di Matteo Manzella
Introduzione.
Nella pratica e nella dottrina della chiesa primitiva non ci
sono sacramenti. Questa affermazione va spiegata precisando che cosa si debba
intendere con la parola “sacramento” e precisando meglio il concetto di
“sacerdote”.
Dobbiamo saltare a piè pari la storia e l’etimologia della
parola sacramento perché nulla ci
dice che possa chiarire e definire il problema, anche perché non è un termine
biblico1.
Dobbiamo partire almeno dal concetto espresso in proposito da Agostino, il quale
affermava che i sacramenti sono segni visibili di una grazia invisibile2.
Ma proprio questa definizione non si adatta del tutto a quella pratica e a
quella dottrina vigenti nella chiesa primitiva che gli interpreti,
successivamente, secondo me impropriamente, definirono e definiscono
“sacramenti”.
In sostanza, il “sacramento”, almeno come è inteso dalla
chiesa cattolica romana, è qualcosa che conferisce o trasferisce o dà, ovvero
comunica, la grazia divina mediante “segni” (parole, gesti, simboli). In
maniera ancora più sintetica possiamo dire che – per la chiesa cattolica romana
– il sacramento produce salvezza in colui che lo riceve, soprattutto i sacramenti
detti appunto della salvezza. I
sacramenti agiscono (o agirebbero) – lo dice il Catechismo – in virtù
dell’opera salvifica di Cristo, compiuta una volta per tutte. Ma dice pure che «i sacramenti agiscono ex opere operato (letteralmente “per il fatto stesso che l’azione viene compiuta”)»,
e citando il Concilio di Trento (Denz.-Schönm., 1604) aggiunge che «per i credenti i sacramenti della Nuova
Alleanza sono necessari alla salvezza»4.
E questo comporta che la salvezza si ha soltanto mediante il passaggio nel
sacramento e la mediazione del sacerdote, cioè di coloro i quali sono
consacrati a questo ufficio «mediante
il sacramento dell’Ordine, con il quale lo Spirito Santo li rende idonei ad
operare nella persona di Cristo-Capo…
Il ministro ordinato [cioè il sacerdote] è come “l’icona”[l’immagine reale] di
Cristo Sacerdote»5.
L’argomento di questo studio biblico è il “sacramento” che
alcuni chiamano Santa Cena (o Cena del
Signore), e altri Comunione, Eucaristia.
Il rito della Santa Cena è per tutti i discepoli di Gesù il
centro della vita cristiana. Lo era anche per i primi credenti, come risulta
dallo studio del Nuovo Testamento. Ma non risulta che fosse considerato un
“sacramento”. Atti 2,42 ci informa che tra le cose nelle quali i primi
discepoli di Gesù perseveravano vi era quella di “rompere il pane”.
L’importanza di questo rito, che risiede nel suo ampio e
profondo significato capace di compendiare tutta la dottrina cristiana, esige
dei punti chiari e fondamentali per l’interpretazione dei testi, più che per
ogni altro argomento della teologia del Nuovo Testamento; dei punti dai quali
non si possa prescindere: delle premesse che bisogna avere costantemente
presenti per evitare di cadere in facili conclusioni e in false interpretazioni.
Si possono elencare in tre punti fondamentali strettamente imparentati tra
loro.
2) Per la stessa ragione il vero significato dell’espressione bere il sangue di Cristo non sta nel
senso letterale. Per gli Ebrei era severamente vietato dalla Legge mangiare o
bere il sangue in generale (e Gesù era ebreo): Lev. 3,17; 7,26-27; 17,12; Deut.
