martedì 5 febbraio 2013

LA CENA DEL SIGNORE

TEOLOGIA DEL NUOVO TESTAMENTO
di Matteo Manzella
 
Introduzione.

Nella pratica e nella dottrina della chiesa primitiva non ci sono sacramenti. Questa affermazione va spiegata precisando che cosa si debba intendere con la parola “sacramento” e precisando meglio il concetto di “sacerdote”.

Dobbiamo saltare a piè pari la storia e l’etimologia della parola sacramento perché nulla ci dice che possa chiarire e definire il problema, anche perché non è un termine biblico1. Dobbiamo partire almeno dal concetto espresso in proposito da Agostino, il quale affermava che i sacramenti sono segni visibili di una grazia invisibile2. Ma proprio questa definizione non si adatta del tutto a quella pratica e a quella dottrina vigenti nella chiesa primitiva che gli interpreti, successivamente, secondo me impropriamente, definirono e definiscono “sacramenti”.

 Il Catechismo della Chiesa Cattolica [romana] dice: «I [sette] sacramenti sono segni efficaci  della grazia, istituiti da Cristo e affidati alla Chiesa, attraverso i quali ci viene elargita la vita divina. I riti visibili con i quali i sacramenti sono celebrati significano e realizzano le grazie proprie di ciascun sacramento. Essi portano frutto in coloro che li ricevono con le disposizioni richieste»3. Non ci risulta che Cristo abbia istituito dei “sacramenti”, tanto meno in numero di sette.

In sostanza, il “sacramento”, almeno come è inteso dalla chiesa cattolica romana, è qualcosa che conferisce o trasferisce o dà, ovvero comunica, la grazia divina mediante “segni” (parole, gesti, simboli). In maniera ancora più sintetica possiamo dire che – per la chiesa cattolica romana – il sacramento produce salvezza in colui che lo riceve, soprattutto i sacramenti detti appunto della salvezza. I sacramenti agiscono (o agirebbero) – lo dice il Catechismo – in virtù dell’opera salvifica di Cristo, compiuta una volta per tutte. Ma dice pure che «i sacramenti agiscono ex opere operato (letteralmente per il fatto stesso che l’azione viene compiuta)», e citando il Concilio di Trento (Denz.-Schönm., 1604) aggiunge che «per i credenti i sacramenti della Nuova Alleanza sono necessari alla salvezza»4. E questo comporta che la salvezza si ha soltanto mediante il passaggio nel sacramento e la mediazione del sacerdote, cioè di coloro i quali sono consacrati a questo ufficio «mediante il sacramento dell’Ordine, con il quale lo Spirito Santo li rende idonei ad operare nella persona di Cristo-Capo Il ministro ordinato [cioè il sacerdote] è come l’icona[l’immagine reale] di Cristo Sacerdote»5.

 Tutto questo è inaccettabile dal punto di vista che vuole essere biblico. Il Nuovo Testamento non ha nulla di ciò. Certamente anche il Catechismo ammette che i cristiani sono un popolo di sacerdoti e che Cristo è il Sommo, come troviamo chiaramente nel Nuovo Testamento e particolarmente nell’epistola agli Ebrei. Si dovrebbe perciò dedurre che non possono esserci alcuni credenti che siano sacerdoti in modo particolare (cioè mediatori tra Dio e gli altri credenti), consacrati con il sacramento dell’Ordine. Questo fatto si può dire anche in modo più semplice e sintetico, dicendo che nella chiesa primitiva non ci sono sacerdoti. Se ogni cristiano è sacerdote a se stesso, nessuno può essere sacerdote per gli altri, nessuno può avere l’ufficio di sacerdote (o di mediatore) nel senso preciso e tradizionale del termine, perché questo ufficio precisamente inteso è proprio ed esclusivo di Cristo. Il Nuovo Testamento nell’enumerare i ministeri e i ministri della Chiesa non parla mai del sacerdozio, tanto meno nella forma intesa dal Catechismo. E se non ci sono sacerdoti, vale a dire se non c’è il ministero sacerdotale, non possono esserci sacramenti da celebrare. L’evangelo annuncia il perdono di Dio e la salvezza incondizionata; niente e nessuno può porre condizioni per accedere a questo perdono e a questa salvezza. Perciò, secondo la dottrina e la pratica della chiesa primitiva non ci sono né sacerdoti né sacramenti! La salvezza è diretta, senza mediazione sacerdotale, tranne quella del Sommo Sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec (che non si trasmette: Ebrei 7,24), che è Gesù Cristo, il Signore, l’unico uomo mediatore (Ebrei 7,11,17,27; 1 Timoteo 2,5). In 1 Giovanni 2,1 leggiamo: «Figlioletti miei, io vi scrivo queste cose affinché non pecchiate; e se alcuno ha peccato, noi abbiamo un avvocato presso il Padre, cioè Gesù Cristo, il giusto». Nel libro degli Atti leggiamo che il carceriere di Paolo e Sila rivolto ai due apostoli (che non erano sacerdoti) dice: «Signori, che debbo io fare per essere salvato?». La risposta è molto semplice e precisa: «Credi nel Signor Gesù, e sarai salvato tu e la casa tua» (16,30-31). Questo discorso implica il fatto che non ci sono sacramenti; mentre per le chiese, soprattutto per la Chiesa Cattolica romana, i sacramenti sono il fondamento della dottrina cristiana.

L’argomento di questo studio biblico è il “sacramento” che alcuni chiamano  Santa Cena (o Cena del Signore), e altri Comunione, Eucaristia.

 Generalità.

Il rito della Santa Cena è per tutti i discepoli di Gesù il centro della vita cristiana. Lo era anche per i primi credenti, come risulta dallo studio del Nuovo Testamento. Ma non risulta che fosse considerato un “sacramento”. Atti 2,42 ci informa che tra le cose nelle quali i primi discepoli di Gesù perseveravano vi era quella di “rompere il pane”.

L’importanza di questo rito, che risiede nel suo ampio e profondo significato capace di compendiare tutta la dottrina cristiana, esige dei punti chiari e fondamentali per l’interpretazione dei testi, più che per ogni altro argomento della teologia del Nuovo Testamento; dei punti dai quali non si possa prescindere: delle premesse che bisogna avere costantemente presenti per evitare di cadere in facili conclusioni e in false interpretazioni. Si possono elencare in tre punti fondamentali strettamente imparentati tra loro.

