martedì 16 novembre 2010

SULL'AUTENTICITA' DI MATTEO CAPITOLO 16

Un capitolo del libro “Tu sei Pietro”, di Matteo Manzella
(ALL RIGHTS RESERVED - COPYRIGHT 2008 BY MATTEO MANZELLA – ROMA)

CAPITOLO TERZO.
SULL’AUTENTICITA’ DI MT. 16. OVVERO: CRITICA DEL TESTO.

Il problema.

Quando, spogliandoci di ogni preconcetto e di ogni convinzione di fede, cominciamo ad esaminare il testo di Mt. 16 dal punto di vista storico, meglio ancora dal problema dell’autenticità, anche prescindendo dall’identità dell’autore, ci imbattiamo subito in numerose difficoltà che ci costringono a focalizzare l’attenzione soltanto sui punti e sulle questioni essenziali sufficienti a determinare il giudizio di autenticità o di inautenticità. Faremo questo. In ogni caso, qui mettiamo da parte il metodo e i presupposti di cui fin qui ci siamo serviti, nonché tutto ciò che abbiamo puntualizzato, e finanche le conclusioni a cui siamo giunti, ovviamente sempre dal nostro punto di vista, per passare a verificare l’autenticità del testo che avevamo accettato come autentico.
Vi sono motivi di vario genere. Alcuni di ordine psicologico o intuitivo, altri chiaramente di ordine oggettivo, o quasi. Per gli uni e per gli altri è necessario un impegno che ci porti a unificare i vari punti in un tutto logico e conclusivo.
Per primo il motivo psicologico. Chiunque abbia un bagaglio, anche minimo, di studi neotestamentari e l’abitudine coltivata almeno per un certo tempo a leggere il N.T., rimane quanto meno perplesso alla lettura di questo brano di Matteo, se è animato da spirito indipendente. Per un lettore consumato degli evangeli, è inverosimile che qui, in Mt. 16, Gesù chieda ai suoi discepoli delle informazioni su chi o che cosa sia il Figliuolo dell’Uomo, anche se vogliamo considerare retoriche quelle domande del Maestro. Si ha l’impressione che l’autore del Vangelo, o almeno del brano in questione o di chi avrebbe operato l’aggiunta (se di questo si tratta), per un suo particolare motivo (quale?) abbia voluto trovare un pretesto per inserire lì, artificiosamente, un discorso di Gesù di Nazareth che stentiamo a credere che sia stato pronunciato proprio da Gesù. Ci domandiamo: perché l’autore ci racconta (v. 13), quasi con l’aria di non curanza, come per caso, che in quella occasione Gesù e i discepoli si trovavano a Cesarea di Filippo? Che anche gli altri evangelisti facciano più o meno la stessa cosa, non muta la nostra domanda. Cosa importa al lettore (o ai posteri) il luogo geografico nel quale si trovavano in quella circostanza, salvo che il discorso non abbia per oggetto quel luogo stesso? In questo caso non c’è nessuna relazione tra il luogo e il tema del discorso. È evidente che qui l’autore cita un riscontro storico-temporale che sembra motivato dall’esigenza di dare o di aggiungere credibilità al racconto; come se volesse mettere le mani avanti per prevenire ogni abiezione (“ricordo bene, non mi sbaglio, eravamo a Cesarea di Filippo…”). Si dirà: erano in un luogo come in un altro; quel discorso, quelle parole, Gesù le avrebbe potuto dire in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento, e le ha dette lì per caso. Tuttavia, di questo non ne siamo molto convinti. Vero è che a detta di molti studiosi e di molti commentatori il Vangelo di Matteo sarebbe una raccolta dei detti e dei discorsi di Gesù che l’evangelista avrebbe raccolto e sistemato in un unico “libro” secondo un suo punto di vista o secondo i suoi ricordi, e citare luoghi e circostanze potrebbe servire a collegare in qualche modo i vari episodi.