12,16, 23; 15,23; eccetera. E a maggior ragione, per essi, era una pazzia il
solo pensare che si potesse mangiare o bere quello dei sacrifici umani, che
erano abominio a Dio: «Esse
(le nazioni idolatre) praticavano verso i loro dèi tutto ciò che è abominevole
per Yahwèh e che egli detesta;
davano perfino alle fiamme i loro figli e le loro figlie, in onore dei loro dèi»
(Deut. 12,31; Cfr. Lev. 18,21; 20,2-5). Ovviamente, l’uso di bere o di mangiare il sangue era misconosciuto nel rituale
religioso ebraico; il sangue aveva comunque soltanto senso metaforico: i riti
ebraici del tempio (che avevano al centro il sacrificio dell’agnello)
prefiguravano il Messia e ne profetizzavano la venuta; ovviamente il sangue
dell’agnello sacrificale ne faceva parte, ma doveva essere sparso, non bevuto,
né mangiato. Si noti, infine, che il divieto di bere o di mangiare il sangue,
fu ribadito dalla chiesa apostolica in occasione del cosiddetto “primo Concilio”,
quello di Gerusalemme (Atti 15,29).
Su questa base vanno interpretati, se non tutti i testi del
Nuovo Testamento, certamente quelli che si riferiscono direttamente o
indirettamente alla Santa Cena, di cui qui ci stiamo occupando.
A) I testi storici e
metaforici. Veniamo subito al centro del discorso,
che è sintetizzato (e anche interpretato) dall’apostolo Paolo con queste parole:
“Il Signore Gesù, nella notte in cui fu
tradito, prese del pane, e dopo aver reso grazie, lo ruppe e disse: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». Nello stesso modo, dopo aver cenato,
prese anche il calice, dicendo: «Questo
calice è il nuovo patto nel mio
sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me. Poiché ogni
volta che mangiate di questo pane e bevete [il vino] di questo calice, voi annunziate [kataggéllete] la morte del
Signore, finché egli [il risorto] venga».
Perciò, chiunque mangia di questo pane o beve [il vino] del calice del Signore
indegnamente, sarà colpevole del corpo
e del sangue [della morte] del Signore. Ora ciascuno esamini se stesso, e
così mangi del pane e beva [il vino] del calice; poiché chi mangia e beve,
mangia e beve un giudizio contro se stesso, se non discerne il corpo del Signore [morto e risorto]”. [1 Corinti 11,23-29]
Risaliamo ora al fatto come è raccontato nei vangeli:
Mentre mangiavano, Gesù prese del pane e, dopo aver detto la
benedizione, lo ruppe e lo diede ai suoi discepoli dicendo: «Prendete, mangiate, questo è il mio corpo». Poi, preso un calice
[con del vino] e rese grazie, lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è
il mio sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti per il perdono dei peccati. Vi dico che da ora in
poi non berrò più di questo frutto della vigna, fino al giorno che lo berrò
[di] nuovo con voi nel regno del Padre mio».
[Matt. 26,26-29; Marco 14,22-25]
Due sono le varianti significative riportate da Luca:
Io vi dico che non mangerò più questa Pasqua finché sia
compiuta [plêrôthê] nel regno del Dio [toû theoû]. [Lc. 22,16 u.p.]
Prendete (questo calice) e distribuitolo fra voi; perché io
vi dico che ormai non berrò più del frutto della vigna, finché sia venuto il
regno del Dio [toû theoû]. [v. 18]
Giovanni non riferisce le
parole di Gesù a proposito del pane e del vino nella Cena e fa precedere la
Cena dalla lavanda dei piedi che il Maestro compie nei confronti dei discepoli
(13,1-17) in ottemperanza all’uso di quel tempo, anche in alcuni ambienti
ebraici, di far lavare i piedi agli ospiti dai servi. Gesù, sostituendosi così
ai servi, compie un gesto di grande umiltà; dà un esempio dello spirito che
deve animare ogni credente. Inoltre, l’evangelista inserisce una serie di altri
fatti e di discorsi (dal cap. 13 al 17) ricchissimi di metafore, come non
troviamo in alcun’altra parte del Nuovo Testamento, e dove, quasi a conclusione
dei fatti e dei discorsi, Gesù afferma:
«Vi ho detto queste
cose in similitudini [in metafore]; l’ora viene che non vi parlerò più in
similitudini, ma apertamente vi farò conoscere il Padre». [Giovanni 16,25]
Ma se Giovanni non
riferisce le parole di Gesù riguardo al pane e al vino della Cena, in compenso
porta il lungo discorso del pane disceso
dal cielo che la riguarda molto da vicino (il testo integrale si trova in Giovanni 6,22-71). Qui appresso
trascriviamo i brani principali e mettiamo in parentesi quadra alcuni testi
paralleli, senza indicare il luogo per
snellire il discorso e perché si tratta di testi molto noti.