 1) Gesù, sia implicitamente che esplicitamente, afferma in vari luoghi dei vangeli (soprattutto in Giovanni) che nei suoi discorsi fa uso del linguaggio figurato («vi ho detto queste cose in similitudini»: Gv. 16,25) e questo è un fatto certo, e non soltanto perché dichiarato da Cristo (che in fin dei conti è quel che più conta), ma anche perché è evidente di per sé, dalla lettura dei vangeli: «Io sono la via... [Gv. 14,6]; voi siete i tralci della vite [Gv. 15,5]; Io sono la porta delle pecore [Gv. 10,7]; voi siete il seminatore che uscì a seminare [Mc. 4,3]; Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore [Gv. 15,1] voi siete il sale della terra [Mt. 5,13]; eccetera». Così Gesù avverte esplicitamente che mangiare la carne (cioè il corpo) del Figliuol dell’uomo non significa che si debba mangiare propriamente il suo corpo, significa «cibarsi» delle sue parole; esse sono spirito e vita (Giovanni 6,63). Perciò, possiamo stabilire che il primo punto è che nessuna affermazione, di Cristo o degli autori del Nuovo Testamento, può avere un significato contrario a quello dato dal Signore stesso nel suo discorso sul pane disceso dal cielo (Giovanni 6,22-71). E con questo abbiamo detto soprattutto che cosa non è la Santa Cena: non è propriamente mangiare il corpo del Signore, anche quando nei sacri testi troviamo espressioni simili a questa.

2) Per la stessa ragione il vero significato dell’espressione bere il sangue di Cristo non sta nel senso letterale. Per gli Ebrei era severamente vietato dalla Legge mangiare o bere il sangue in generale (e Gesù era ebreo): Lev. 3,17; 7,26-27; 17,12; Deut. 12,16, 23; 15,23; eccetera. E a maggior ragione, per essi, era una pazzia il solo pensare che si potesse mangiare o bere quello dei sacrifici umani, che erano abominio a Dio: «Esse (le nazioni idolatre) praticavano verso i loro dèi tutto ciò che è abominevole per Yahwèh e che egli detesta; davano perfino alle fiamme i loro figli e le loro figlie, in onore dei loro dèi» (Deut. 12,31; Cfr. Lev. 18,21; 20,2-5). Ovviamente, l’uso di bere o di mangiare il sangue era misconosciuto nel rituale religioso ebraico; il sangue aveva comunque soltanto senso metaforico: i riti ebraici del tempio (che avevano al centro il sacrificio dell’agnello) prefiguravano il Messia e ne profetizzavano la venuta; ovviamente il sangue dell’agnello sacrificale ne faceva parte, ma doveva essere sparso, non bevuto, né mangiato. Si noti, infine, che il divieto di bere o di mangiare il sangue, fu ribadito dalla chiesa apostolica in occasione del cosiddetto “primo Concilio”, quello di Gerusalemme (Atti 15,29).

 3) Come abbiamo già detto, tutto il Nuovo Testamento fa uso di metafore. Per quanto riguarda la cristologia in generale e soprattutto per il rito della Santa Cena che la riguarda da vicino, bisogna riferirsi anche e specialmente alla teologia dell’apostolo Paolo, che è appunto ricca di metafore. Cito Michael Grant, il quale dice6 che la morte espiatoriadi Cristo, di cui parla l’apostolo, è la metafora che costituisce il centro della teologia paolina, ma non è la sola con la quale l’apostolo spiega il significato cristiano della crocifissione di Gesù; è arricchita da espressioni o termini come sacrificio, riscatto, adozione, redenzione, eccetera, cioè da altre immagini anch’esse derivate per lo più dal rituale del tempio ebraico; rituale con il quale erano profetizzati (sulla base della preconoscenza divina) sia il compito e sia la morte del Messia. La morte cosiddetta espiatoria di Gesù Cristo non può essere presa letteralmente, come espiatoria. Se nei piani di Dio, per liberare l’umanità dal peccato (dalla trasgressione della legge),  fosse stata prevista o pianificata come necessaria e indispensabile la morte violenta, infamante e ingiusta di un giusto, cioè del Messia, allora bisognerebbe ammettere che Dio avrebbe predestinato e determinato Gesù Cristo a questa morte. Giuda Iscariota, Caiafa e Ponzio Pilato sarebbero stati, in questo caso, non soltanto marionette necessarie a determinare la morte del Messia Gesù, ma anche personaggi coartefici, sia pur inconsapevoli, della salvezza dell’umanità secondo il volere e la potenza di Dio. Senza il tradimento di Giuda, senza la richiesta di Caiafa della pena di morte per Gesù, e senza la sentenza di Ponzio Pilato, non ci sarebbe stata salvezza della condotta umanitaria. Cosa avrebbe dovuto fare il Messia in questo caso? Avrebbe dovuto pregare Giuda di decidersi a tradirlo, e chiedere a Caiafa e a Ponzio Pilato di volerlo per favore crocifiggere affinché potesse assolvere il suo proprio compito? Cristo in quanto “uomo psichico” [questa espressione è usata dall’apostolo Paolo: 1 Corinti 15] sarebbe morto comunque, ma di morte naturale, ed anche così avrebbe potuto portare a termine il suo compito, a cui sarebbe seguita la risurrezione. Invece non è possibile che la salvezza possa dipendere da un atto di ingiustizia e da un omicidio come quello della condanna alla morte di croce subita dall’innocente Gesù! Questa “teologia” del sacrificio espiatorio in senso letterale, non ha base alcuna né nella ragione né nella fede biblica; è in contrasto non soltanto con ogni senso di giustizia (Dio non può essere ingiusto) ma anche con le numerose dichiarazioni di Yahwèh stesso, per le quali sappiamo che Dio non ama i sacrifici (1 Sam. 15,22; Isaia 1,11; Osea 6,6; Amos 5,22; Michea 6,8), tanto più quelli umani. Tutto questo lo ha confermato Gesù in occasione della chiamata di Matteo, dicendo: «Imparate che cosa significhi: Voglio misericordia e non sacrificio [Osea 6,6]; poiché io non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori» (Matteo 9,13). Gesù invita alla “seguela”. Salvarsi dal peccato, dal condurre una esistenza non degna dell’uomo, significa seguire Gesù nello stile di vita, nel sentimento, nel pensiero e nell’azione; e questo anche se eccezionalmente, per cause non dipendenti dalla volontà di alcuno o dipendenti dalla volontà di pochi iniqui, il seguire il Maestro dovesse comportare la persecuzione o la morte violenta per il discepolo. Ma né il subire la morte violenta ingiustamente (da innocente), né la persecuzione, né il condurre una vita integerrima, fanno il cristiano meritevole davanti a Dio. La salvezza è offerta da Dio per la sua sovrana e insindacabile decisione basata sulla sua giustizia che si identifica e coincide con il suo amore perfetto e incondizionato che non dipende da niente e da nessuno. Yahwèh non vuole ciò che vuole la giustizia, come se questa fosse altro da Dio, alla quale si adeguerebbe; ma, al contrario, ciò che Dio vuole si chiama “giustizia”, vale a dire: è Dio che stabilisce che cosa è giusto e che cosa è ingiusto sin dall’eternità perché è la sua “natura”. E nel volere di Dio tutto è amore. La consapevolezza umana di questa salvezza (cioè dell’amore di Dio che genera nell’uomo una esistenza conforme alla sua vera essenza, che è  “immagine di Dio”), si ha per la fede; la conseguenza è la nuova nascita, con la quale l’uomo si libera dal peccato; e ciò è opera dello spirito divino. Ora, il fatto in se stesso che Cristo sia morto da uomo innocente e senza peccato, non può avere e non ha alcun nesso con la “salvezza” o con la “perdizione” degli uomini (Dio non è un Minotauro vendicativo e assetato di sangue; né la salvezza si ha grazie a un baratto), ma tuttavia è evidente che in un certo senso (non propriamente dunque) si può dire che Gesù ha «espiato» il peccato di coloro che hanno voluto la sua morte (perché l’hanno voluta peccando, scientemente); e che quel peccato è il peccato di tutta l’umanità, di ogni uomo, in quanto chiunque trasgredisce anche un sol punto della Legge morale si rende colpevole su tutti i punti (Giacomo 2,10); e tutti hanno peccato, sin dalle origini dell’umanità, e sono privi della gloria (o immagine) di Dio (Romani 3,23). La morte ingiusta patita da Cristo esalta la novità contenuta nel messaggio ch’egli ha portato: il perdono di Dio gratuito e incondizionato, e l’esortazione a “nascere” di nuovo (ad attuare il rinnovamento della mente: Romani 12,2) per il progresso individuale della persona e quindi dell’umanità; in poche parole: che Dio è Padre, di tutti e di tutto. Inoltre, a motivo di questa morte subita dal Messia e alla sua ubbidienza a Dio che ha caratterizzato il suo comportamento fino alla morte, Yahwèh ha sovranamente innalzato Gesù al rango e alla natura di Signore mediante la risurrezione (Atti 2,36; Rom. 1,4; Filippesi 2,9-10) tracciando con ciò la strada che i discepoli devono seguire e nella quale il Maestro ha preceduto tutti (Ebrei 12,2; 1 Pietro 2,21).