Ma se si leggono i brani precedenti e i brani seguenti si ha comunque la sensazione (solo una sensazione, ma chiara e forte) che questo brano sia proprio fuori posto, messo lì come di qualcosa di estraneo al quale per altro si vuole assegnare il crisma dell’autenticità. E che dire del Maestro che si informa dai suoi scolari? Perché Cristo ha bisogno di udire nuovamente dai suoi discepoli ch’essi credono che egli è il Messia, il Figliuolo dell’Uomo? Questa professione di fede ciascuno dei discepoli l’aveva già espressa (vuoi mentalmente vuoi esplicitamente, non importa; comunque per convinzione) al momento in cui aveva accettato di seguire Gesù; e non aveva mai avuto il divieto del Maestro di «dire ad alcuno ch’egli era il Cristo». La sequela di Cristo ha come presupposto essenziale che il seguace di Gesù abbia ovviamente riconosciuto il Maestro come Messia. Così è infatti.
Ci sono alcuni versetti dei vangeli dai quali apprendiamo che i seguaci di Gesù (coloro che lo seguivano, sia in senso letterale, sia in senso metaforico) lo seguivano perché lo avevano accettato come Figlio di Dio, cioè come Messia, per esplicito o per implicito; e spesso è Gesù stesso che esorta i credenti a seguirlo. Ne citiamo tre: Giovanni 1,41: «Andrea pel primo trovò il proprio fratello Simone [Pietro] e gli disse: Abbiamo trovato il Messia (che, interpretato, vuol dire: Cristo) e lo condusse da Gesù». Marco 1,17-18: «Gesù disse loro [a Simone e Andrea]: “Seguitemi, e io farò di voi dei pescatori di uomini”. Essi lasciate subito le reti lo seguirono». Giovanni 1,45,49: «Filippo trovò Natanaele, e gli disse: Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella legge ed i profeti: Gesù figliuolo di Giuseppe, da Nazareth… Natanaele [disse a Gesù]: Maestro, tu sei il Figliuolo di Dio, tu sei il Re d’Israele».
La considerazione fin qui fatta è di ordine psicologico e perciò è in buona parte soggettiva, e tuttavia sembra indicarci una meta. Passiamo allora ad altre considerazioni che ci avviano ulteriormente verso una più sicura obiettività e in seguito verso una conclusione oggettiva. Lo faremo consultando in special modo i quattro vangeli, soprattutto i sinottici, perché la “confessione di Pietro” (e degli Apostoli) la troviamo anche negli altri vangeli, ma è assai diversa, ed anche più breve, rispetto a quella contenuta nel vangelo di Matteo.

1. Quale concezione della Chiesa troviamo in Matteo 16?
Il termine chiesa (ἐκκλησία, assemblea) negli evangeli si trova tre volte, e tutte e tre in Matteo e in due sole occasioni: in 16,18 e in 18,17. Gli altri evangeli ignorano il termine. Ora considerando che il secondo luogo (18,17) sicuramente si riferisce alla chiesa già fondata, sorretta da una organizzazione sia pur minima, certamente quelle parole non furono pronunciate da Gesù, e il testo emana un forte odore di interpolazione; in via subordinata dobbiamo ammettere almeno che ha subìto una modifica da parte di uno o più copisti. Il suo parallelo di Luca 17,3 (certamente più antico) non parla affatto di “chiesa”. Per questo motivo il secondo testo di Matteo non può prendersi a sostegno dell’esistenza di una chiesa ai tempi della predicazione di Gesù, né tanto meno per ricavare una definizione della chiesa del Cristo o per stabilirne una chiara connotazione. In definitiva il termine, nei quattro vangeli, si trova una sola volta, nella quale però Gesù afferma che fonderà la sua chiesa, mentre non si può dedurre che l’abbia fondata; se lo ha fatto, non lo ha fatto in quel momento. La chiesa non è stata fondata a Cesarea di Filippo. Tutto questo ci mette di già in guardia, ci invita ad approfondire l’argomento. Com’è possibile che ciò che oggi costituisce la “forma” fondamentale del Cristianesimo sia pressoché assente dagli evangeli?