B) Pane e manna. «Adoperatevi
non per il cibo che perisce, ma per il cibo che dura in vita eterna e che il
Figliuol dell’uomo vi darà [chi beve
dell’acqua che io gli darò non avrà mai sete in eterno]; poiché su di lui
il Padre, cioè Dio, ha apposto il proprio sigillo» [lo Spirito Santo scese su
di lui (su Gesù) in forma corporea, come una colomba; e venne una voce dal
cielo: “Tu sei il mio diletto Figlio
(il Messia); in te mi sono compiaciuto”…
Gesù, pieno di Spirito Santo, ritornò dal Giordano, e fu condotto dallo Spirito
nel deserto…]... [La folla:] «I
nostri padri mangiarono la manna nel deserto, come è scritto: Egli (Mosè) diede loro da mangiare del pane
venuto dal cielo». Gesù disse
loro: «In verità, in verità vi dico
che non Mosè vi ha dato il pane che viene dal cielo, ma il Padre mio vi dà il
vero pane che viene dal cielo [Tutti
quelli che sono venuti prima di me sono stati ladri e briganti]. Poiché il
pane di Dio è quello che scende dal cielo, e dà vita al mondo».
Essi quindi gli dissero: «Signore,
dacci sempre di codesto pane». Gesù
disse loro: «Io sono il pane della
vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà mai più sete... poiché sono [“salito” e] “disceso”
dal cielo7
non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato [il mio cibo
è fare la volontà di colui che mi ha mandato… è impossibile che il sangue di
tori e di capri tolga i peccati... Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua
volontà... il Figlio non può fare nulla da se stesso...]... Questa è la volontà del padre mio:
che chi contempla il Figlio e crede in lui, abbia vita eterna; e io lo
risusciterò nell’ultimo giorno... Nessuno può venire a me se non lo attira il
Padre che mi ha mandato... Ogni uomo che ha udito il Padre e ha imparato da
lui, viene a me. Perché nessuno ha “visto” il Padre [se non colui che è salito in cielo], se
non colui che è da Dio; egli ha “visto” il Padre. In verità, in verità vi dico:
chi crede in me ha vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri
mangiarono la manna nel deserto e morirono. Questo (aûtós, io stesso) è il pane
che “discende” dal cielo, affinché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane
vivente, che è disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane [e beve dell’acqua che io gli darò, non avrà
mai più sete] vivrà in eterno; e il pane che io darò è la mia carne (sárx),
che darò per la vita del mondo».
I Giudei dunque discutevano tra di loro, dicendo: «Come può costui darci da mangiare la
sua carne [il suo stesso corpo; se stesso]?».
Perciò Gesù disse loro: «In verità,
in verità vi dico che se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete
il suo sangue, non avete la vita in voi. Chi mangia la mia carne e beve il mio
sangue, ha vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Poiché la mia
carne è veramente cibo [e il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha
mandato] e il mio sangue è
veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me
ed io in lui... Questo è il pane che è disceso dal cielo; non è come la manna [non è un pane materiale, vero e
proprio] che mangiarono i vostri padri e morirono; chi si ciba di questo pane
[delle mie parole] vivrà in eterno... E′ lo Spirito che vivifica [la lettera uccide, ma lo Spirito dà vita];
la carne non giova a nulla; LE PAROLE CHE VI DICO SONO SPIRITO E VITA».
