio, il Figlio tutto ciò che è il Padre, lo Spirito Santo tutto ciò che è il Padre e il Figlio, cioè un unico Dio quanto alla natura» [ma in Dio c’è qualcos’altro oltre alla sua propria natura?]. Questa è un’affermazione doverosa del Catechismo che, giustamente, è stata fatta per evitare che si possa concludere che ci sono tre dii. Ma facendo questa precisazione i trinitari affermano implicitamente che non c’è distinzione delle tre persone, vale a dire che non ci sono tre persone perché sono identiche. Perciò si è cercato di correre ai ripari, affermando: «Il Figlio non è il Padre, il Padre non è il Figlio, e lo Spirito Santo non è il Padre o il Figlio». Questa affermazione contraddice la prima. Secondo noi, la proposizione «il Padre è…» (oppure: «il Padre non è…») implica l’essere, la sostanza; “essere qualcosa” (o “non essere qualcosa”), riguarda l’essenza, perché l’essenza è la risposta alla domanda «che cosa?»; che cosa è questo? che cosa non è? Se si dice che ognuna delle tre persone è ciò che sono le altre due, e che ciascuna delle tre non è nessuna delle altre due, si esprime una contraddizione in termini che poggia sul presupposto erroneo che in Dio vi possa essere distinzione tra “essenza” e “persona”, talché Dio come essenza sarebbe “così” e come persona (o persone) sarebbe “cosà”, dove “così” e “cosa” esprimerebbero appunto (come infatti esprimono) una contraddizione in termini. Questi concetti sono bene o male mutuati dall’essere umano, definiti per astrazione, e applicati a Dio. Ma l’Eterno, per bocca del profeta Isaia, dice: «A chi mi vorreste assomigliare?» (40,25). Non è possibile applicare a Dio concetti necessariamente antropomorfici e mondani. Allora si è fatta una ulteriore precisazione; dice ancora il Catechismo: «La distinzione reale delle Persone divine tra loro, poiché non divide [?]l’unità divina, risiede esclusivamente nelle relazioni che le mettono in riferimento le une alle altre». Osserviamo: 1) la preposizione “tra” non implica almeno due realtà distinte, cioè almeno due sostanze tra le quali “corre” la relazione? Se non ci sono almeno due realtà distinte (realmente distinte!), in questo caso almeno due “dii”, non può esserci distinzione reale e quindi non può esserci relazione alcuna. 2) Chi o che cosa sono “le une” e “le altre” di cui si parla nel Catechismo? Sono qualcosa o sono niente? Se sono qualcosa, sono qualcosa di sostanziale, perciò tre “dii”, dato che se in Dio c’è qualcosa non è nulla di accidentale: tutto ciò che è in Dio è “Dio”. Se invece “le une” e “le altre” sono niente, allora non c’è distinzione e non c’è una pluralità di persone. Insomma se c’è distinzione, questa non può che essere reale, perché in Dio è tutto “reale-sostanziale”. Cartesio diceva che «la “distinzione reale” in ogni caso si riferisce a due o più sostanze», e il Catechismo parla di «distinzione reale delle Persone» in Dio. E poiché è inammissibile considerare l’essenza e la persona come se fossero cose diverse [in definitiva ipostasi e prosopon indicano la stessa cosa], dobbiamo concludere che la dottrina trinitaria ci porta ad affermare che ci sono tre dii, visto che le Persone divine (tre persone!) sono realmente distinte, cioè: sostanzialmente distinte, che in Dio è la stessa cosa se si ammette, come ammettono i trinitari, che Dio è Sostanza. Si è cercato di spostare la distinzione reale dalle persone alle relazioni. Ma se la relazione è reale in sé, essendo in Dio, questa realtà coinciderebbe con la sostanza divina e la dividerebbe, perché se non la divide bisognerebbe ammettere che non c’è “relazione tra” (e se non c’è “relazione tra”, non ci sono persone); se invece c’è “relazione tra”, allora la sostanza divina è divisa (o replicata), ci sarebbero più sostanze distinte in Dio che relazionerebbero tra loro… eccetera, eccetera. Si dirà: non è la sostanza a relazionare, ma la persona. Questo è vero e non è vero, perché almeno in Dio la persona non è accidente della sostanza. In Dio tutto deve essere sostanziale. In lui la persona è la sostanza stessa! Insomma, ipotizzare delle relazioni in Dio allo scopo di spostare il problema dalle persone alle relazioni non è una soluzione; significa ripetere la stessa problematica, che deriva da un fatto semplicissimo dal quale non si esce: che tre non possono essere uno. Questo è il problema! Ed è un problema creato dai trinitari e mai risolto. Se una è l’essenza divina, una è la persona divina; perché non c’è distinzione tra essenza divina e persona divina. Dio è soltanto Essenza (una Essenza); ovvero, è soltanto Persona (una Persona). Dire «Dio è soltanto essenza» equivale a dire «Dio è soltanto Persona» e viceversa, perché le due proposizioni esprimono la stessa identica cosa. Non c’è Trinità! Se poi si dice che ci sarebbe vera distinzione tra essenza divina e persona divina (incredibile!), avremmo una sola essenza divina e tre persone, ma come si ha per il genere umano: molti individui di essenza umana; così ogni “Persona-Dio” (Padre, Figlio, Spirito) possiederebbe l’essenza divina (divisa o replicata, non importa), e questo significherebbe propriamente politeismo. Certamente i trinitari nel formulare la loro dottrina intendono affermare il monoteismo; ne prendiamo atto. Ma ci sembra che insistendo sulla divinità di Cristo e sulla fede trinitaria che ne è la diretta conseguenza, rischiano di dimostrare il contrario di ciò che intendono dimostrare. In realtà la Trinità è impossibile; è contro ragione. E poiché la dottrina trinitaria è assente nella Bibbia (non c’è neppure per implicito: Cristo non è Dio, è il Messia), ancora una volta dobbiamo concludere che è destituita di ogni fondamento.
Gesù, riferendosi al Padre (al Dio), in presenza dei discepoli dice: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu ai mandato, Gesù Cristo» (Giovanni 17,3).
Bibliografia: Matteo Manzella, L’Ultimo Adamo, Leberit, Roma 2004, soprattutto le pagg. 221-238. Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, TEA Torino-Milano 1993, voci: Essenza, Sostanza, Trinità. Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992.

58. Meister Eckhart, Jêsus hiez sîne jüngern ûfgân, in Sermoni tedeschi, op. cit., pag.57.

59. Meister Eckhart, Unus deus et pater omnium, ìbidem pagg. 40, 42, 44.

60. Cfr. di Tommaso d’Aquino le qq. 27-43, I, nella Summa Theologiae [traduzione a cura dei padri domenicani italiani, La Somma Teologica, presso Salani Editrice, Firenze 1951]; voci “Dio” e “Trinità” nel Dizionario di filosofia già citato; infine la chiara sintesi in: Sergio Bonanni, La Trinità, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 19932, pagg. 150-170.

61. Summa, soprattutto q. 29.

62. Bertrand Russell My Philosophical Development, Unwin Hyman Ltd, 19854, c. 14 [traduzione italiana, La mia filosofia, di Francesca Pasquini, Newton Compton editori, Roma 1995, pag. 147].