Ci domandiamo pertanto: qual è il significato del termine “ẻkklēsía”? Con questa parola, nelle colonie greche dell’Asia Minore (VII sec. a.C.) e nella stessa Grecia (VI sec.), si indicava l’assemblea del popolo, il δῆμος [il popolo che agisce congiuntamente]. Il significato originario pertanto è politico, indicava l’organo deliberativo in una democrazia. Ora, sebbene questo significato abbia qualche analogia (sia pur alla lontana) con le sinagoghe dell’età apostolica, e queste a loro volta qualche analogia (ugualmente alla lontana) con la chiesa come noi la pensiamo oggi, sicuramente il termine “ẻkklēsía” che troviamo in Mt. 16 non può avere formalmente lo stesso identico significato che aveva nell’antica Grecia, né tanto meno esattamente quello che ha per i cristiani di oggi. L’ẻkklēsía, qui (in Mt. 16), ma anche in altri ambiti delle origini cristiane, a partire dal N.T., non è la sinagoga, non è l’assemblea del popolo dell’antica Grecia, non è la chiesa di oggi (o le chiese, le confessioni, le denominazioni), e soprattutto non corrisponde alla concezione che se ne ha nella teologia cattolica romana per la quale a noi ci risulta diversa.
Gesù e gli apostoli parlavano aramaico e non greco. Ora sembra provato che è possibile che Gesù abbia pronunciato in aramaico un termine in qualche misura equivalente al termine assemblea. Affermazione che ci sentiamo di condividere. Per il significato nell’ambito delle origini cristiane in generale, il termine non fu ricavato direttamente dalla democrazia greca, ma dall’Antico Testamento nella traduzione greca detta dei LXX, dove leggiamo l’espressione: assemblea [congregazione, adunanza] «del Signore» (Deut. 9,10; 18,16; 23,2 ss.; 1 Re 8,65; Mich. 2,5); e dove «Signore» è sostitutivo del nome di Dio [JHWH] la cui pronuncia potrebbe essere sia Jheovah (o Geova) e sia Yahweh (o Iahvéh) a seconda della scuola di appartenenza dei biblisti che ce la propongono: quella di origine tedesca che ha scelto soprattutto Jheovah, e quella di origine statunitense che ha scelto soprattutto Yahweh. In ogni caso, sia per Gesù che per gli altri ambiti del N.T., il concetto di popolo (almeno questo, ma qui “popolo di Dio”) è contenuto in ogni accezione del termine “chiesa”, e risale implicitamente alla cultura dell’antica Grecia.
Che cosa, dunque, si proponeva Cristo di fondare o di radunare, più precisamente? Il popolo di Dio? C’era già. Il popolo di Israele era il popolo di Dio. Se ci riferiamo alla lingua di Gesù, è quasi sicuro ch’egli abbia parlato di Keništaʹ, che è un termine che indica sia una comunità giudaica locale, e sia il “resto messianico”, nel senso del «resto messianico d’Israele» al quale, secondo la tradizione ebraica, si unirebbero anche i pagani. Insomma, quando Gesù parla di “chiesa” sta parlando del resto messianico, che non ha nulla a che vedere con la chiesa come la intendiamo oggi. Tuttavia, anche se il concetto di Keništaʹ non ha quasi nulla della chiesa di oggi, possiamo ammettere ch’esso possa rappresentare un inizio, un principio che attende dei legittimi sviluppi, cosa che prenderà il via alla risurrezione di Cristo; e saranno sviluppi (anche quelli!) che poco avranno a che vedere con la concezione della chiesa che si è andata determinando pressappoco dalla seconda metà del primo secolo e in quelli successivi; e soprattutto nulla hanno a che vedere con i pretesi “sviluppi” che troviamo oggi nella teologia cattolica romana. Il resto messianico è il popolo del Messia, ed il Messia è Gesù di Nazareth. Perciò il “resto” di cui egli parla è il “suo resto”, «la mia chiesa». E perciò era naturale che alla risurrezione del Messia subentrasse una più numerosa e più chiara realtà della Keništaʹ di Gesù, che questa prendesse coscienza di sé e dei suoi compiti e provvedesse quindi a darsi un minimo di organizzazione che fosse conforme ai principi della predicazione di Cristo. Così è stato. Ma, tuttavia, siamo ancora lontani, anzi lontanissimi, dalla concezione di “chiesa” che abbiamo oggi.