C) Fuori della
metafora. È evidente che qui, nel vangelo di
Giovanni, questo discorso di Gesù è equivalente alle parole, alle espressioni,
e al significato centrale che troviamo in occasione del racconto della Cena
riportato dagli altri evangelisti, e dall’apostolo Paolo, che abbiamo citato
più sopra. Leonhard Goppelt, in
proposito, afferma: «Queste locuzioni
(nel discorso del “pane della vita”) ricordano il racconto dell’istituzione
dell’Eucarestia. Là a proposito del pane offerto si dice: “Questo è il mio corpo”, qui: “Il pane è la mia carne”. Là
Gesù viene dato “per molti”, cioè per tutti, qui “per la vita del mondo”, cioè per l’umanità. Questo accostamento
alla terminologia dell’Ultima Cena, che si rafforza in 6,53 (mangiare la sua
carne, bere il suo sangue), fa capire a ciascun ascoltatore: la promessa di
Gesù che qui viene data sarà ascoltata pienamente non già solo attraverso
l’ascolto della Parola, ma unicamente [?]
quando si mangi e si beva la Cena eucaristica. Giovanni non introduce la Cena del Signore, al pari del battesimo, come
un’istituzione fondata per caso, ma la fa derivare dall’offerta che Gesù fa di
sé per mezzo della sua Parola»8.
Noi, vogliamo essere fedeli al metodo interpretativo di
Flacius e Lutero; ci serviremo delle stesse parole della Bibbia, di quei
versetti biblici che danno ulteriore luce al discorso di Gesù e alla nostra
capacità di essere obiettivi e di comprendere il senso delle sacre parole.
Gesù nel suo discorso (cap. 6) fa una esortazione ai suoi
ascoltatori: Cibatevi del cibo che non perisce, quello che realizza
un’esistenza degna dell’uomo e che dà la vita eterna (v. 27). Di che cibo si
tratta? Certamente non è un cibo materiale, non è qualcosa che si vede e che si
tocca, che si mangia propriamente per dare momentaneamente nutrimento al corpo,
come è infatti il cibo che perisce. Anche se fosse un cibo miracoloso, ma che si mangia propriamente, proveniente direttamente
da Dio, come si pensava che fosse la manna nel deserto, non sarebbe però
materiale come, appunto, era la manna. La manna, comunque, non produceva
miglioramento morale e non dava la vita eterna: coloro che la mangiarono
morirono tutti. Mangiare in senso proprio il cibo di cui parla Gesù, come si
mangia il cibo materiale, non dà una vita degna ora e quella eterna domani.
Questa (la vera vita) si produce, entra in gioco, soltanto quando si comprende
(e si opera di conseguenza) di che “cibo” si tratta. Paolo, in 1 Corinti 11,29
(più sopra citato), dice sostanzialmente, e in altre parole, che colui che
mangia il sacro cibo deve «discernere» in esso il corpo del Signore; il testo
greco ha “soma”, che non vuol dire
soltanto “corpo” ma anche e soprattutto “persona”
(e la persona non si può mangiare propriamente). Gesù precisa: «La mia carne è vero cibo, e il mio
sangue vera bevanda» (v. 55).