63. In Dio l’Essenza e la Persona sono un’unica e medesima cosa. Ma i trinitari per la necessità, propria della loro dottrina, di distinguere l’essenza (che è una e indivisibile, perché una e indivisibile è la persona) dalle persone divine (che secondo la loro dottrina sarebbero tre) adottarono due termini presi dalla filosofia greca. Ciò accadeva quasi sul nascere della loro dottrina: si avvidero che il concetto con il quale intendevano spiegare in qualche modo la Trinità (o per lo meno dimostrare che è possibile) è o può essere un concetto contro ragione, evidenziato dal “bisticcio” dei termini (almeno apparentemente), ricorsero all’espediente di adottare nella loro terminologia i due diversi vocaboli che la lingua del greco antico adopera per indicare la “persona”: ypóstasis (ipostasi) e prósôpon (prosopon). Il primo (cioè “ipostasi”) si riferisce a ciò che sta sotto, cioè al sostrato; il secondo (cioè “prosopon”) si riferisce a ciò che appare; letteralmente: sedimento e maschera. Ma, comunque, tutti e due i termini si riferiscono a due aspetti dell’unità dell’individuo-persona, cioè ad una sola e medesima realtà. Dire “ipostasi” (sedimento) e dire “prosopon” (maschera), evidentemente con riferimento all’uomo, significa alludere in tutti e due i casi all’individuo-persona, che è l’unità “uomo”. Infatti, “prosopon” (maschera) suppone necessariamente qualcosa che nasconde sotto, cioè la realtà che la indossa, e questo qualcosa è l’ipostasi; mentre l’ipostasi suppone necessariamente qualcosa dalla quale è nascosta, che è la maschera (prosopon) che sta sopra. Non può esserci maschera senza il “mascherato”, senza ciò che le sta sotto, cioè l’ipostasi; e non può esserci “mascherato” senza maschera. Cosicché, sia il termine ipostasi e sia il termine prosopon indicano comunque la persona, non solo perché ognuno dei due termini nel suo significato letterale presuppone l’altro, ma anche perché per i greci, in ultima istanza, avevano lo stesso significato metaforico al di là di quello etimologico. Insomma, per dirla in parole semplici e sintetiche ci serviamo di una metafora: un bicchiere d’acqua è una realtà che implica necessariamente contenuto e contenente inseparabili; fuori della metafora possiamo chiamare la persona indifferentemente con i termini “ipostasi” oppure con “prosopon”, perché indicano sempre l’unità della “persona-uomo” (perché la persona è l’uomo!). I trinitari invece, con le loro distinzioni e astrazioni, pretendono di alludere a due cose diverse: [a] identificano “ipostasi” con l’essenza, e [b] “prosopon” con il relazionare dell’uomo con gli altri e con se stesso, o meglio ancora con “un soggetto di relazioni”, in modo distinto e astratto. Ma le due cose non possono essere e non sono due realtà in sé, dal momento che sono proprie dell’unità “uomo”, che oltretutto non ha e non può avere analogia con Dio, dato che l’uomo è composto, mentre Dio è il Semplice in sé. Cosicché, quando dicono che la Trinità è costituita da tre persone in un’unica sostanza (o essenza), cioè da tre prosopon in un’unica ipostasi, dicono che la persona, da un punto di vista generale, a) è (o può essere) costituita da tre persone in una persona; oppure b) che l’ipostasi (sempre da un punto di vista generale) relaziona con gli altri e con se stessa in tre modi diversi, come di tre realtà separate. Ma nell’analogia antropomorfica, l’individuo-persona (e quindi la persona tout court) è uno: non ci possono essere tre persone in una persona. L’essenza dell’uomo è di essere “persona” (ogni persona è una persona); così analogamente l’essenza di Dio (cioè Dio stesso) è di essere Persona (una sola persona). Dio, senza dubbio, non può essere e non è “individuo”, perché l’individuo è quella realtà in sé “catalogabile” in una specie (in una pluralità di individui della stessa essenza, cioè replicata); l’uomo è “specie”, ma Dio essendo uno, unico e non-replicabile (il Semplice in sé), non è specie, quindi non può essere tre persone, né tanto meno tre in una sola essenza: “tre in una” è contro ragione, perché significherebbe in ogni caso tre realtà separate in un’unica realtà: contraddizione in termini, a prescindere dalla presunzione specifica con la quale il concetto è affermato ed enunciato dai trinitari. L’essenza divina è la persona divina: una è l’essenza, una è la persona, perché Dio è soltanto Essenza, ovvero soltanto Persona. Se invece la natura divina fosse quella di essere tre persone, sarebbe contro ragione, e per di più non ci sarebbe – ed effettivamente non c’è – quella analogia antropomorfica che i trinitari invocano per provare che la Trinità è possibile, che non si oppone alla ragione. Anche se si vuole accettare il ragionare per analogia mondana (che noi rifiutiamo se è applicato a Dio come discorso dal senso proprio) bisogna essere coerenti: non ci possono essere in Dio tre “persone” in una Persona perché così vuole la stessa analogia antropomorfica e mondana che i trinitari invocano. E` già problematico ammettere che Dio è persona (dato che Dio è il Semplice in sé), perciò diciamo che lo è in modo “ineffabile”, ma ammettere che è “tre” persone è proprio contro ragione; tre prosopon in una ipostasi è indubbiamente contro ragione (tre “facce” o maschere su un “sedimento”), ed è già di per sé un bisticcio di termini adoperati, capziosamente, come se indicassero due cose diverse mentre indicano una sola e medesima cosa (tre persone su una persona). L’analogia che i trinitari adottano per ragionare di Dio, in effetti dovrebbe produrre la seguente affermazione: per quanto riguarda l’uomo, al di là delle distinzioni di ipostasi e prosopon, non possono esserci più persone in una persona (ovvero una persona non può avere come sostrato tre persone); così – allo stesso modo, analogamente – per quanto riguarda Dio non possono esserci più Persone in una Persona. Se in Dio l’essenza è di essere persona (ed è così senza dubbio), e l’essenza divina coincide e si identifica con Dio, allora quella persona (che è l’essenza divina) è Dio stesso; e se Dio è uno, una è anche la persona che coincide con quell’essenza; significa che “essenza” e “persona” sono una sola e medesima cosa. Dunque, Dio è soltanto essenza (una essenza); oppure si può dire che è soltanto persona (una persona), che è la stessa cosa. D’altra parte, da qualunque punto di vista si imposta il discorso resta il fatto che c’è un solo termine veramente adeguato a indicare la persona, ed è “Io”; e perciò non è possibile che Dio sia tre “Io”. La parola “Io” è un pronome con il quale l’uomo indica se stesso. Già questo ci dice che niente e nessuno può essere in se stesso più di un se stesso. Cartesio affermava57 che l’Io è una cosa che pensa, cioè che dubita, afferma, nega, concepisce, vuole oppure non vuole, sente e immagina; e tutte queste cose appartengono alla sua natura. L’Io è coscienza, unità e rapporto con se stesso e con gli altri, dunque è la persona, l’individuo-uomo. Un uomo è il suo stesso Io, che è uno. Così, se si vuole ricorrere all’analogia (che risulterebbe un po’ forzata anche di primo acchito), Dio – poiché non può essere più di un Io – deve essere uno (e non trino); deve essere uno e basta. Nessun “se stesso” può essere più di un “se stesso”, neppure Dio; perché nessuna persona può essere più di una persona.

64. Platone, Parmenide, 137 C - 137 D, traduzione di Maurizio Migliori, Rusconi Editore, Milano 1994, pag. 99.

65. Karl Jaspers, Introduzione alla filosofia, op. citata, cap. IV, pag. 74. Un po’ più avanti (a pag. 81) dice: «Sin dalle origini Dio è stato pensato nelle forme mondane, compresa quella della personalità, cioè per analogia all’uomo. Ognuna di queste immagini è una specie di velo. Dio non è ciò che, comunque, ci rappresentiamo con l’immaginazione».