Su questa base vanno interpretati, se non tutti i testi del Nuovo Testamento, certamente quelli che si riferiscono direttamente o indirettamente alla Santa Cena, di cui qui ci stiamo occupando.

 Il rito.

A) I testi storici e metaforici. Veniamo subito al centro del discorso, che è sintetizzato (e anche interpretato) dall’apostolo Paolo con queste parole:

Il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso grazie, lo ruppe e disse: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me. Poiché ogni volta che mangiate di questo pane e bevete [il vino] di questo calice, voi annunziate [kataggéllete] la morte del Signore, finché egli [il risorto] venga». Perciò, chiunque mangia di questo pane o beve [il vino] del calice del Signore indegnamente, sarà colpevole del corpo e del sangue [della morte]  del  Signore. Ora ciascuno esamini se stesso, e così mangi del pane e beva [il vino] del calice; poiché chi mangia e beve, mangia e beve un giudizio contro se stesso, se non discerne il corpo del Signore [morto e risorto]. [1 Corinti 11,23-29]

Risaliamo ora al fatto come è raccontato nei vangeli:

 

Mentre mangiavano, Gesù prese del pane e, dopo aver detto la benedizione, lo ruppe e lo diede ai suoi discepoli dicendo: «Prendete, mangiate, questo è il mio corpo». Poi, preso un calice [con del vino] e rese grazie, lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti per il perdono dei peccati. Vi dico che da ora in poi non berrò più di questo frutto della vigna, fino al giorno che lo berrò [di] nuovo con voi nel regno del Padre mio». [Matt. 26,26-29; Marco 14,22-25]

 

Due sono le varianti significative riportate da Luca:

 

Io vi dico che non mangerò più questa Pasqua finché sia compiuta [plêrôthê] nel regno del Dio [toû theoû]. [Lc. 22,16 u.p.]

Prendete (questo calice) e distribuitolo fra voi; perché io vi dico che ormai non berrò più del frutto della vigna, finché sia venuto il regno del Dio [toû theoû]. [v. 18]

 

Giovanni non riferisce le parole di Gesù a proposito del pane e del vino nella Cena e fa precedere la Cena dalla lavanda dei piedi che il Maestro compie nei confronti dei discepoli (13,1-17) in ottemperanza all’uso di quel tempo, anche in alcuni ambienti ebraici, di far lavare i piedi agli ospiti dai servi. Gesù, sostituendosi così ai servi, compie un gesto di grande umiltà; dà un esempio dello spirito che deve animare ogni credente. Inoltre, l’evangelista inserisce una serie di altri fatti e di discorsi (dal cap. 13 al 17) ricchissimi di metafore, come non troviamo in alcun’altra parte del Nuovo Testamento, e dove, quasi a conclusione dei fatti e dei discorsi, Gesù afferma:

«Vi ho detto queste cose in similitudini [in metafore]; l’ora viene che non vi parlerò più in similitudini, ma apertamente vi farò conoscere il Padre». [Giovanni 16,25]

Ma se Giovanni non riferisce le parole di Gesù riguardo al pane e al vino della Cena, in compenso porta il lungo discorso del pane disceso dal cielo che la riguarda molto da vicino (il testo integrale si trova in Giovanni 6,22-71). Qui appresso trascriviamo i brani principali e mettiamo in parentesi quadra alcuni testi paralleli, senza indicare il luogo per snellire il discorso e perché si tratta di testi molto noti.