Dunque il cibo che dà la vita eterna è
cibo che si mangia propriamente (vero
cibo) come si mangia quello per il nutrimento del corpo? L’uomo, per natura
(ed è natura!) non conosce altro cibo
oltre quello che si mangia in senso proprio (che altro potrebbe mangiare in senso proprio se non il
cibo?); il cibo menzionato da Gesù è
pane; quello che si mangia, precisiamo ancora. Che nessuno ci dica che non
è pane, o che il pane diventi qualcos’altro; il pane è pane, e pane rimane,
perché nella Cena del Signore è mangiato come si mangia il pane, e lo si mangia
perché è propriamente cibo, vero pane, che ha sapore di pane! Non è il corpo
del Signore che si mangia. Gesù, al di là delle apparenze, non ha invitato i
suoi ascoltatori a diventare cannibali (la
carne non giova a nulla, v. 63). Eppure,
in questo pane di cui parla Gesù bisogna discernere il corpo del Signore, la
carne. Dice Paolo: discernere. Il
testo greco ha diakrínôn, vale a
dire separare, sceverare, dividere, distinguere. Questo “discernere”
(diremmo meglio “distinguere”) che cosa può significare? Certamente in Paolo,
come in Gesù stesso, nei loro discorsi, non c’è l’invito a lasciarsi prendere
da idee impossibili, a vedere ciò che non c’è, a pensare e a credere che il
pane non sia o non sia più pane ma il corpo di Cristo, che il vino non sia o
non sia più vino ma il sangue di Cristo. No di certo! Altrimenti lo avrebbero
detto chiaro e tondo; invece bisogna discernere. Si tratta di adoperarsi intorno al cibo che non perisce (Giovanni
6,27) di cui il cibo che perisce è simbolo; non di mangiare il corpo di Cristo
più o meno in senso proprio. La differenza tra i Giudei che credevano di essere
stati invitati a mangiare propriamente il corpo di Gesù (Giovanni 6,52), e i
sostenitori (che si succederanno nel tempo) della presenza reale di Cristo nei simboli della Cena, che è
pressappoco la stessa cosa, è che: i primi questo avevano erroneamente capito
ma se ne stupivano; i secondi invece non se ne stupiscono, si contentano di
parlare di “mistero”. Eppure, lo ammettiamo, è detto: questo (pane) è il mio
corpo, questo (vino) è il mio sangue (1 Corinti 11,23-24; Matteo 26,27-28). Che
cosa vuol dire ciò? La risposta la dà ancora Gesù: Io stesso (Gesù) sono il pane che è disceso dal cielo
(cioè la manna, la vera manna): Giovanni 6,51. Ma non ci sembra che Gesù fosse un
pane; dunque si tratta di una metafora. D’altra parte, se il pane e il vino
sono il corpo e il sangue di Cristo pur
essendo o rimanendo ancora pane e vino anche dopo le parole e i gesti del
Consacrante, allora non vuol dire che il fatto è un “mistero” (qualunque sia il
significato che si vorrebbe dare a questo termine) su cui si potrebbe costruire
una dottrina teologica appoggiata da concetti pseudo filosofici; ma più
semplicemente che il cibo di cui si parla è Cristo in senso metonimico, che è appunto una particolare metafora: si ha
la metonimia quando abbiamo a che
fare con uno scambio di nomi; in questo caso corpo con pane, e sangue
con vino. Così per esempio si
dice di un’opera pittorica di Picasso che è
un Picasso, dove il nome del pittore è scambiato o identificato con quello
di “tela” o di “quadro” o di “dipinto”.
Oppure come quando si dice che l’Italia è in armi, per dire che è in guerra;
qui si scambia “guerra” con “armi”. Non
vogliamo dire che Cristo avesse l’intenzione di usare una metafora proprio di
questo genere, che facesse parte del suo linguaggio, ma certamente un discorso
equivalente sì, cioè della stessa natura. Lo dice lui stesso per esplicito
(parlo in similitudine: Giovanni
16,25); e lo dice pressoché implicitamente quando afferma: «E′ lo spirito che vivifica;
la carne non giova a nulla; le
parole che vi ho dette sono spirito e
vita» (v. 63) e non propriamente
la mia carne, il mio corpo (la mia carne non è pane, e il pane rimane pane).
Dunque sono esse che vivificano, le parole, non è il pane, né il
vino; e non è neppure il corpo di Cristo nel suo insieme, né il suo sangue, in
quanto tali, come materia organica (o che altro?). La sostanza a cui si
riferisce il discorso di Gesù è individuata o identificata propriamente nelle sue parole,
esse sono il cibo che dà la vita eterna.