66. John A. T. Robinson, But that I can’t believe!, London, 1967 [traduzione italiana, Questo non posso crederlo!, di Ugo Tolomei e Tania Gargiulo, Vallecchi editore, Firenze 1970].

67. Martin Lutero, Discorsi a tavola (& 3722), traduzione di Leandro Perini, Giulio Einaudi editore, Torino 1969, CDE Milano 1989, pag. 245.

68. Sul significato del termine “Cristo”:
Nel “libro” dell’Esodo, al cap. 29, è codificata la cerimonia di consacrazione (o di investitura) del sacerdote, che trova poi riscontro in altre parti della Scrittura. Ad un certo punto è detto: «Prenderai l’olio dell’unzione, glielo spanderai sul capo, e l’ungerai». In sostanza, nella Bibbia, il verbo “ungere” è sinonimo del verbo “consacrare”; e in ogni caso implica una scelta o elezione, da parte di Dio e del popolo. Così, anche i re erano unti in quanto eletti, ovvero eletti in quanto unti. E poiché gli eletti erano proclamati “Figli di Dio”, erano considerati adottati. Si tratta di una cerimonia sacra, come appare dal termine consacrare. Il prof. Giulio Busi in proposito scrive: «Anche nei passi [biblici] che commentano l’investitura dei re d’Israele compare del resto la chiara espressione della sacralità del gesto [di ungere]: nel caso dell’unzione di Davide da parte di Samuele l’autore biblico fa così riferimento allo spirito del Signore [di Dio] che s’impossessa del monarca: Allora Samuele prese il corno dell’olio e l’unse… E lo spirito del Signore [di Jhwh] s’impadronì di Davide da quel giorno in poi (I Sam. 16,22). L’utilizzo dell’olio segnava quindi non solo il conferimento di una speciale dignità ma anche una prossimità dell’unto alla sfera trascendente e pertanto una particolare tutela da parte del Signore [Iddio]»49. Ora, nelle lingue moderne “unto” è traduzione del termine ebraico māšîaḥ [messia], che nel greco a volte è messias e più spesso christós [Cristo], dal verbo chrio [ungere]. In sostanza “Messia” e “Cristo” sono sinonimi. Gesù di Nazareth è l’Unto di Dio, il Messia annunziato da Mosè e dai profeti.
Il Vangelo di Luca riferisce che Gesù, dopo il battesimo ricevuto da Giovanni il Battezzatore, nel fiume Giordano, in occasione della quale lo Spirito scese su di lui e si udì la voce dal cielo che diceva “tu sei il mio diletto Figlio [il Messia] in te mi sono compiaciuto” (3,22), si recò a Nazareth e, com’era solito fare nella sinagoga, alzatosi per leggere, gli fu posto il rotolo del profeta Isaia. Il Nazareno, apertolo, lesse il passo [61,1-2] dove è detto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me [“storicamente”: sul profeta Isaia]; perciò mi ha unto [mi ha proclamato “messia”] per evangelizzare i poveri; mi ha mandato ad annunziare la liberazione ai prigionieri, e ai ciechi il recupero della vista; a rimettere in libertà gli oppressi, e a proclamare l’anno accettevole del Signore» (Lc. 4,18-19). Quindi, rivolto ai presenti, aggiunse: «Oggi, si è adempiuta questa scrittura, che voi udite» (v. 21). Gesù, in occasione del suo battesimo, fu unto non di olio ma di Spirito. Il “libro” degli Atti, al cap. 10 parla della «storia di Gesù di Nazareth; come Dio lo ha unto di Spirito Santo e di potenza; e com’egli è andato dappertutto facendo del bene e guarendo tutti quelli che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (v. 38). Ecco chi è Gesù! Ѐ il Figlio di Dio, cioè il Cristo (il Messia)! L’Unto, l’Eletto, l’Adottato. Ѐ il Figliuolo dell’Uomo annunciato nel “libro” del profeta Daniele: il Re di un regno che durerà in eterno.

■ Non è il caso di esaminare in questa sede i pochi testi controversi e di dubbia autenticità dai quali si potrebbe pretendere (a torto o a ragione) di dedurre la divinità di Cristo. Ne citiamo solo uno, quello che i trinitari ritengono il più importante: Giovanni 10,30. «Io e il Padre siamo uno; ἐγὼ καὶ ὁ πατὴρ ἔν ἐσμεν». Domanda: perché il Padre e Cristo sono “uno”? La risposta la dà Gesù stesso: «Io non posso far nulla da me stesso… cerco non la mia propria volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato» (Giov. 5,30). Il Padre e Cristo sono “uno” perché tra loro due c’è lo stesso pensiero e la stessa azione, nel senso di uguale pensiero e uguale azione (perfetta comunione), e ciò perché Gesù esegue la volontà di Dio; egli sottopone la «sua propria volontà» a quella di Dio, come un vero profeta, anzi come il Profeta per eccellenza, il Messia. Si tratta, insomma, del fatto che tra il Messia e Dio c’è un rapporto simile (ma perfetto!) a quello che c’è (seppure imperfetto) tra un padre e il suo primogenito, che nella tradizione ebraica è l’erede, e si esige che sia l’esecutore della volontà del padre. In poche parole, Gesù si comporta da vero Erede, cioè da vero Messia in comunione con il Padre. L’unità di natura, che affermano i trinitari, non ha nulla a che vedere con tutto questo. Tanto è vero che nello stesso evangelo di Giovanni troviamo che Cristo dice che anche i discepoli tra loro devono essere “uno” come lui lo è con Dio (allo stesso modo!); e devono essere “uno” anche con Cristo; e altresì i discepoli, Gesù stesso e Dio (tutti assieme) devono essere “uno”. I testi che affermano questo sono chiari ed espliciti: Giovanni 17,11,21,22… Ora, è ovvio che questo non significa che i discepoli, Cristo e Dio sono o devono essere “uno” in modo consustanziale, cioè della stessa unica natura, la natura divina. Questi testi, così come Giovanni 10,30, esprimono, tutti, gli stessi concetti, con gli stessi termini e le stesse espressioni, e non esprimono (e non possono esprimere) in nessun caso una “unità consustanziale” con il Padre, con il Creatore; altrimenti dovremmo ammettere che oltre Cristo sarebbero Dio anche i discepoli.
«C’è un solo Dio, il Padre, dal quale sono tutte le cose [anche Cristo], e noi per la gloria sua; e un solo Signore, Gesù Cristo, mediante il quale sono [salve] tutte le cose…» (1 Cor. 8,6)…«dichiarato Figliuolo di Dio… mediante la sua risurrezione dai morti…» (Rom. 1,4). Dice Gesù rivolto al Padre: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo» (Giovanni 17,3). Solo il Padre, il Creatore, è Dio, il vero Dio. Gesù è colui che Dio ha mandato ad annunciare la Buona Novella al Mondo.
«Non esiste alcun indizio che Gesù si sia mai fatto credere un’incarnazione di Dio medesimo. Era questa un’idea profondamente estranea all’intelligenza giudaica… Anzi, sembra che talvolta Gesù adotti precauzioni per respingere una tale dottrina. L’accusa di farsi Dio, o l’uguale di Dio, nello stesso Vangelo [di Giovanni] è dipinta come una calunnia giudaica»: Ernesto Renan, Vita di Gesù, traduz. presso
Dall’Oglio editore, Milano 1962, pag. 136.
«La loro cristologia [dei primi cristiani] non intacca ancora lo stretto monoteismo israelita: perché se professano per il loro Maestro una venerazione che lo innalza al di sopra della [comune] condizione umana, essi sono ancora lontani dall’identificarlo con Dio»: Marcel Simon, I primi cristiani, traduz. Presso Garzanti Editore, Milano 1958, pag. 33.
L’appellativo «Figlio di Dio non comportava necessariamente che fosse considerato Dio allo stesso modo del Padre, ma, in termini giudaici, poteva indicare semplicemente la sua predilezione da parte di Dio…», perciò quando ancora Gesù non era considerato Dio, i primi seguaci potevano continuare ad essere Giudei: Edmondo Lupieri, Fra Gerusalemme e Roma, in: Storia del Cristianesimo, a cura di Giovanni Filoramo e Daniele Menozzi, Vol. I, alle pagine 8, 12, 93, Edizioni Laterza, Roma-Bari 1997.
«Anche se egli [Gesù] si è riconosciuto, esitando, come il messia, questi non è per Gesù che un uomo incaricato d’una missione divina, ma non diverso, per natura, dagli altri uomini… Il cristianesimo posteriore… ha in realtà rinunziato al monoteismo di Gesù facendo di Gesù stesso un Dio. Questo carattere si viene accentuando di mano in mano che il cristianesimo si apre alle influenze paganeggianti…»: Piero Martinetti, Gesù Cristo e il Cristianesimo, Casa Editrice Il Saggiatore, Milano 1964, pag. 359/360.