Inoltre, il concetto di “resto messianico” nel linguaggio di Gesù, nei vangeli, ha il suo equivalente nell’altra espressione da lui adoperata, dove la parola “resto” richiama alla mente la parola “piccolo”: è l’espressione “piccolo gregge” o semplicemente “il gregge”. E quest’ultima ci sembra la metafora più adatta a connotare l’idea nazarena di chiesa, o meglio di Keništaʹ: Matteo 26,23; Luca 12,32, ecc. Il “gregge” è il «popolo (o l’assemblea) di Dio».
Questa metafora, o questo concetto forte e ricco di varie implicazioni, determinerà l’ufficio più importante nello “sviluppo” della chiesa a partire dalla risurrezione di Cristo, o poco dopo: è il “ministero” di vescovo (pastore = ποιμαίνω, pastore di pecore, colui che ha cura del gregge ) che i credenti della chiesa primitiva istituiranno a sostegno delle comunità cristiane accanto a quello di “presbýtero” (anziano), facendone derivare l’idea, a ragione, da Cristo stesso.
Ma si badi bene: il vescovo, il pastore (il guardiano e protettore del gregge), è generalmente un successore cronologico degli Apostoli, ma non lo è propriamente nel senso affermato dalla teologia cattolica romana; può ereditare dagli Apostoli il carisma (come i presbiteri) ma non può ereditare la funzione di fondatore della Chiesa con Cristo e di testimone oculare ed auricolare. La funzione propria degli Apostoli cessa con la morte degli Apostoli stessi (cfr. cap. II). Il pastore non è neppure un sacerdote (o almeno non lo era inizialmente, e per un bel po’ di tempo): non ci sono sacerdoti nella chiesa di Dio, tranne Cristo. Forse, inizialmente, qualcuno dei pastori apparteneva alla cerchia di coloro che, come Mattia, avevano visto e udito. Ma gli altri, nel tempo, fino ad oggi, non hanno né visto né udito: non sono Apostoli.
Alle origini, il pastore (o vescovo) è l’emanazione della chiesa locale, quella di cui è guardiano; la quale è il corpo di Cristo, come lo è la chiesa universale. Il pastore è l’espressione della fede dei credenti guidati dallo spirito di Cristo. Non è il pastore a dare realtà e legittimità alla chiesa; al contrario, è la chiesa guidata dallo Spirito a legittimare il pastore. I credenti, riuniti in Assemblea, dal basso, possono destituire il pastore se diviene indegno.
Per questo in molte confessioni protestanti di ieri e di oggi il pastore è eletto dalla chiesa locale, ne è l’espressione, ma allo stesso tempo è il guardiano di quella fede che la chiesa esprime. Non è il rappresentante di Cristo (o almeno non lo è più di quanto lo siano gli altri cristiani), ma della chiesa nel suo insieme, che è il corpo di Cristo. Comunque sia, ritornando al nostro discorso, poiché Gesù parla di “piccolo gregge” se ne deduce che deve esserci un pastore: Gesù è il Pastore; ma non un pastore eletto dalla Chiesa, bensì il Sommo Pastore come pietra angolare: il fondamento (1 Pietro 5,4; Efes. 2,20).