Ma così non siamo ancora nella metafora? In
che senso, in che modo, delle parole possono dare la salvezza? Mangiandole? visto
che si tratta di una cena. Le parole si
possono propriamente mangiare? E′
ancora Gesù stesso a dare la risposta: «In
verità, in verità vi dico: chi ascolta
la mia parola e crede a colui che mi
ha mandato, ha vita eterna…» (Giovanni 5,24). Ma come, perché e
in che modo ascoltando e credendo alle parole di Dio e di Cristo
si produce la salvezza? Perché chi ascolta e crede, opera. Vale a dire: colui
che crede non soltanto consegue il dono della vita eterna per l’incondizionato
e gratuito perdono di Dio, ma attua, grazie allo spirito, quella “nuova
nascita” di cui Gesù stesso parla in Giovanni
(cap. 3) e che Paolo qualifica come il rinnovamento
della mente, la metanoia (Romani
12,2). Perciò, il gesto reale di mangiare il pane e di bere il vino, nella Cena
del Signore, è metafora del “mangiare” il corpo (sôma=persona) di Cristo e “bere” il suo
sangue, cioè di cibarsi delle parole del Messia; e “cibarsi”, in questo caso,
significa ascoltare Cristo, credere in lui e di conseguenza operare. Ancora: Le parole di Gesù così come le
leggiamo rappresentano il suo discorso; ma la sostanza del suo discorso è la
sua persona (soma). Il cibo materiale
dà la vita momentaneamente; né dà la vita vera, quella degna di essere vissuta;
non dà la vita eterna, anche se proviene miracolosamente dal cielo come si
credeva venisse la manna. Coloro che mangiarono la manna morirono tutti (Gv.
6,49). Ma il cibo materiale, il pane e il vino, ricordano ai partecipanti alla
Cena che c’è un cibo superiore che «dura in vita eterna» (Gv. 6,27) ed è la persona di Cristo, non il suo corpo. Né Cristo, né gli Apostoli,
usavano un linguaggio filosofico ante
litteram; per essi la carne e il sangue erano la persona nella sua
accezione visibile (diremmo noi), ma il riferimento è a quella invisibile: le
parole di Cristo (appunto, la sua persona); il cibo vero;
la carne vera, la bevanda vera; non ciò che si mangia, ma ciò che si ascolta;
ciò che si ascolta da Cristo è vero cibo e vera bevanda. Lo dice Cristo stesso:
Giovanni 6,63. E con ciò siamo finalmente usciti definitivamente dalla
metafora. Quando si mangia il pane e si beve il vino della Cena è come se, in
quello stesso momento, scaturissero fuori dai simboli quelle parole scritte
dall’apostolo Paolo in Romani 13,12: «La
notte [la storia di questo mondo] è avanzata, il giorno [di Cristo, la parusia]
è vicino; gettiamo dunque via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della
luce»; che echeggiano le parole di Cristo: «Bisogna che io compia le opere di colui che mi ha mandato [di Dio]
mentre è giorno; la notte viene in cui nessuno può operare. Mentre sono nel
mondo, io sono la luce del mondo» (Giovanni 9,4), e secondo la Scrittura,
Cristo era nel mondo ieri, lo è oggi in modo invisibile, lo sarà domani in modo
visibile, alla parusia. Così il rito della Cena si connette con il fatto che
partecipare alla Cena del Signore significa anche annunziare il suo ritorno, la
parusia, la sua presenza visibile (...finché Egli venga:1 Cor. 11,26), per
la quale urge operare, e questo operare è ancora “cibarsi” delle parole di
Cristo, cioè metterle in pratica, ricordarsi – dice ancora Paolo – che «è ora ormai che vi svegliate dal sonno
[allude alle vergini sonnacchiose della parabola: Mt. 25,5]; perché la salvezza [alla parusia] ci è
adesso più vicina di quando credemmo» (Romani. 13,11). Ci piace qui rilevare che la nostra – sulla
base della Scrittura – è una concezione attiva della Cena del Signore; mentre
le altre concezioni sono passive, perché in esse si pensa di ricevere automaticamente nel proprio corpo,