■ Nel corso dei secoli, i diversi dibattiti intorno alla Trinità hanno invaso anche il campo della filosofia (specialmente con Tommaso d’Aquino), ma sempre con “ragionamenti” viziati nelle premesse o nelle analogie. Uno dei cavalli di battaglia è stato il seguente: Anima e corpo formano, nell’unità della persona, una cosa sola, eppure non perdono le loro caratteristiche. Così le tre persone divine (Padre, Figlio e Spirito Santo) formano un solo Dio, senza perdere le proprie caratteristiche. Coloro che sostengono questa analogia dicono pure che l’anima è qualcosa di diverso dal corpo, è di natura “spirituale”, mentre il corpo lo definiscono di natura “materiale”; dicono che ci sono sostanzialmente due modi di essere della realtà immanente: lo “spirito” e la “materia”. Così balza evidente una contraddizione: si dice, prima, che la persona è una, ma poi si afferma che l’anima e il corpo non perdono le loro caratteristiche. In questo modo la persona risulta essere due realtà diverse (di natura diversa!) e non una; mentre è evidente che l’uomo è uno. Alexis Carrel scrive: «[il fisico e la psiche] sono immagini dello stesso oggetto [l’uomo]… di cui arbitrariamente ci siamo permessi di dividere le attività in fisiologiche e mentali» (L’uomo, questo sconosciuto, traduz. presso Bompiani Editore, Milano 195729, pag. 128). E sir Charles Sherrington afferma: «non conosciamo nessun esempio in cui la mente esiste senza la materia» (Le basi fisiche del pensiero, traduz. presso Giulio Einaudi editore, Torino 1953, pag. 109/110). E per quanto riguarda la teologia citiamo Oscar Cullmann, il quale scrive: Nel N.T. il concetto secondo il quale c’è l’uomo esteriore e l’uomo interiore è implicito, ma «ambedue sono essenzialmente complementari… L’uomo interiore senza l’uomo esteriore non ha reale esistenza indipendente» (Dalle fonti dell’Evangelo alla teologia cristiana, traduz. presso Editrice A.V.E., Roma 1971, pag. 205). La natura umana è “uomo” e non “corpo e anima”. Infatti, noi percepiamo l’unità, non le parti, perché la realtà è l’unità, e l’unità è la “sostanza” (in questo caso: “sostanza-uomo”); mentre le “parti” sono potenza: a malapena le intuiamo, per astrazione, senza essere sicuri della loro esistenza, comunque concepita. Perciò non è vero che l’essere umano esprime un concetto analogo a quello della Trinità. Per poterlo affermare dovremmo avere da una parte conoscenza certa della Trinità, e dall’altra conoscenza certa delle “parti” dell’uomo, o almeno conoscenza certa di una delle due cose; ma ciò ovviamente non è possibile, per questo il ricorso all’analogia risulta errato, o per lo meno assai incerto. Noi parliamo arbitrariamente di “materia” e “spirito”, di “corpo” e “anima”; concetti di cui non abbiamo nessuna conoscenza reale di ciò che esprimono come di cosa in sé, perché ovviamente non sono mai in sé; per quanto riguarda il nostro discorso, le ricaviamo dall’uomo per astrazione, e in ogni caso l’uomo è uno (una persona), non è due o tre persone. Il corpo in sé, senza l’essenza (o anima) non esiste perché è un’altra cosa: è cadavere (se qualcuno ha “visto” un corpo che cammina, che parla, che pensa, ma senza anima, senza essenza [appunto un corpo in sé], si faccia avanti); l’essenza in sé, senza ciò di cui è essenza non ha realtà, non esiste. Perciò, le astrazioni per dimostrare la validità di altre astrazioni non sono lecite. Quando pensiamo, o supponiamo, o immaginiamo, di vedere un corpo vivente che cammina, che parla, che pensa…, non si tratta effettivamente di un corpo, ma di una persona. La persona (al di là di ogni definizione astratta) coincide con l’uomo, è l’uomo in carne ed ossa che pensa, che parla, che ha sentimento…, che ha coscienza di sé e che relaziona con se stesso e col mondo che lo circonda. E l’uomo è uno, non è trino; uno è l’uomo, una è la persona. Tre persone in una persona (in una essenza) è un’assurdità. Nulla è analogo alla Trinità, perché la Trinità è impossibile, è contro ragione. Il corpo (vivente) è realtà in quanto è in unità con l’essenza (o anima); e l’anima (o essenza) è realtà in quanto è in unità con il corpo: sono reali nel composto, non separatamente; la loro realtà singola è espressa da altro da sé, cioè dall’unità “uomo”, che non è né essenza né materia, né anima né corpo: è “uomo”. Corpo e anima separati non esistono: il corpo separato dall’anima è cadavere, l’anima separata dal corpo è morta; o meglio: con la morte dell’unità “uomo” muore la persona. Perciò Gesù Cristo, e tutto il N.T., parlano di resurrezione dei morti e non della “vita” dell’anima dopo la morte. Aristotele sintetizza questo discorso (del corpo e dell’anima) dicendo (salvo, poi, a contraddirsi) che l’anima è l’essenza di un determinato corpo, e che l’essenza di una cosa è la cosa stessa; perché la “cosa” è composta, appunto unità (L’Anima, 412b 15, traduz. presso Rusconi Libri, Milano 1996, pag. 117; Metafisica, Libro VII, cap. 6, idem 1993, pag. 305 ss.). Ma, a differenza dell’uomo, Dio non è composto e quindi non è unità: è semplicemente “uno” e “unico”: il Semplice fuori di ogni composto. Se Dio è Unico, il Semplice fuori di ogni composto, nulla esiste di analogo a Dio. Quando si crede di aver trovato qualcosa di analogo per spiegare la natura di Dio (o per dimostrare che il concetto di Trinità è possibile, che non contraddice la ragione) si commette un grave errore, ponendo una premessa che in ogni caso è inadeguata e, a volte, è un vero e proprio errore. Perciò, Dio dice per bocca del profeta Isaia: «A chi mi vorreste assomigliare?...» (40,25). Nell’unità, non avviene mai in natura che le “parti” che la compongono (che sono in essa, non fuori) conservino le loro caratteristiche: l’idrogeno e l’ossigeno nel composto “acqua” (unità) perdono le loro caratteristiche, non sono né idrogeno né ossigeno, sono acqua; sono nel composto acqua ma con le caratteristiche dell’acqua, perché si tratta appunto di un composto, mentre Dio non è composto. Ammesso e non concesso che l’analogia, posta dai trinitari, abbia un qualche valore, che sia vero che l’anima e il corpo, pur formando una sola persona, non perdono le loro