Se Cristo ci dice che la Keništaʹ è “gregge”, allora il Capo della Keništaʹ è “pastore”: Cristo è il Buon Pastore, Colui che mette la sua vita per le pecore, il Capo della Chiesa (Giov. Cap. 10; Ebr. 13,20; ecc.; Efesi 1,22; Col. 1,18; ecc.). Oggi diciamo, giustamente, che la chiesa prende corpo da Cristo, e il pastore della comunità locale prende corpo dalla chiesa locale. Così il conduttore della comunità locale, che nella chiesa primitiva [ma anche oggi, nelle chiese che si rifanno alla Riforma] prendeva di più da Cristo, era il pastore, il guardiano del “gregge”. È chiaro che tra le parole di Gesù in Mt. 16, sulla base di quanto abbiamo detto, si sono introdotte degli elementi estranei: parole che Cristo non ha pronunciato e che gli sono state attribuite col senno di poi. Qui non staremo a spaccare il capello per distinguere esattamente, ammesso che fosse possibile, quelle pronunciate da Gesù da quelle che gli sono state attribuite. Ma cercheremo di cogliere il senso complessivo del suo discorso (ovviamente in italiano), depurato secondo il nostro punto di vista dalle aggiunte dei copisti desiderosi di mettere in bocca a Cristo le loro personali idee.
«Gesù chiese ai suoi discepoli di dire esplicitamente chi credevano ch’egli fosse. Simon Pietro rispondendo disse: Tu sei il Messia, il Figliuolo del Dio vivente. E Gesù, replicando, gli disse: Tu sei beato, o Simone, figliuolo di Giona, perché non la carne e il sangue t’hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli. Su questa professione di fede, tua e degli altri credenti, che è forte come un macigno, come una roccia imbattibile e che tale ti rende, io edificherò la mia assemblea (la mia Keništaʹ) e le porte dell’Ades non la potranno abbattere, come la tempesta non può abbattere una casa sulla roccia. Poi rivolto a tutti i suoi discepoli, aggiunse: non dite ad alcuno che io sono il Messia; dovrò andare a Gerusalemme, a soffrire molte cose dagli anziani, dai capi sacerdoti e dagli scribi, ed essere ucciso, e risuscitare il terzo giorno. E Pietro: questo non ti accadrà mai. E Gesù: Vattene via da me, Satana, tu mi sei di scandalo; non hai il senso delle cose di Dio ma delle cose degli uomini».
Originariamente il testo di Mt. 16 era così? Non sappiamo. Forse era anche molto più breve. Ma è evidente che in questa forma rappresenta una ipotesi accettabile o quasi, specialmente alla luce di quanto abbiamo detto. Mentre nella forma in cui si trova in Matteo, è assolutamente incredibile, anche per l’occhio di un profano. Vediamo allora perché, secondo noi, non sono accettabili quelle parti di Matteo che qui sopra abbiamo omesso, e quelle che abbiamo modificato.

2. Confronto del testo di Matteo con i testi di Marco, Luca e Giovanni.
Vediamo prima di tutto che cosa dicono gli altri due sinottici e il “quarto” vangelo.
a) Marco 8,27-33: «Poi Gesù, coi suoi discepoli se ne andò verso le borgate di Cesarea di Filippo; e cammin facendo domandò ai suoi discepoli: Chi dice la gente ch’io sia? Ed essi risposero: Gli uni, Giovanni Battista; altri, Elia; ed altri, uno dei profeti. Ed egli domandò loro: E voi, chi dite ch’io sia? E Pietro rispose: Tu sei il Cristo. Ed egli vietò loro severamente di dire ciò di lui ad alcuno. Poi cominciò ad insegnar loro ch’era necessario che il Figliuolo dell’uomo soffrisse molte cose, e fosse reietto dagli anziani e dai capi sacerdoti e dagli scribi, e fosse ucciso, e in capo a tre giorni risuscitasse. E diceva queste cose apertamente. E Pietro, trattolo da parte, prese a rimproverarlo. Ma egli, rivoltosi e guardati i suoi discepoli, rimproverò Pietro dicendo: Vattene via da me, Satana! Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini».