attraverso il pane e il vino, qualcos’altro
da sé assieme (o al posto) del pane e del vino, qualcosa di spiritualmente
vitale, ovvero lo “Spirito di Cristo” in senso proprio, per il solo fatto di
partecipare alla Santa Cena, di mangiare il pane, di bere il vino, sia pur con
devozione. La concezione attiva invece fa appello alla volontà e all’impegno,
cioè alla fede operante. Nella concezione passiva la “forza” verrebbe da fuori;
in quella attiva da dentro, dalla propria interiorità in quanto lo Spirito è
immanente e dunque il Cristo è interiore («il
Regno di Dio è dentro di voi»: Luca
17,21). Chi, partecipando alla Cena, non si “ciba” delle parole di Cristo (cioè
chi non si trova in un atteggiamento volitivo e attivo verso il bene) partecipa della Cena indegnamente, perché non
discerne il corpo del Signore nel giusto
modo (1 Corinti 11,29 u.p.) cioè non distingue le sue parole, non è
consapevole dello Spirito interiore. Il corpo (sôma) del Signore è la sua
persona, di Cristo (non è soltanto ciò che comunemente chiamiamo “corpo”); e la
sua persona è per eccellenza Parola, Logos, cioè Spirito immanente vitale e
illuminante, che è nell’interiorità dell’uomo consapevole. Paolo dice: «Non sapete... che lo Spirito di Dio abita
in voi?» (1 Cor.3,16). E Gesù: «Le
mie parole [le parole sono proprie della persona] sono Spirito e vita» (Giovanni 6,63). Cibarsi del corpo e del
sangue del Signore (discernere il suo
corpo nel pane e nel vino) significa cibarsi delle sue parole, cioè ascoltare e
credere, non significa vedere (sia
pur con gli occhi della mente e della fede) che il pane e il vino sono
diventati realmente il corpo del
Signore. Cristo ha dato se stesso (è stato fedele a Dio e al suo proprio
compito fino alla morte e alla morte di Croce) per portare le sue parole agli
uomini, per annunciare il Vangelo, la grande verità del perdono incondizionato
di Dio per tutti. Per questo, Gesù, distribuendo il pane nell’ultima Cena (che
è anche la prima dell’Era Volgare), prevedendo ciò che doveva accadergli a
breve tempo, disse: «Prendete, mangiate,
questo è il mio corpo che è spezzato per voi...» (1 Corinti 11,24). E perciò Pietro può dire: «A questo siete stati chiamati (a imitare
Gesù), poiché anche Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un esempio, perché
seguiate le sue orme» (1 Pietro 2,21). Mangiare il corpo e bere il sangue
di Cristo non è un mistero; significa
(fuori della metafora) essere suoi seguaci, suoi veri discepoli; e questo fatto
può essere costantemente presente agli occhi, alla mente e al cuore del
credente mediante il rito della Santa Cena (fate
questo in memoria di me: Luca 22,19). Il vino rappresenta il nuovo patto,
nel sangue di Cristo (1 Corinti 11,25), essendo Cristo l’Agnello di Dio (Giovanni
1,29); immagine mutuata dal “sacrificio” del Tempio ebraico. Patto per il quale
chiunque crede in Cristo, avendo già conseguito la vita eterna, inizia a
conseguire ora, attivamente, nei fatti, cioè mettendo in pratica le parole di
Gesù (nella metafora “cibandosi” delle sue parole), anche la salvezza dal
peccato, dal compiere il male. Infine, questo rito della Santa Cena, va
celebrato in memoria di Cristo (ne abbiamo già accennato), cioè della sua vita,
del suo insegnamento, della sua morte e della sua risurrezione, appunto in
attesa del suo ritorno (1 Corinti 11,24-26). Una celebrazione così intesa,
comporta una comunione tra i partecipanti che si cibano dello stesso pane e
dello stesso vino, cioè delle parole del Signore Gesù Cristo; e altresì
comunione tra Cristo e i partecipanti stessi. Perciò il rito è chiamato anche
“Comunione”; comunione (stesso modo di sentire, di pensare, di agire) con Cristo
e con i fratelli nella fede.