caratteristiche, che cioè rimangono “distinti”, che ciascuno rimane ciò che è [incredibile!], ciò sarebbe così perché l’uomo è composto (ma non è un miscuglio, né una somma; è, appunto, un “composto”, cioè unità); Dio invece è “semplice”; e “semplice” è il contrario di “composto”. Dov’è l’analogia? Non c’è affatto! L’esempio dell’essere umano, dell’uomo, non soltanto non dimostra che la Trinità è possibile, ma dimostra il contrario: che la Trinità è impossibile, perché Dio è Semplice, egli non è (o non ha) essenza e persona (come se l’essenza e la persona fossero due cose diverse e separate), bensì è una sola cosa che possiamo chiamare essenza, oppure persona [ipostasi o prosopon], o con altro termine (non importa), ma non possiamo adoperare distintamente più termini sinonimi come se fossero cose diverse, o come se implicassero una pluralità di realtà; talché, per quanto riguarda Dio, l’ipostasi sarebbe una cosa e prosopon un’altra: l’ipostasi sarebbe l’essenza divina, prosopon sarebbero le persone; è falso! Ed è contro ragione inserire la pluralità nell’Uno. Dell’uomo possiamo dire (per astrazione, e sia pur impropriamente) che è anima, corpo, ecc., ma non possiamo dire di Dio qualcosa di simile, perché Dio non è composto. I sostenitori della dottrina trinitaria affermano una cosa inaccettabile: che le tre persone (prosopon) sono la stessa ipostasi, che è l’essenza divina, una e indivisibile; che perciò formano un solo Dio quanto alla “natura”. Rispondiamo: se in Dio prosopon si identifica e coincide con l’ipostasi, poiché quest’ultima è una e indivisibile, una è anche la persona. Del resto, anche nella religione pagana gli dèi erano l’essenza divina, una e indivisibile; basta leggere gli scritti dei filosofi pagani che se ne sono occupati, particolarmente quelli di Plotino, per rendersene conto. Quest’ultimo, nelle Enneadi ha compiuto evidenti acrobazie per giustificare le contraddizioni in termini in cui è incorso, perché non si può trasformare l’Uno in Unità senza cadere in contraddizione. La dottrina di Plotino implica il politeismo; i cristiani, ammettendo la Trinità, non rischiano di cadere, appunto, nel politeismo? Sintetizzando: Poiché nel monoteismo Dio e la sua natura coincidono e si identificano (non si può parlare di “Dio” e di “sua natura” come se fossero due realtà), è evidente che se l’essenza (o “natura”) è una (come infatti è), e per questo è indivisibile, una è anche la persona, e non tre. John Locke scrisse: «[La filosofia giocò] la sua parte nel condurre gli uomini lontano dal vero significato della sacra Scrittura […] Nei secoli in cui il platonismo prevalse, coloro che, provenendo da questa scuola, si convertirono al cristianesimo, in ogni occasione interpretavano lo scritto sacro secondo le nozioni proprie di quella filosofia di cui erano imbevuti» (Saggio per la comprensione delle epistole di San Paolo, in: Scritti filosofici e religiosi, pag. 650, traduz. presso Rusconi Editore, Milano 1979). Nella Sacra Scrittura il concetto di “trinità”, sia per esplicito che per implicito, è assente, la concezione trinitaria di Dio è destituita anche del fondamento biblico. Questo significa, ampliando la visuale, che non c’è preesistenza di Cristo; egli esiste a partire dalla sua nascita in Palestina; e dopo la risurrezione si è “assiso alla destra di Dio”. Dagli studi di Karl-Josef Kuschel, teologo, esegeta e biblista, apprendiamo che la “preesistenza” (che alcuni pretendono di dedurre dal N.T.) nella concezione ebraica, e quindi in quella biblica, non implica una esistenza temporale e premondana, ma che la persona e l’opera di Gesù sono dovute interamente ad una iniziativa di Dio.
■ Cosicché anche la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova (che non accetta la dottrina trinitaria) ci sembra che, su questo punto, eluda la giusta interpretazione della Sacra Scrittura; perché questa congregazione afferma, ufficialmente, che il “Figlio di Dio” esisteva “in cielo”, come essere spirituale, prima della sua nascita a Beetlemme. Afferma che il Figlio è il primo degli esseri creati da Dio. Questa idea, di fatto, è una variante della dottrina trinitaria (al di là delle sottigliezze di ordine filosofico), perché ammette che il Padre (cioè il Creatore) ha un figlio unigenito, in senso proprio e letterale (incarnatosi poi in Gesù di Nazareth) il quale avrebbe collaborato con Dio (con il Padre) alla creazione del Mondo (sarebbe un dio minore?). Un essere spirituale, “creato” per primo, che a sua volta crea il Mondo (cioè gli altri esseri), non può che essere Dio. Insomma i Testimoni di Geova sono trinitari, ma non se ne rendono conto. ■
Sappiamo che l’itinerario del “Figlio di Dio” non è «cielo, terra, cielo» (concezione politeista!), bensì «terra, cielo» (cfr. il mio L’Ultimo Adamo, op. cit., § 48); il Figlio di Dio («l’Unigenito di Dio») nasce a Beetlemme, non nasce in cielo, non è il Figlio “incarnato”. L’Unigenito di Dio (il Messia) è nato a Beetlemme, ed è uomo, non è essere incarnato.
Si usa adoperare una metafora a proposito dei profeti di Dio: il profeta, in generale, “sale” e “scende” dal cielo; vi sale per conoscere, e scende per comunicare la conoscenza. Gesù, parlando con Nicodemo, fa uso di questa metafora. Egli, essendo il Profeta per eccellenza (il Messia atteso, il Figliuol dell’uomo), è salito in cielo (in senso metaforico) in modo speciale (ha avuto il massimo della conoscenza), talché si può dire che solo lui vi è salito, e disceso (dopo esservi salito) per portare la conoscenza di Dio (cfr. Giov. Cap. 3 e il commento nel mio L’Ultimo Adamo al § 48). E, fuori di questa metafora (vale a dire con un’altra metafora, ma parallela), vi è salito alla risurrezione, e ridiscenderà alla parusia (Atti 1,11; 1 Tess. 4,15-18).
Sul significato del termine “Messia” si veda la relativa voce in: Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti editore, Milano 1993.
Il tema della “natura” di Cristo, che riguarda da vicino la dottrina trinitaria, è approfondito e trattato al completo, dal punto di vista della teologia biblica e dal punto di vista filosofico, in: Matteo Manzella, L’Ultimo Adamo, op. citata.