B) Pane e manna.  «Adoperatevi non per il cibo che perisce, ma per il cibo che dura in vita eterna e che il Figliuol dell’uomo vi darà [chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà mai sete in eterno]; poiché su di lui il Padre, cioè Dio, ha apposto il proprio sigillo» [lo Spirito Santo scese su di lui (su Gesù) in forma corporea, come una colomba; e venne una voce dal cielo: Tu sei il mio diletto Figlio (il Messia); in te mi sono compiaciuto”… Gesù, pieno di Spirito Santo, ritornò dal Giordano, e fu condotto dallo Spirito nel deserto…]... [La folla:] «I nostri padri mangiarono la manna nel deserto, come è scritto: Egli (Mosè) diede loro da mangiare del pane venuto dal cielo». Gesù disse loro: «In verità, in verità vi dico che non Mosè vi ha dato il pane che viene dal cielo, ma il Padre mio vi dà il vero pane che viene dal cielo [Tutti quelli che sono venuti prima di me sono stati ladri e briganti]. Poiché il pane di Dio è quello che scende dal cielo, e dà vita al mondo».  Essi quindi gli dissero: «Signore, dacci sempre di codesto pane». Gesù disse loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà mai più sete... poiché sono [“salito” e] “disceso” dal cielo7 non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato [il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato è impossibile che il sangue di tori e di capri tolga i peccati... Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà... il Figlio non può fare nulla da se stesso...]... Questa è la volontà del padre mio: che chi contempla il Figlio e crede in lui, abbia vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno... Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato... Ogni uomo che ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Perché nessuno ha “visto” il Padre [se non colui che è salito in cielo], se non colui che è da Dio; egli ha “visto” il Padre. In verità, in verità vi dico: chi crede in me ha vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono. Questo (aûtós, io stesso) è il pane che “discende” dal cielo, affinché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivente, che è disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane [e beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete] vivrà in eterno; e il pane che io darò è la mia carne (sárx), che darò per la vita del mondo».

I Giudei dunque discutevano tra di loro, dicendo: «Come può costui darci da mangiare la sua carne [il suo stesso corpo; se stesso]?». Perciò Gesù disse loro: «In verità, in verità vi dico che se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete la vita in voi. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Poiché la mia carne è veramente cibo [e il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato] e il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me ed io in lui... Questo è il pane che è disceso dal cielo; non è come la manna [non è un pane materiale, vero e proprio] che mangiarono i vostri padri e morirono; chi si ciba di questo pane [delle mie parole] vivrà in eterno...  E lo Spirito che vivifica [la lettera uccide, ma lo Spirito dà vita]; la carne non giova a nulla; LE PAROLE CHE VI DICO SONO SPIRITO E VITA».

C) Fuori della metafora. È evidente che qui, nel vangelo di Giovanni, questo discorso di Gesù è equivalente alle parole, alle espressioni, e al significato centrale che troviamo in occasione del racconto della Cena riportato dagli altri evangelisti, e dall’apostolo Paolo, che abbiamo citato più sopra. Leonhard Goppelt, in proposito, afferma: «Queste locuzioni (nel discorso del pane della vita) ricordano il racconto dell’istituzione dell’Eucarestia. Là a proposito del pane offerto si dice: Questo è il mio corpo, qui: Il pane è la mia carne. Là Gesù viene dato per molti, cioè per tutti, qui per la vita del mondo, cioè per l’umanità. Questo accostamento alla terminologia dell’Ultima Cena, che si rafforza in 6,53 (mangiare la sua carne, bere il suo sangue), fa capire a ciascun ascoltatore: la promessa di Gesù che qui viene data sarà ascoltata pienamente non già solo attraverso l’ascolto della Parola, ma unicamente [?] quando si mangi e si beva la Cena eucaristica. Giovanni non introduce la Cena del Signore, al pari del battesimo, come un’istituzione fondata per caso, ma la fa derivare dall’offerta che Gesù fa di sé per mezzo della sua Parola»8.

Noi, vogliamo essere fedeli al metodo interpretativo di Flacius e Lutero; ci serviremo delle stesse parole della Bibbia, di quei versetti biblici che danno ulteriore luce al discorso di Gesù e alla nostra capacità di essere obiettivi e di comprendere il senso delle sacre parole.