Come si vede, qui non si parla di “chiesa”. E questo è un fatto importante a prescindere dal concetto che esprime il termine chiesa, e dalla connotazione reale del suo significato. Ciò che concerne la chiesa in Matteo, qui è invece completamente ignorato: non si parla di rivelazione del Padre (o dello Spirito); non si parla della fondazione della chiesa sulla roccia (sulla fede); non si parla affatto di chiesa; non si parla delle chiavi; non si parla di legare e sciogliere: non c’è nulla di ciò che costituisce l’oggetto di secoli di controversia. E si noti che quasi tutti (e forse proprio tutti) gli studiosi del N.T. affermano che il vangelo di Marco è il più antico dei quattro, non soltanto dei sinottici dunque ma anche di Giovanni, e ciò equivale a dire che è il più attendibile, anche perché l’autore, Marco (l’unico non contestato tra gli autori dei vangeli), era il segretario di Pietro. Si deve supporre perciò che ha utilizzato informazioni di prima mano, per di più sicuramente avallate dall’autorità di un Apostolo. Per questo si pensa, a ragion veduta, che gli altri evangelisti abbiano attinto al suo vangelo; di ciò si hanno sufficienti prove. Perché, dunque, Matteo ci dice molto più di Marco? Dove ha attinto il redattore di Matteo oltre che in Marco? Come si spiega il “di più” di Matteo? E soprattutto il “di più” di Matteo è attendibile? Se mettiamo sul piatto le considerazioni che abbiamo fatto qui sopra, al paragrafo precedente, dobbiamo concludere che il “di più” di Matteo non è del redattore, ma di uno o più copisti che hanno rimaneggiato e ampliato il testo a loro piacimento, quando giudicavano necessario sostenere, a modo loro, l’Apostolo Pietro per bilanciare il successo missionario dell’apostolo Paolo. Dobbiamo concludere che i versetti 18 e 19 sono certamente una interpolazione, se non un rifacimento, o meglio ancora che il testo originario (sicuramente le copie manoscritte che oggi disponiamo) ha o hanno subìto una vera e propria manomissione.
b) Luca 9,18-22: «Or avvenne che mentr’egli stava pregando in disparte, i discepoli erano con lui; ed egli domandò loro: chi dicono le turbe ch’io sia? E quelli risposero: Gli uni dicono Giovanni Battista; altri, Elia; ed altri, uno dei profeti antichi risuscitato. Ed egli disse loro: E voi chi dite ch’io sia? E Pietro, rispondendo disse: Il Cristo di Dio. Ed egli vietò loro severamente di dirlo ad alcuno, e aggiunse: Bisogna che il Figliuol dell’uomo soffra molte cose, e sia reietto dagli anziani e dai capi sacerdoti e dagli scribi, e sia ucciso, e risusciti il terzo giorno».
Si nota facilmente che anche il testo di Luca si allontana da quello di Matteo. Sostanzialmente è simile a quello di Marco. Anzi rispetto a quest’ultimo (e quindi anche rispetto a Matteo) non ha il particolare di Pietro che prende Gesù da parte e lo rimprovera; e quindi non ha neppure le parole di Cristo in risposta a Pietro. Insomma Luca (composto nell’80 o poco dopo) è più breve di Marco, e a maggior ragione ancora più breve di Matteo. Ma quel che conta di più è il fatto che anche in Luca (come in Marco) non si parla di “chiesa” e non c’è nessuna delle affermazioni che costituiscono la materia del contendere. Ora, basandoci anche su 1,1-3, deduciamo che l’autore certamente ha attinto, tra l’altro, da Matteo (composto nell’arco “dopo il 70 - fino all’80”) e da Marco (composto intorno al 70)36. Dunque è strano che sia mancante di qualche particolare che invece troviamo in Marco; e ancora più strano che sia mancante di molte parti importanti che sono contenute in Matteo. Dobbiamo dedurre, o che in quell’epoca Matteo e Marco non contenessero i particolari che non troviamo in Luca, o che l’autore di Luca non li abbia considerati autentici o che non li abbia considerati degni di attenzione. In ogni caso potremmo sospettare che quei particolari siano provenienti da una fonte non degna di fede. Insomma il brano dal quale i teologi cattolici romani deducono che Gesù avrebbe nominato Pietro capo visibile della Chiesa e suo vicario, non soltanto non esiste negli altri vangeli, ma quasi certamente non è autentico. L’ipotesi secondo la quale Matteo e Luca avrebbero attinto anche da un’altra Fonte Comune andata persa, non soltanto non può essere provata, ma non risolverebbe il problema: perché Matteo attinge dalla FC a suo modo e Luca in un modo sostanzialmente diverso? Possibile che Luca abbia considerato di nessun valore le parole che Cristo, secondo Matteo, avrebbe rivolto a Pietro? Inoltre, rimarrebbe sempre da spiegare il silenzio del segretario di Pietro, che dovrebbe essere comunque il più informato: stava accanto alla persona direttamente interessata.