Dunque, come deve intendersi il testo “trinitario” di Matteo 28,19, nel quale Gesù ordina ai discepoli di battezzare nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo?
Ecco il testo. Gesù parlò ai discepoli dicendo: «Andate dunque, ammaestrate tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Diciamo subito che questo è l’unico testo, in tutto il N.T., nel quale il Padre, il Figlio, e lo Spirito Santo si trovano nella stessa formula. Poiché vi si trovano assieme, la formula fu detta trinitaria (ovviamente dai trinitari). Per il fatto che nelle altre formule, battesimali e non, i tre termini non si trovano mai assieme tutte e tre, e altresì per il fatto che il battesimo, come risulta dal Nuovo Testamento, veniva impartito semplicemente nel nome di Gesù, l’autenticità del testo in questione risulta molto dubbia. Anzi, è quasi certo che si tratta di una aggiunta di un copista trinitario. Lo storico Marcel Simon scrive: «Non è possibile credere al passo finale di Matteo, in cui Gesù ordina ai propri discepoli di battezzare tutte le nazioni “in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Questa formula trinitaria, inattesa nella sua bocca, è in realtà totalmente ignorata dalla generazione apostolica» (I primi cristiani, traduz. presso Garzanti Editore, Milano 1958, pag. 79). I trinitari, in sentesi, affermano che in questo testo le tre “persone” della Trinità sono accomunate in un unico nome (il nome di Dio?). Affermazione assurda che si commenta da sé, dato che i nomi sono tre.
Nel nostro trattato intitolato L’Ultimo Adamo abbiamo dimostrato che il testo è un’aggiunta. Se non è un’aggiunta, le tre “persone” ivi accomunate non per questo sono Dio tutte e tre o, più precisamente, un solo Dio. L’espressione in italiano, ma anche in qualsiasi altra lingua (compreso l’originale greco), non implica che le tre “persone” siano accomunate in un unico nome (accomunate sì, ma non in un unico nome, bensì nella stessa azione); e solo il nome esprime l’essenza (e nel nostro caso solo Colui che è espresso dal nome “Padre” è di essenza divina, perché è Dio stesso: Giov. 17,3). I nomi sono espressi per esplicito, e sono tre, e non uno solo. Non si sarebbe potuto dire (anche se i trinitari affermano di si nel Catechismo cattolico: Art. 233) “nei nomi del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, perché si dice sempre “nel nome”, anche con riferimento a un plurale. Una forma letteraria ipoteticamente cosiffatta (…nei nomi...) non esiste in nessuna lingua. Il nome che identifica la persona è certamente uno, ma qui uno per ogni persona (tre nomi): “Padre”, “Figlio”, “Spirito”, tre persone. Il significato del testo perciò deve essere quello letterale, quello che risulta di primo acchito, perché in ogni caso la proposizione si sarebbe dovuta esprimere come è espressa. Il significato, infatti, deve essere ed è il seguente: nel nome del Padre, nel nome del Figlio e nel nome dello Spirito Santo (tre nomi, tre essenze; di cui: una è divina, una è umana, una è pneuma o ruah) ; che in maniera più snella (evitando di ripetere nel nome del) si esprime correttamente nella forma che troviamo nel testo in questione. Dire: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, significa dire nel nome di ciascuno dei tre (ciascuno con il suo proprio nome!) e non di un solo nome. Sfidiamo chiunque a dimostrare il contrario. Non si può arguire che se si fosse detto “nei nomi” (al plurale) non ci sarebbe stato nessun contenuto trinitario; mentre, poiché è detto “nel nome” (al singolare) il contenuto è trinitario. Assolutamente no! Si sarebbe dovuto dire in ogni caso come effettivamente si è detto nel testo, perché questa espressione letteraria (se si vuol parlare o scrivere in modo corretto) è obbligatoria così com’è, sia per il significato sostenuto dai trinitari, sia per il significato sostenuto dagli antitrinitari. Pertanto le ragioni sostenute dai trinitari sono perlomeno insufficienti, e sanno troppo del senno di poi. In realtà sono il frutto di un errore linguistico insito nel loro pregiudizio. E poiché la dottrina trinitaria è assente nella Sacra Scrittura, sia per implicito che per esplicito, è destituita di ogni fondamento, di ragione e di fede biblica. Aggiungiamo infine che se fosse esatta l’interpretazione trinitaria di questo testo, dovremmo concludere che non è autentico; perché comporterebbe una tale finezza di espressione (quasi una capziosità) e un concetto proprio del senno di poi che ci imporrebbero di spostare la sua “nascita” di almeno duecento anni rispetto alla redazione di Matteo. Ha ragione lo storico Simon quando dice che l’espressione di questa formula è inattesa nella bocca di Gesù.
Per l’argomento completo si veda il nostro trattato già citato.
L’apostolo Paolo dice che Dio, per salvare l’uomo ha mandato il suo Figliuolo (il Messia) «simile [uguale] a carne di peccato» (Rom. 8,3). Il termine “simile” è qui usato nel senso di “uguale”, come quando si dice che il corpo di Francesco è simile a quello di Roberto o a quello di tutti gli uomini, cioè sostanzialmente “uguale”. Infatti il termine greco ὁμοῖos (nel testo: ὁμoiώματι), dizionario greco alla mano, può significare sia uguale che simile. E’ evidente che Paolo vuole dire che il corpo di Gesù era sostanzialmente uguale a quello di tutti gli uomini [Cristo è il Secondo Adamo], insomma che era vero uomo, mortale come tutti i discendenti di Adamo. Perciò poté morire (l’immortale non può morire). Solo il corpo spirituale è immortale, vale a dire il corpo della risurrezione (e nel N.T. “corpo” è equivalente a “persona”). Cristo è il primo dei risorti, perché è l’unico uomo (il secondo Adamo, “figlio” del primo: Luca 3,38) che non ha conosciuto peccato (2 Cor. 5,21/a). La sua risurrezione mette in evidenza che egli è il Vittorioso e che ciò è garanzia della salvezza dei credenti e di tutti gli uomini (cfr.1 Corinti 15,13-22; 1 Tess. 4,13-18). Cfr. L’Ultimo Adamo, op. citata, cap. III.