Gesù nel suo discorso (cap. 6) fa una esortazione ai suoi ascoltatori: Cibatevi del cibo che non perisce, quello che realizza un’esistenza degna dell’uomo e che dà la vita eterna (v. 27). Di che cibo si tratta? Certamente non è un cibo materiale, non è qualcosa che si vede e che si tocca, che si mangia propriamente per dare momentaneamente nutrimento al corpo, come è infatti il cibo che perisce. Anche se fosse un cibo miracoloso, ma che si mangia propriamente, proveniente direttamente da Dio, come si pensava che fosse la manna nel deserto, non sarebbe però materiale come, appunto, era la manna. La manna, comunque, non produceva miglioramento morale e non dava la vita eterna: coloro che la mangiarono morirono tutti. Mangiare in senso proprio il cibo di cui parla Gesù, come si mangia il cibo materiale, non dà una vita degna ora e quella eterna domani. Questa (la vera vita) si produce, entra in gioco, soltanto quando si comprende (e si opera di conseguenza) di che “cibo” si tratta. Paolo, in 1 Corinti 11,29 (più sopra citato), dice sostanzialmente, e in altre parole, che colui che mangia il sacro cibo deve «discernere» in esso il corpo del Signore; il testo greco ha “soma”, che non vuol dire soltanto “corpo” ma anche e soprattutto “persona” (e la persona non si può mangiare propriamente). Gesù precisa: «La mia carne è vero cibo, e il mio sangue vera bevanda» (v. 55). Dunque  il cibo che dà la vita eterna è cibo che si mangia propriamente (vero cibo) come si mangia quello per il nutrimento del corpo? L’uomo, per natura (ed è natura!) non conosce altro cibo oltre quello che si mangia in senso proprio (che altro potrebbe mangiare in senso proprio se non il cibo?); il cibo menzionato da Gesù è pane; quello che si mangia, precisiamo ancora. Che nessuno ci dica che non è pane, o che il pane diventi qualcos’altro; il pane è pane, e pane rimane, perché nella Cena del Signore è mangiato come si mangia il pane, e lo si mangia perché è propriamente cibo, vero pane, che ha sapore di pane! Non è il corpo del Signore che si mangia. Gesù, al di là delle apparenze, non ha invitato i suoi ascoltatori a diventare cannibali (la carne non giova a nulla, v. 63). Eppure, in questo pane di cui parla Gesù bisogna discernere il corpo del Signore, la carne. Dice Paolo: discernere. Il testo greco ha diakrínôn, vale a dire separare, sceverare, dividere, distinguere. Questo “discernere” (diremmo meglio “distinguere”) che cosa può significare? Certamente in Paolo, come in Gesù stesso, nei loro discorsi, non c’è l’invito a lasciarsi prendere da idee impossibili, a vedere ciò che non c’è, a pensare e a credere che il pane non sia o non sia più pane ma il corpo di Cristo, che il vino non sia o non sia più vino ma il sangue di Cristo. No di certo! Altrimenti lo avrebbero detto chiaro e tondo; invece bisogna discernere. Si tratta di adoperarsi intorno al cibo che non perisce (Giovanni 6,27) di cui il cibo che perisce è simbolo; non di mangiare il corpo di Cristo più o meno in senso proprio. La differenza tra i Giudei che credevano di essere stati invitati a mangiare propriamente il corpo di Gesù (Giovanni 6,52), e i sostenitori (che si succederanno nel tempo) della presenza reale di Cristo nei simboli della Cena, che è pressappoco la stessa cosa, è che: i primi questo avevano erroneamente capito ma se ne stupivano; i secondi invece non se ne stupiscono, si contentano di parlare di “mistero”. Eppure, lo ammettiamo, è detto: questo (pane) è il mio corpo, questo (vino) è il mio sangue (1 Corinti 11,23-24; Matteo 26,27-28). Che cosa vuol dire ciò? La risposta la dà ancora Gesù: Io stesso (Gesù) sono il pane che è disceso dal cielo (cioè la manna, la vera manna): Giovanni 6,51. Ma non ci sembra che Gesù fosse un pane; dunque si tratta di una metafora. D’altra parte, se il pane e il vino sono il corpo e il sangue di Cristo pur essendo o rimanendo ancora pane e vino anche dopo le parole e i gesti del Consacrante, allora non vuol dire che il fatto è un “mistero” (qualunque sia il significato che si vorrebbe dare a questo termine) su cui si potrebbe costruire una dottrina teologica appoggiata da concetti pseudo filosofici; ma più semplicemente che il cibo di cui si parla è Cristo in senso metonimico, che è appunto una particolare metafora: si ha la metonimia quando abbiamo a che fare con uno scambio di nomi; in questo caso corpo con pane, e sangue con vino. Così per esempio si dice di un’opera pittorica di Picasso che è un Picasso, dove il nome del pittore è scambiato o identificato con quello di “tela” o di “quadro” o di “dipinto”. Oppure come quando si dice che l’Italia è in armi, per dire che è in guerra; qui si scambia “guerra” con “armi”. Non vogliamo dire che Cristo avesse l’intenzione di usare una metafora proprio di questo genere, che facesse parte del suo linguaggio, ma certamente un discorso equivalente sì, cioè della stessa natura. Lo dice lui stesso per esplicito (parlo in similitudine: Giovanni 16,25); e lo dice pressoché implicitamente quando afferma: «E lo spirito che vivifica; la carne non giova a nulla; le parole  che vi ho dette sono spirito e vita» (v. 63) e non propriamente la mia carne, il mio corpo (la mia carne non è pane, e il pane rimane pane). Dunque sono esse che vivificano, le parole, non è il pane, né il vino; e non è neppure il corpo di Cristo nel suo insieme, né il suo sangue, in quanto tali, come materia organica (o che altro?). La sostanza a cui si riferisce il discorso di Gesù è individuata o identificata propriamente nelle sue parole, esse sono il cibo che dà la vita eterna. Ma così non siamo ancora nella metafora? In che senso, in che modo, delle parole possono dare la salvezza? Mangiandole? visto che si tratta di una cena. Le parole si possono propriamente mangiare? E ancora Gesù stesso a dare la risposta: «In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha vita eterna» (Giovanni 5,24). Ma come, perché e in che modo ascoltando e credendo alle parole di Dio e di Cristo si produce la salvezza? Perché chi ascolta e crede, opera. Vale a dire: colui che crede non soltanto consegue il dono della vita eterna per l’incondizionato e gratuito perdono di Dio, ma attua, grazie allo spirito, quella “nuova nascita” di cui Gesù stesso parla in Giovanni (cap. 3) e che Paolo qualifica come il rinnovamento della mente, la metanoia (Romani 12,2). Perciò, il gesto reale di mangiare il pane e di bere il vino, nella Cena del Signore, è metafora del “mangiare” il corpo (sôma=persona) di Cristo e “bere” il suo sangue, cioè di cibarsi delle parole del Messia; e “cibarsi, in questo caso, significa ascoltare Cristo, credere in lui e di conseguenza operare. Ancora: Le parole di Gesù così come le leggiamo rappresentano il suo discorso; ma la sostanza del suo discorso è la sua persona (soma). Il cibo materiale dà la vita momentaneamente; né dà la vita vera, quella degna di essere vissuta; non dà la vita eterna, anche se proviene miracolosamente dal cielo come si credeva venisse la manna. Coloro che mangiarono la manna morirono tutti (Gv. 6,49). Ma il cibo materiale, il pane e il vino, ricordano ai partecipanti alla Cena che c’è un cibo superiore che «dura in vita eterna» (Gv. 6,27) ed è la persona di Cristo, non il suo corpo. Né Cristo, né gli Apostoli, usavano un linguaggio filosofico ante litteram; per essi la carne e il sangue erano la persona nella sua accezione visibile (diremmo noi), ma il riferimento è a quella invisibile: le parole di Cristo (appunto, la sua persona); il cibo vero; la carne vera, la bevanda vera; non ciò che si mangia, ma ciò che si ascolta; ciò che si ascolta da Cristo è vero cibo e vera bevanda. Lo dice Cristo stesso: Giovanni 6,63. E con ciò siamo finalmente usciti definitivamente dalla metafora. Quando si mangia il pane e si beve il vino della Cena è come se, in quello stesso momento, scaturissero fuori dai simboli quelle parole scritte dall’apostolo Paolo in Romani 13,12: «La notte [la storia di questo mondo] è avanzata, il giorno [di Cristo, la parusia] è vicino; gettiamo dunque via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce»; che echeggiano le parole di Cristo: «Bisogna che io compia le opere di colui che mi ha mandato [di Dio] mentre è giorno; la notte viene in cui nessuno può operare. Mentre sono nel mondo, io sono la luce del mondo» (Giovanni 9,4), e secondo la Scrittura, Cristo era nel mondo ieri, lo è oggi in modo invisibile, lo sarà domani in modo visibile, alla parusia. Così il rito della Cena si connette con il fatto che partecipare alla Cena del Signore significa anche annunziare il suo ritorno, la parusia, la sua presenza visibile (...finché Egli venga:1 Cor. 11,26), per la quale urge operare, e questo operare è ancora “cibarsi” delle parole di Cristo, cioè metterle in pratica, ricordarsi – dice ancora Paolo – che «è ora ormai che vi svegliate dal sonno [allude alle vergini sonnacchiose della parabola: Mt. 25,5]; perché la salvezza [alla parusia] ci è adesso più vicina di quando credemmo» (Romani. 13,11).  Ci piace qui rilevare che la nostra – sulla base della Scrittura – è una concezione attiva della Cena del Signore; mentre le altre concezioni sono passive, perché in esse si pensa di ricevere automaticamente nel proprio corpo, attraverso il pane e il vino, qualcos’altro da sé assieme (o al posto) del pane e del vino, qualcosa di spiritualmente vitale, ovvero lo “Spirito di Cristo” in senso proprio, per il solo fatto di partecipare alla Santa Cena, di mangiare il pane, di bere il vino, sia pur con devozione. La concezione attiva invece fa appello alla volontà e all’impegno, cioè alla fede operante. Nella concezione passiva la “forza” verrebbe da fuori; in quella attiva da dentro, dalla propria interiorità in quanto lo Spirito è immanente e dunque il Cristo è interiore («il Regno di Dio è dentro di voi»: Luca 17,21). Chi, partecipando alla Cena, non si “ciba” delle parole di Cristo (cioè chi non si trova in un atteggiamento volitivo e attivo verso il bene) partecipa della Cena indegnamente, perché non discerne il corpo del Signore nel giusto modo (1 Corinti 11,29 u.p.) cioè non distingue le sue parole, non è consapevole dello Spirito interiore. Il corpo (sôma) del Signore è la sua persona, di Cristo (non è soltanto ciò che comunemente chiamiamo “corpo”); e la sua persona è per eccellenza Parola, Logos, cioè Spirito immanente vitale e illuminante, che è nell’interiorità dell’uomo consapevole. Paolo dice: «Non sapete... che lo Spirito di Dio abita in voi?» (1 Cor.3,16). E Gesù: «Le mie parole [le parole sono proprie della persona] sono Spirito e vita» (Giovanni 6,63). Cibarsi del corpo e del sangue del Signore (discernere il suo corpo nel pane e nel vino) significa cibarsi delle sue parole, cioè ascoltare e credere, non significa vedere (sia pur con gli occhi della mente e della fede) che il pane e il vino sono diventati realmente il corpo del Signore. Cristo ha dato se stesso (è stato fedele a Dio e al suo proprio compito fino alla morte e alla morte di Croce) per portare le sue parole agli uomini, per annunciare il Vangelo, la grande verità del perdono incondizionato di Dio per tutti. Per questo, Gesù, distribuendo il pane nell’ultima Cena (che è anche la prima dell’Era Volgare), prevedendo ciò che doveva accadergli a breve tempo, disse: «Prendete, mangiate, questo è il mio corpo che è spezzato per voi...» (1 Corinti 11,24). E perciò Pietro può dire: «A questo siete stati chiamati (a imitare Gesù), poiché anche Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un esempio, perché seguiate le sue orme» (1 Pietro 2,21). Mangiare il corpo e bere il sangue di Cristo non è un mistero; significa (fuori della metafora) essere suoi seguaci, suoi veri discepoli; e questo fatto può essere costantemente presente agli occhi, alla mente e al cuore del credente mediante il rito della Santa Cena (fate questo in memoria di me: Luca 22,19). Il vino rappresenta il nuovo patto, nel sangue di Cristo (1 Corinti 11,25), essendo Cristo l’Agnello di Dio (Giovanni 1,29); immagine mutuata dal “sacrificio” del Tempio ebraico. Patto per il quale chiunque crede in Cristo, avendo già conseguito la vita eterna, inizia a conseguire ora, attivamente, nei fatti, cioè mettendo in pratica le parole di Gesù (nella metafora “cibandosi” delle sue parole), anche la salvezza dal peccato, dal compiere il male. Infine, questo rito della Santa Cena, va celebrato in memoria di Cristo (ne abbiamo già accennato), cioè della sua vita, del suo insegnamento, della sua morte e della sua risurrezione, appunto in attesa del suo ritorno (1 Corinti 11,24-26). Una celebrazione così intesa, comporta una comunione tra i partecipanti che si cibano dello stesso pane e dello stesso vino, cioè delle parole del Signore Gesù Cristo; e altresì comunione tra Cristo e i partecipanti stessi. Perciò il rito è chiamato anche “Comunione”; comunione (stesso modo di sentire, di pensare, di agire) con Cristo e con i fratelli nella fede.