c) Non esiste, dunque, neppure in Giovanni. Il quale nel piccolo brano contenuto in 6,66-69 ha:
«D’allora molti dei suoi discepoli [di Gesù] si ritrassero indietro e non andavano più con lui. Perciò Gesù disse ai dodici: Non ve ne volete andare anche voi? Simon Pietro gli rispose: Signore, a chi ce ne andremmo noi?Tu hai parole di vita eterna; e noi abbiamo creduto ed abbiamo conosciuto che tu sei il Santo di Dio».
Tutto ciò che in Giovanni può in qualche modo richiamare alla nostra mente la “confessione di Pietro” è contenuto in questo testo. Veramente molto poco; qui non c’è nulla di simile ai testi che i cattolici romani portano a sostegno della loro tesi; ed anche qui non si parla di “chiesa”. Anzi come abbiamo già detto (vedi pag. e ss.) da questo testo di Giovanni (come da altri testi) si può dedurre che a riconoscere esplicitamente Gesù come Messia non è stato soltanto Pietro ma anche gli altri Apostoli; la “confessione di Pietro” non è soltanto di Pietro, ma di ognuno dei Dodici e di ogni cristiano.
L’inautenticità delle parti controverse di Matteo è dimostrata, direttamente o indirettamente, anche da altre considerazioni, oltre quelle già esposte37.

3. Altri motivi che si oppongono all’autenticità del testo.
a) Quando Pietro (in Matteo) dichiara che Gesù è il Messia è ricompensato dalle parole di Cristo: Tu sei beato, o Simone… ecc. (16,17 e ss.). Mentre sia Marco (8,30) che il vangelo di Luca (9,21), sembrano esprimere una preoccupazione di Gesù. Per quest’ultimi Pietro non ricevette alcun elogio; anzi, gli evangelisti riferiscono che il Maestro immediatamente «vietò loro severamente di dirlo ad alcuno». È strano che Matteo mette immediatamente in bocca a Gesù parole di elogio per Pietro, mentre Marco e Luca riferiscono soltanto preoccupati divieti. E ciò è tanto più strano se si pensa che Matteo ha attinto da Marco, e Luca da Matteo e da Marco. Certo anche Matteo riferisce che Gesù vietò ai suoi discepoli di dire ad alcuno ch’egli era il Cristo (v.20). Ma prima del divieto c’è l’elogio, e ci sono i testi controversi che soltanto Matteo contiene e nessun altro, neppure Giovanni, né se ne accenna in qualche altro luogo del Nuovo Testamento. E tutto ciò ha certamente un legame con il fatto che in Matteo Gesù parla della «sua chiesa», come vedremo qui appresso; unico caso in tutti e quattro i vangeli.