69. Cfr. Matteo Manzella, Adamo paradigma di Gesù Cristo (eBook su CD), Roma, 2008; Idem, L’Ultimo Adamo, op. citata.

70. Si tratta del testo di Matteo 28,19. E′ una formula battesimale, molto discussa e spesso contestata. L’interpetrazione trinitaria è basata sulla congiunzione “e”; congiunzione che pur distinguendo le tre “persone” (diciamo “tre” ammesso che lo Spirito si debba considerare una persona), allo stesso tempo le includerebbe in un solo nome (sottinteso? quale?). Vediamo il testo:

poreuthéntes oûn mathêteúsate pánta tà éthnê, baptízontes autoùs eis tò ónoma toû patròs kaì toû yioû kaì toû agíou pneúmatos...;

letteralmente: andate dunque, ammaestrate tutti i popoli, battezzandoli nel nome del padre e del figlio e dello spirito santo...

La “sottigliezza” alla quale i trinitari si appigliano è la seguente: Il nome [singolare e unico] a cui la formula battesimale si riferirebbe, è il nome di Dio [Jhwh ?], e questo nome sarebbe sia del Padre, sia del Figlio, sia dello Spirito Santo, accomunati nella stessa formula, quindi tutte e tre le “persone” sarebbero Dio [un unico Dio] dato che il nome di una cosa (a prescindere se si tratta di una persona o no) indica la sua essenza. Il testo infatti – dicono i trinitari – non dà l’ordine di battezzare nei nomi... (al plurale), bensì nel nome... (al singolare). Sennonché il testo non dice affatto questo, e non usa esplicitamente il corrispondente greco del termine italiano “sia” (e se per ipotesi lo usasse, si rafforzerebbe la nostra interpretazione), usa invece la congiunzione “e”. Del resto, in frasi di questo genere, in italiano (ma anche in altre lingue), non si direbbe mai «nei nomi». Un ipotetico lettore, anche attento ma privo di pregiudizi, che fosse all’oscuro dei problemi teologici che si dibattono su questo testo, lo comprenderebbe per quello che effettivamente dice; che cioè il battesimo va impartito sia nel nome del Padre, che in quello del Figlio, come in quello dello Spirito Santo; senza per questo dedurre che i tre sono un solo Dio. La congiunzione “e”, infatti, dato che ovviamente i nomi sono diversi non può significare che tutte e tre le “persone” hanno in comune un nome unico (Dio) che indicherebbe identità di natura, o che in ogni modo siano una stessa cosa; ma al contrario distingue, separa, dice che il battesimo va impartito nel nome di tutte e tre le “persone”, e almeno nella lingua italiana, questo significa “per ciascuna nel suo proprio nome”, nei loro tre rispettivi nomi, altrimenti non si capirebbe perché il testo usa i termini padre, figlio, spirito, cioè tre nomi che letteralmente indicano tre “persone”, vale a dire tre essenze. Quando dice “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, sta dicendo nel nome [nei nomi] di tutti e tre, per ciascuna “persona” il suo (così è nella lingua italiana!), e sarebbe grammaticalmente, se non sbagliato, certamente inusitato e pleonastico dire nei nomi (al plurale) del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo; per di più così potrebbe risultare che ciascuna delle tre persone avrebbe più di un nome. La congiunzione “e” (…e del Padre; e del Figlio; e dello Spirito) non unisce i tre nomi delle tre persone in un solo nome; anzi li separa, scandendoli, e stabilendo che la formula deve contenerli tutti e tre, altrimenti sarebbe bastato dire “nel nome di Dio”. Perciò ogni altra interpretazione basata sul nome o sui nomi è priva di fondamento perché, se non altro, l’espressione è ambigua. Non per niente la maggior parte dei traduttori omette le congiunzioni “e” (kaì) sostituendole con le virgole. Così la traduzione Nuova riveduta taglia corto: «Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (ciascuno col suo proprio esclusivo nome). Questo discorso, che è in corretto italiano, si potrebbe esprimere in parole povere come segue: nel nome del Padre, nel nome del Figlio e nel nome dello Spirito Santo. Ma volendo scrivere in modo più corretto, o più snello, si usa omettere la ripetizione dell’espressione “nel nome di”; basta la prima volta, e mai si potrebbe esprimere usando l’espressione “nei nomi” (al plurale). Certamente ci si può chiedere: se l’autore del testo avesse avuto in animo di esprimere propriamente un concetto trinitario, come avrebbe dovuto dire? Il concetto trinitario non appartiene al modo comune di pensare, che si possa esprimere con il comune linguaggio (tanto meno con quello biblico); esso appartiene al linguaggio filosofico, tecnico, che hanno forgiato gli stessi trinitari secoli dopo la redazione del Nuovo Testamento. Talché non possiamo ammettere in Matteo, né tanto meno in Gesù Cristo, una simile possibilità. Sicuramente Cristo non ha pronunciato la frase “... nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo”, sia pur nel corrispondente aramaico. Se dal punto di vista grammaticale i trinitari avessero ragione; se in questo testo il nome per il quale si impartisce il battesimo fosse un nome unico e sottinteso di tutte e tre le “persone”, potremmo concludere, senza ombra di dubbio, che il testo non sia autentico. Infatti, in questo caso rivelerebbe una tale sottigliezza di contenuto e una tale capziosità anacronistica, nella forma, da aumentare i sospetti circa la sua autenticità. Noi invece sosteniamo che in questo testo non c’è un nome unico e sottinteso, bensì tre nomi espressi (e quindi tre “persone” distinte e separate); questo è fuori dubbio. E’ evidente che si tratta di una aggiunta o di una manipolazione maldestra, quanto ingenua, di un trinitario in buona fede troppo zelante. Se poi si vuole affermare che ci sbagliamo, che il testo nonostante tutto è autentico (e non abbiamo difficoltà a concederlo), allora dobbiamo accettare l’interpretazione più ovvia, quella che tiene conto del fatto che, in varie lingue e in ogni caso, la congiunzione “e” serve ad unire o congiungere ciò che nella realtà è sostanzialmente (sostanzialmente!) separato: per cui il Padre, il Figlio, lo Spirito sono diversi, non sono uguali; non sono la stessa cosa, perché sono uniti nello stesso discorso dalla congiunzione “e”. Matteo 28,19 dice che il battesimo va impartito nel nome del Padre (il solo vero Dio: Giov. 17,3), nel nome del Figlio (cioè del Messia), nel nome dello Spirito (cioè dell’Agente divino, della Dýnamis, del Vento di Dio); vale a dire di ciascuno dei tre menzionati, ognuno tautologicamente con il proprio esclusivo nome, e quindi si tratta propriamente di tre separati: il Padre, il Messia, e il santo Ruah o Pneuma. Colui che salva è Dio (il Padre, il quale ha così deciso sovranamente); ma salva per mezzo del Figlio (il Messia elevato al rango e alla natura di Signore) e grazie all’illuminazione dello Spirito, strumento creatore e santificatore, immanente nell’uomo. Il fatto, dunque, che i tre nomi stiano accomunati in un’unica formula non ci autorizza affatto a dedurre alcunché di trinitario. Del resto, ognuno dei tre sta nell’ordine gerarchico che gli compete. Solo il Padre è Dio, e perciò nella formula precede il Figlio e lo Spirito; il Figlio è il Salvatore, colui a cui Dio ha dato ogni potestà (ma non è Dio); mentre lo Spirito è lo strumento di Dio, che opera anche e specialmente in Cristo e per Cristo: il Messia è ripieno di Spirito. Non ci sono appoggi trinitari nella Sacra Scrittura! Affermare che in questa formula battesimale ci sia quella “finezza” filosofica e teologica che vorrebbero i trinitari, significa perdere il senso della misura: ignorare il contesto culturale, dottrinale e storico nel quale sorse la fede cristiana e nel quale furono redatti gli scritti neotestamentari; nonché il corretto senso letterale del testo in questione. Gli storici affermano che certamente non c’è l’idea trinitaria nel cristianesimo primitivo. Dice Simon che nel Nuovo Testamento «La loro cristologia (dei primi cristiani) non intacca ancora lo stretto monoteismo israelita...»; essi sono ancora lontani dall’identificare il loro Maestro con Dio.