 Osservazioni.

Certamente il rito è costituito da simboli, i principali dei quali sono il pane e il vino. Nelle chiese storiche, a partire grosso modo dalla fine del secondo secolo fino ad oggi, ed anche in una certa misura nelle nuove comunità oggi emergenti, ma specialmente nella chiesa cattolica romana di antica data, c’è stata e c’è ancora la tendenza a trasferire la realtà (cioè il significato) sul simbolo (che è il significante). Il Catechismo (già citato) dice: «Al centro della celebrazione dell’Eucarestia si trovano il pane e il vino i quali, per le parole di Cristo e per l’invocazione dello Spirito Santo, diventano il Corpo e il Sangue di Cristo»9. Ma sappiamo che il simbolo dipende dalla realtà che simbolizza e mai la realtà dal simbolo. La realtà “genera” il simbolo, mai il simbolo la realtà. Dire che i simboli della Cena diventano realmente il corpo e il sangue del Signore, significa trasferire e “identificare” arbitrariamente il significato (cioè la realtà) sul significante (sul simbolo). E questo non solo è contro ragione e contro la fede biblica, ma è un concetto che non è neppure implicito nel Nuovo Testamento. Da nessuna parte è detto: il pane e il vino diventano realmente il corpo e il sangue di Cristo; non c’è un solo versetto che riporti questa frase o una frase equivalente. I testi usano il verbo essere (“è”, “sono”) e non il verbo divenire (“diventa”, “diventano”). E impossibile, né tanto meno è affermato nel Nuovo Testamento, che la pronuncia da parte del sacerdote o del pastore di certe precise parole, possa mutare una realtà in un’altra diversa realtà. Certo Dio può fare tutto, perché è onnipotente (può fare anche cose irrazionali?). Ma, comunque, non ci ha rivelato di volerlo fare o di averlo fatto; né ci risulta che egli questo potere l’abbia dato, seppure in parte, al sacerdote o al pastore, non almeno dal Nuovo Testamento. Cristo aveva ed ha potere di questo genere? Forse sì («Ogni potere mi è stato dato...»: Matt. 28,18). Ma ammesso che Cristo avesse e abbia questo potere in particolare, di trasformare una realtà in un’altra realtà “parlando” (con la parola), non ci sembra però possibile che l’abbia usato mentre era ancora in vita per mutare il pane e il vino dell’ultima Cena nel suo stesso corpo reale; dato, appunto, che non era stato ancora consumato il “sacrificio”, che egli era ancora vivente come uomo psichico”, cioè in carne ed ossa. Se l’avesse fatto risulterebbe che i discepoli avrebbero mangiato realmente il corpo e bevuto realmente il sangue del loro Maestro mentre era ancora in vita; cosa evidentemente impossibile. E risulterebbe altresì una ripetizione, ad ogni Cena, del “sacrificio” di Cristo (in quel caso, nell’ultima [o prima] Cena, addirittura anzitempo); mentre sappiamo con assoluta chiarezza dall’epistola agli Ebrei che il sacrificio compiuto da Cristo è irripetibile: 9,23-28; 10,12-14.