b) Osserviamo, facendo un paragone, che Gesù ha sempre parlato del «Regno di Dio», mai del «mio Regno» (tranne il caso nel quale dice: “il mio regno non è di questo mondo” [Gv. 18,36], ma si tratta di una cosa diversa). Ora non soltanto parla di «chiesa», ma addirittura di «mia chiesa». Che la Chiesa di Cristo sia di Cristo, oggi ci appare non soltanto legittimo, ma anche ovvio. Ma in quel momento (che è l’unico in tutti e quattro gli evangeli, non ci stanchiamo di ripeterlo) ci aspetteremmo una spiegazione di Gesù, o almeno dell’evangelista, riguardo alla Chiesa che non c’è ancora. Nulla di tutto questo. Il Nazareno, fino a quel momento (ma anche in seguito) ha parlato sempre del Regno di Dio, ora parla della sua Chiesa, e gli Apostoli, che pure pendono dalle sue labbra, non gli chiedono spiegazione, né Pietro, né Tommaso, né Filippo, né nessun altro dei presenti: che cos’è la Chiesa? Da Pietro, soprattutto, ci saremmo aspettati almeno qualche richiesta di chiarimenti sul significato delle parole che Gesù gli avrebbe rivolto: Maestro, devo fare le tue veci quando tu non sarai più in mezzo a noi?Devo amministrare la tua chiesa? Devo condannare i disubbidienti ed assolvere i pentiti? Queste e mille altre domande ci saremmo aspettate che Pietro rivolgesse a Gesù. O che questo l’avesse fatto un altro Apostolo. Insomma, anche se nessuno era, ovviamente, nella condizione storica e psicologica per comprendere che Gesù aveva nominato Papa l’apostolo Pietro, tutti erano però in grado di comprendere che le parole di Cristo rivolte all’Apostolo erano pesanti come piombo per l’importanza (vaga quanto si vuole, in questa ipotesi) che lasciavano trasparire, e soavi come il profumo di una rosa per l’amore che riversavano su Pietro. E invece, tutti zitti; nessuno ha fiatato. Seguono le parole con le quali Pietro rimprovera Gesù, e le parole di risposta di Gesù a Pietro. Ma queste non sono richiesta di chiarimenti, sono un altro discorso. Se il testo controverso di Matteo non è una interpolazione o un rimaneggiamento di un copista partigiano del primato di Pietro, si deve dedurre che né Pietro, né gli altri Apostoli abbiano capito le parole di Cristo, e che tuttavia e inspiegabilmente siano rimasti zitti. Non ci sembra possibile che qui Gesù abbia parlato in modo oscuro. Ma anche se così fosse, almeno una voce tra i dodici avrebbe dovuto chiedere: Maestro che cosa vuol dire il discorso che hai fatto a Pietro? Ed inoltre: se il testo è autentico, perché Marco, il discepolo di Pietro, non ne parla? Se Marco è il più attendibile e anche il meglio informato, essendo il più antico, e godendo dell’avallo e dei ricordi di un Apostolo (di Simon Pietro!), noi dobbiamo concludere necessariamente che il testo di Matteo non è autentico; diversamente accuseremmo, implicitamente, l’evangelista Marco di aver omesso volutamente un episodio importantissimo contenente delle affermazioni di Gesù assolutamente capitali; cosa che renderebbe riprovevole il comportamento di Marco. Insomma, dicendo che il testo controverso di Matteo è autentico, ne verrebbe implicitamente che l’Evangelo di Marco sarebbe inattendibile per le gravi omissioni, e trascinerebbe Luca sullo stesso terreno. Ma forse si potrebbe trovare un’alternativa. Marco avrebbe considerato di scarsa importanza le parole di Gesù rivolte a Pietro a Cesarea di Filippo. E se Marco le ha considerate di scarsa importanza, al punto da ometterle, allora tali dovevano realmente essere, tenendo conto anche dell’avallo (almeno implicito) dell’Apostolo Pietro. E se realmente sono o erano di scarsa importanza, vuol dire che non erano quelle che leggiamo oggi. Perciò non è possibile (in ogni caso) che abbiano il significato che i teologi cattolici romani gli attribuiscono.
Tutto questo ragionamento sarebbe ugualmente valido, senza spostare una virgola, anche se volessimo considerare Matteo come se fosse il più antico e il più attendibile dei quattro vangeli: il brano controverso risulterebbe ugualmente inautentico; magari l’unico inautentico in Matteo, ma comunque inautentico, anche per tutte le altre ragioni che abbiamo esposto in questo capitolo. [Matteo Manzella]

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