Fin qui, in questa nota, abbiamo esaminato la formula battesimale di Matteo 28,19 al fine di discutere il tema “Trinità o non Trinità”, sotto tre principali aspetti: 1) riguardo all’autenticità; 2) mettendo la virgola al posto della congiunzione “e”; oppure, al contrario, 3) esaltando il valore grammaticale proprio della congiunzione “e”. Ne è risultato che, da qualsiasi angolazione si possa esaminare il testo, non si trova in esso alcuna affermazione trinitaria. E, in via subordinata, qualora vi fosse una implicazione trinitaria, bisognerebbe concludere che proprio e soprattutto per questo il testo non sarebbe autentico, perché apparterrebbe certamente ad un’epoca posteriore, più o meno lontana o più o meno vicina alla redazione di Matteo, cioè ad un’epoca in cui cominciava a farsi strada l’idea trinitaria e si sentiva l’esigenza di trovare un appoggio nei vangeli e negli altri scritti cristiani che già circolavano nelle comunità, appoggio che non esisteva (e non esiste).
Ma allora, se non si può essere certi dell’autenticità del testo, qual è la vera formula del battesimo (che qui ci interessa ai fini trinitari)? Il Conzelmann, come altri autori, ammette che anticamente il battesimo era impartito nel nome di Gesù, e ciò perfino nel primo periodo del cristianesimo ellenistico (cfr. Hans Conselmann, Le origini del cristianesimo, Editrice Claudiana, Torino 1976). Il nostro discorso prosegue su questa strada. È ovvio pensare che la formula battesimale dovesse avere (almeno agli inizi) una qualche analogia, o un qualche legame, con la confessione di fede richiesta al battezzando. Secondo noi (e prima di noi secondo autorevolissimi critici ed esegeti) la più antica confessione di fede, o una delle più antiche, è la seguente: Io credo che Gesù [detto] Cristo è il Figliuol di Dio. Questo testo è contenuto al v. 37 del cap. 8 degli Atti che racconta l’episodio della conversione e del battesimo dell’etiope. Molti contestano l’autenticità del v. 37 (e quindi della confessione di fede) perché manca in molti importanti manoscritti. Ma è presente nel testo occidentale. Certamente quando il vers. 37 ci dice che l’etiope confessa che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, è come se avesse detto che Gesù Cristo è Cristo, dato che il termine “cristo” e l’espressione “figlio di Dio” sono sinonimi (Cfr. il mio L’Ultimo Adamo e la relativa bibliografia). Indubbiamente il termine divenne presto un secondo nome proprio di Gesù (già nel Nuovo Testamento); ma è anche vero che la confessione rassomiglia molto all’espressione apocrifa di Marco 1,1 («Principio dell’evangelo di Gesù Cristo [Figliuolo di Dio]») dove si direbbe, appunto, “Principio dell’evangelo di Gesù Cristo, Cristo”, e secondo noi anche per questo la confessione di fede attribuita all’etiope in Atti 8,37 può essere sospettata di inautenticità. Tuttavia resta il fatto che seppur si tratta dell’aggiunta di un copista, è stata fatta in epoca molto vicina alla redazione degli Atti e con cognizione di causa; l’espressione, come vedremo, è sostanzialmente conforme a tutto il Nuovo Testamento e perciò è verosimile in se stessa e non fa a pugni con il contesto, né immediato né più ampio. Inoltre, se il copista ha fatto questa aggiunta evidentemente questa era la confessione di fede richiesta ai battezzandi in quel momento. Il Cullmann la ammette come autentica, al punto che ipotizza che dai manoscritti nei quali il v. 37 è assente, potrebbe essere stata tolta perché non conforme alle altre confessioni di fede che intanto si erano, successivamente, affermate al di fuori del Nuovo Testamento (cfr. Oscar Cullmann, Le prime confessioni di fede cristiane, Centro Evangelico di Cultura, Roma 1948, pag. 18 nota compresa; Il battesimo dei bambini e la dottrina biblica del battesimo, in: Dalle fonti dell’Evangelo alla teologia cristiana, Editrice A.V.E., Roma 1971, pag. 183 ss. [Appendice]). Se la formula battesimale deve avere una analogia o un legame con la confessione di fede richiesta al battezzando, e se la confessione di fede è quella che afferma Gesù essere Figlio di Dio (cioè il Messia), allora la formula battesimale doveva significare che il battesimo si impartiva nel nome di Gesù Messia (in greco Cristo), o nell’equivalente Gesù Figlio di Dio. Dovremmo perciò trovare questa formula nel Nuovo Testamento; e se c’è, questa è la più antica, che è anche autentica. Già in Luca, l’evangelista riferisce che il Risorto profetizzava che le persone sarebbero state esortate al ravvedimento e che si sarebbe predicato il perdono dei peccati nel nome di Gesù Cristo, nel suo nome appunto (24,47). Infatti, in tutto il Nuovo Testamento, e soprattutto negli Atti, è evidente che tra i primi cristiani ogni azione (compreso il battesimo) era fatta o detta o annunciata o progettata o realizzata nel nome di Gesù Cristo. Citare i testi qui significherebbe trascrivere buona parte del Nuovo Testamento: tutta la vita cristiana, e non solo la liturgia (se così può definirsi), era improntata alla invocazione del nome di Gesù. Il lettore può rintracciare da sé i testi, eventualmente con l’aiuto di una chiave biblica; a noi basta ricordarne uno: «Pietro disse loro: Ravvedetevi, e ciascun di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo...» (Atti 2,38). Questa è la vera formula del battesimo, e con i testi alla mano e con un minimo di intuito si può ricostruire come segue. Il battezzatore, rivolto al battezzando, chiedeva: Credi tu in Gesù? Il battezzando rispondeva: Io credo che Gesù è il Figlio di Dio [il Cristo, il Messia]. Allora il battezzatore procedeva: Io ti battezzo nel nome di Gesù Cristo; e lo immergeva nell’acqua. Questa formula si accorda con gli avvenimenti, in generale, narrati nel Nuovo Testamento, perciò è assai credibile, e sicuramente verosimile, che l’etiope abbia confessato: «Io credo che Gesù è il Figliuolo di Dio» (dove “Figliuolo di Dio” equivale a “Messia”, in greco “Cristo”). E se questa è la confessione di fede, come noi sosteniamo, non ci sembra che possa avere avuto (o avere, oggi) un legame con la formula battesimale apocrifa, unica e sola, che inserisce di punto in bianco, come un meteorite caduto dal cielo, il Padre, il Figlio e lo Spirito in una stessa formula. La formula apocrifa nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, non soltanto non trova nessun appoggio nella Sacra Scrittura, né letterale né parallelo e neppure vagamente sostanziale, ma risulta anche un corpo estraneo nella teologia del Nuovo Testamento. La formula battesimale «Nel nome di Gesù Messia» è legata alla dichiarazione di fede del battezzando: «Io credo che Gesù è il Messia». Il filosofo e teologo John Locke ha dimostrato con una copiosa documentazione biblica che la predicazione dell’evangelo, nel primo cristianesimo, aveva come centro e scopo, convincere Ebrei e Gentili che Gesù di Nazareth è il Messia. E lo stesso si può dire di molti autori moderni e contemporanei. In Atti 9,22 leggiamo: «Saulo si fortificava sempre di più e confondeva i Giudei residenti a Damasco, dimostrando che Gesù è il Messia». E Filippo spiega all’etiope un passo messianico di Isaia [53,7-8], per dimostrare che il Messia di cui parla il profeta è venuto, e che è Gesù. Perciò la confessione di fede dell’etiope (Atti 8,37) è la logica conseguenza di questo discorso sul Messia: «Io credo che Gesù è il Figliuolo di Dio [cioè il Messia]». Cullmann afferma: Il problema formale della confessione di fede va risolto nella direzione dell’analoga formula battesimale (e viceversa), cioè del nome invocato sul battezzato; «In un solo testo (Matt. 28,19), tale nome è quello della Trinità [?!]; in tutti gli altri è quello del Cristo (Gal. 3,27; I Cor. 1,13; Atti 2,38; 8,16; 10,48; 19,5)»382. I testi citati dal Cullmann non lasciano alcuna incertezza: il battesimo era impartito nel nome di Gesù (e non nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo). Pertanto l’unico testo cosiddetto trinitario non è valido a dimostrare che la “fede trinitaria” era presente nella chiesa primitiva del Nuovo Testamento.