Inoltre, bisognerebbe rispondere alla seguente domanda: il “corpo” nel quale i simboli della Cena si trasformerebbero realmente è “corpo psichico” o “corpo pneumatico”? Questa domanda non è fatta per l’esigenza di una semplice curiosità, ma perché attiene strettamente alla logica del discorso del pane e del vino che diventerebbero corpo e sangue di Cristo. Gesù prima della risurrezione era “corpo psichico”, come tutti gli uomini; dalla risurrezione in poi era ed è “corpo pneumatico” (cfr. 1 Cor. 15). Poiché l’ultima Cena è avvenuta prima della morte e della risurrezione di Cristo, si deve dedurre che i simboli sarebbero divenuti, e diverrebbero ancora oggi, corpo e sangue di Gesù psichico? E quale nesso potrebbe esserci tra il progresso della vita spirituale del credente e il fatto di “mangiare” il corpo psichico (carne e sangue), che è quello dell’attuale condizione umana? D’altra parte il Gesù psichico non esiste più (o meglio non esiste più la condizione psichica di Gesù), perché il Nazareno è risorto corpo pneumatico, cioè a dire nella condizione spirituale. Lo Spirito ha sangue? E quand’anche si trattasse del corpo pneumatico (mettendo da parte il fatto che lo Spirito non ha e non è sangue, e neppure corpo materiale), non vediamo la differenza, per così dire, qualitativa tra questo modo dello Spirito di “entrare” nelle persone (si fa per dire) e l’altro modo, più diretto e più plausibile, di cui si parla quasi in ogni pagina del Nuovo Testamento e che coinvolge il credente nella consapevolezza dell’immanenza dello Spirito. Il corpo di Cristo darebbe maggior valore e maggiore efficacia alla potenza dello Spirito? Unultima domanda: Se Cristo (corpo psichico o corpo spirituale, non importa) fosse “mangiato” dai fedeli realmente, come corpo reale (un pezzetto o per intero?), non si esaurirebbe? Noi non sappiamo dare una risposta a questa domanda, perché non crediamo che i discepoli possano e debbano mangiare il loro Maestro. Tuttavia, ammesso che fosse infinito (dato che tale dovrebbe essere se non si esaurisce), perché i fedeli tornano a mangiarlo di nuovo e spesso? Un “pezzo” di infinito non è esso stesso infinito? Forse non ha piena efficacia mangiarlo una sola volta? Ma si può mangiare qualcosa che sia infinita? Queste sono tutte domande pertinenti, se si tiene conto che derivano dalla credenza secondo la quale i simboli della cena si muterebbero realmente nel corpo e nel sangue di Cristo, credenza che è ignorata dal Nuovo Testamento.
 
   

Per noi “mangiare” Cristo, significa cibarsi delle sue parole, del suo insegnamento e del suo esempio; e “cibarsi”, in questo caso, vuol dire credere e “fare la volontà di Dio”. Anche Gesù si cibava delle cose spirituali; diceva: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e di compiere l’opera sua» (Giovanni 4,34). “Cibarsi” è un termine che nel tema che stiamo trattando  è adoperato sia per le cose materiali e sia per le cose spirituali.

Cibarsi della manna (delle cose materiali) è necessario, ma non serve per la vita spirituale; bisogna cibarsi delle parole di Gesù, per partecipare del suo spirito eterno. Prendere parte alla Cena, pertanto, significa anche porsi con la propria coscienza, con la propria responsabilità personale e il proprio impegno, di fronte alle parole di Cristo, affinché siano accolte (nella metafora “mangiate”) dal credente. La carne non giova a nulla – dice Gesù –  le mie parole sono spirito e vita (cfr. Giovanni 6,63).

Dunque, sulla base di quanto abbiamo detto fin qui in questo studio, la Santa Cena, non può dirsi “sacramento” nel significato di questo termine scelto e adottato dalla chiesa cattolica romana, ma in qualche modo accettato anche da molte altre chiese. (Matteo Manzella)

 
Note

1. Cfr. la rispettiva voce in: Dizionario biblico, a cura di Giovanni Miegge e Altri, Feltrinelli editore, Milano 1968; Aldo Gabrielli, Grande dizionario illustrato della lingua italiana (a cura di Grazia Gabrielli), Mondadori, Milano 1989; Grande Enciclopedia [De Agostini], vol. XVII, Milano-Novara 1978.

 2. Sul concetto di sacramento in Agostino, si veda: Luigi Alici, Segno, Sacramento, Sacrificio, Appendice 10, in Agostino, La città di Dio, Rusconi Editore, Milano 1994, pagina 1217/1218.

3. Catechismo della Chiesa Cattolica [Romana], Libreria Editrice Vaticana e De Agostini,  1993, pag. 301 (art. 1131).
4. Ibidem, pag. 300 (art. 1128, 1129).

5. Ibidem, pag. 304 (art, 1142).
6. Michael Grant, San Paolo, traduzione presso Bompiani, Milano 1997, soprattutto alla pag. 78.

7. Sull’espressione “salire e scendere” (Giovanni 3,13) si veda il mio studio intitolato, appunto, “Salire e scendere, Teologia del N. Testamento”, anche in formato elettronico gratuito: https://docs.google.com/file/d/0B0FB8-eo6oUUMDgyYWYwMDMtZjA5YS00ZWI2LWI0NjItZmM0OWNjMDc5ZTI3/edit
8. Leonhard Goppelt, Teologia del Nuovo Testamento, Morcelliana, Brescia, vol. 2o, pag. 705.
Goppelt dice pure, riferendosi alla Santa Cena, che accogliere o mangiare la carne e bere il sangue del Figliuol dell’uomo «equivale ad accogliere lui in se stessi [in se stessi!]» (ibidem pag. 706). Ma noi osserviamo che così siamo ancora nella metafora: è impensabile che una persona (un uomo) “in carne ed ossa” (diciamo così dato che qui si parla di “carne” e di “sangue”) possa entrare in noi stessi (entrare in “carne ed ossa”), nei credenti che partecipano alla Santa Cena. In aggiunta a quanto abbiamo già detto, dobbiamo osservare che nella Cena i fedeli mangiano veramente e propriamente il pane e bevono veramente il vino; e se questi elementi diventano (o ad essi si aggiunge) realmente il corpo del Signore (la carne e il sangue), il mangiare (l’atto di mangiare) diventa mangiare propriamente un uomo: un uomo fatto di carne e di sangue? O che altro? Ma il corpo pneumatico di Cristo risorto, perfetto e imperituro, è fatto propriamente di carne e di sangue, di ossa e di organi? Se non è così (e certamente non è così) siamo di fronte ad una metafora, e questa metafora letteralmente riguarda proprio il pane, il vino, la carne, il sangue e l’atto di mangiare e di bere. Coloro che mangiano e bevono, mangiano e bevono propriamente, sono uomini in carne ed ossa, corpi psichici direbbe Paolo (1 Cor. 15,44), e propriamente possono  mangiare soltanto vero pane e bere soltanto vero vino o al massimo altro vero cibo o altra vera bevanda, al di là dei termini e delle espressioni della metafora e al di là del loro significato “nascosto”: quando mangiano, mangiano; quando bevono, bevono; quando pensano, pensano; quando vogliono, vogliono; quando credono, credono, eccetera; e queste sono tutte realtà vere e proprie. Pertanto se il pane e il vino diventano carne e sangue, essi mangiano carne e bevono sangue, il ché è, oltre che inammissibile secondo ragione e secondo il senso comune, anche contrario alla legge di Dio che vieta di mangiare o bere il sangue. La verità è un’altra: qui si tratta di una metafora e non di mangiare propriamente il corpo del Signore. L’errore è di quei teologi (e sono la maggioranza) che si ostinano a non uscire dalla metafora, e pretendono di spiegare il significato vero e proprio con nuovi termini metaforici. Goppelt si rende conto di questa necessità, ma il suo tentativo di uscire dalla metafora non riesce del tutto; egli sta ancora con un piede dentro la metafora e con l’altro fuori, perché il suo discorso [si veda l’intera pagina 706 del suo libro] presuppone il sacrificio espiatorio di Cristo. Ma quando Cristo dice ch’egli dà la vita per la salvezza del mondo (Gv. 6,51 u.p.), intende riferirsi propriamente e in modo ante litteram al cosiddetto “sacrificio espiatorio” come lo intendeva la teologia fino a poco tempo fa e come alcuni teologi lo intendono ancora oggi, cioè in senso letterale? Per noi mangiare la carne e bere il sangue di Cristo, nellatto simbolico (!) è mangiare il pane e bere il vino (e non propriamente il corpo del Signore); atto che, appunto, simbolizza il fatto che il credente accetta Gesù di Nazareth come “Messia” (che è sinonimo di “Figliuol dell’uomo”), come Salvatore e Signore (Luca 2,11); e significa altresì accogliere l’invito a seguirlo (Matt. 16,24; Giov. 8,12; ecc.). a sceglierlo come guida esemplare (Filipp. 2,5; 1 Pietro 2,21; Ebrei 12,2 ecc:), ad accogliere le sue parole [esse sono spirito e vita: Gv. 6,63]. Ed accogliere le sue parole vuol dire fare la sua volontà, come lui (il Cristo) ha fatto la volontà del Padre, cioè di Dio. Non significa mangiarlo! Cfr. Matt. 7,21; Luca 22,42; Giov. 7,17; 4,34 eccetera. Gesù dice: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame, e chi crede in me non avrà mai sete» (Giov. 6,35). Eccoli gli elementi reali fuori della metafora, pur essendo “parti” della metafora del mangiare e del bere della Santa Cena: sono la “seguela” (chi viene a me...) e la fede (chi crede in me...). Ognuno di questi due elementi richiama l’altro, e tutti e due richiamano il fare la volontà di Dio, cioè “cibarsi” di Cristo, appunto delle sue parole, della sua persona (non propriamente del suo corpo); significa accettare o credere alla verità di ciò che Cristo ci dice, e agire di conseguenza, mettendo in pratica il suo insegnamento secondo il suo stesso esempio: traguardo che è davanti al credente ogni volta che partecipa alla Cena, e ogni volta con maggiore consapevolezza.
Gesù dice: «La mia carne [il mio “cibo”] è vero cibo e il mio sangue [il mio “cibo”, la mia “bevanda”] è vera bevanda» (Giov. 6,55); si potrebbe perciò concludere che il cibo che si mangia nella Santa Cena è propriamente Cristo; ma non è così. Infatti, questa frase può avere un secondo significato, legittimo quanto il primo, che è: “La mia carne è [simbolizzata] dal vero cibo, e il mio sangue è [simbolizzato] dalla vera bevanda”. Inoltre, il cibo di cui parla Gesù è vero cibo nel senso che è atto a “nutrire” come nutre il cibo, meglio: è atto a mantenere in vita coloro che lo mangiano, appunto come il vero cibo. Dunque non è propriamente cibo. E con una differenza: che il cibo materiale (pane, vino, manna, ecc.) mantiene in vita per un certo tempo; mentre il cibo di cui parla Gesù (le sue parole, il suo insegnamento) se mangiato (se cioè le parole e l’insegnamento di Cristo si accolgono) danno vita eterna. In ultima istanza dunque si tratta delle parole di Cristo che devono essere accolte con fede e seguite dalle azioni conformi alla fede, non di mangiare realmente il corpo del Signore.
Gesù disse: «Adoperatevi non per il cibo che perisce, ma per il cibo che dura in vita eterna, il quale il Figliuol dell’uomo vi darà; poiché su lui il Padre, cioè Dio, ha apposto il proprio suggello [Matt. 3,17; 17,5]. Essi [alcuni della folla] dunque gli dissero: Che dobbiamo fare per operare le opere di Dio? Gesù rispose e disse loro: Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che Egli ha mandato» (Giov. 6,27-29). Gli interlocutori di Gesù avevano almeno compreso correttamente che il Maestro con il termine “cibo” intendeva dire “opera”. Ma l’opera a cui Gesù si riferisce è il frutto della fede (che crediate...), non di mangiare propriamente il suo corpo oppure del cibo vero e proprio; “mangiare il corpo del Signore” significa credere in lui e agire coerentemente. Ora, nell’imminenza della parusia (posto che fosse propriamente imminente) questo bisognava fare quasi esclusivamente, «tanto più», avrebbe potuto dire l’apostolo Paolo, «conoscendo il tempo nel quale siamo» (Rom. 13,11).
9. Catechismo della Chiesa Cattolica, op. citata, pag. 347 (Art. 1333).

© TUTTI I DIRITTI RISERVATI - COPYRIGHT 2013 BY MATTEO MANZELLA – 00121 ROMA
eMail:   matman1931@gmail.com