Certamente il rito è costituito da simboli, i principali dei
quali sono il pane e il vino. Nelle chiese storiche, a partire grosso modo
dalla fine del secondo secolo fino ad oggi, ed anche in una certa misura nelle
nuove comunità oggi emergenti, ma specialmente nella chiesa cattolica romana di
antica data, c’è stata e c’è ancora la tendenza a trasferire la realtà (cioè il significato) sul simbolo
(che è il significante). Il Catechismo (già citato) dice: «Al centro della celebrazione dell’Eucarestia si trovano il pane e il
vino i quali, per le parole di Cristo e per l’invocazione dello Spirito Santo,
diventano il Corpo e il Sangue di Cristo»9. Ma sappiamo che il simbolo dipende dalla realtà che simbolizza e
mai la realtà dal simbolo. La realtà “genera” il simbolo, mai il simbolo la
realtà. Dire che i simboli della Cena diventano realmente il corpo e il sangue del Signore, significa trasferire e
“identificare” arbitrariamente il significato (cioè la realtà) sul significante
(sul simbolo). E questo non solo è contro ragione e contro la fede biblica, ma
è un concetto che non è neppure implicito nel Nuovo Testamento. Da nessuna
parte è detto: “il pane e il vino
diventano realmente il corpo e il
sangue di Cristo”; non c’è un solo
versetto che riporti questa frase o una
frase equivalente. I testi usano il verbo essere (“è”, “sono”) e non il
verbo divenire (“diventa”, “diventano”). E′
impossibile, né tanto meno è affermato nel Nuovo Testamento, che la pronuncia
da parte del sacerdote o del pastore di certe precise parole, possa mutare una
realtà in un’altra diversa realtà. Certo Dio può fare tutto, perché è
onnipotente (può fare anche cose irrazionali?). Ma, comunque, non ci ha
rivelato di volerlo fare o di averlo fatto; né ci risulta che egli questo
potere l’abbia dato, seppure in parte, al sacerdote o al pastore, non almeno
dal Nuovo Testamento. Cristo aveva ed ha potere di questo genere? Forse sì («Ogni potere mi è stato dato...»: Matt.
28,18). Ma ammesso che Cristo avesse e abbia questo potere in particolare, di
trasformare una realtà in un’altra realtà “parlando” (con la parola), non ci
sembra però possibile che l’abbia usato mentre era ancora in vita per mutare il
pane e il vino dell’ultima Cena nel suo stesso corpo reale; dato, appunto, che non era stato ancora consumato il
“sacrificio”, che egli era ancora vivente come
uomo “psichico”, cioè in carne ed
ossa. Se l’avesse fatto risulterebbe che i discepoli avrebbero mangiato realmente il corpo e bevuto realmente il sangue del loro Maestro
mentre era ancora in vita; cosa evidentemente impossibile. E risulterebbe
altresì una ripetizione, ad ogni Cena, del “sacrificio” di Cristo (in quel
caso, nell’ultima [o prima] Cena, addirittura anzitempo); mentre sappiamo con assoluta
chiarezza dall’epistola agli Ebrei che il sacrificio compiuto da
Cristo è irripetibile: 9,23-28; 10,12-14.
Inoltre, bisognerebbe rispondere alla seguente domanda: il
“corpo” nel quale i simboli della Cena si trasformerebbero realmente è “corpo
psichico” o “corpo pneumatico”? Questa domanda non è fatta per l’esigenza di
una semplice curiosità, ma perché attiene strettamente alla logica del discorso
del pane e del vino che diventerebbero corpo e sangue di Cristo. Gesù prima
della risurrezione era “corpo psichico”, come tutti gli uomini; dalla
risurrezione in poi era ed è “corpo pneumatico” (cfr. 1 Cor. 15). Poiché
l’ultima Cena è avvenuta prima della morte e della risurrezione di Cristo, si
deve dedurre che i simboli sarebbero divenuti, e diverrebbero ancora oggi,
corpo e sangue di Gesù psichico? E quale nesso potrebbe esserci tra il
progresso della vita spirituale del
credente e il fatto di “mangiare” il corpo psichico (carne e sangue), che è
quello dell’attuale condizione umana? D’altra parte il Gesù psichico non esiste
più (o meglio non esiste più la condizione psichica di Gesù), perché il
Nazareno è risorto corpo pneumatico, cioè a dire nella condizione spirituale.
Lo Spirito ha sangue? E quand’anche si trattasse del corpo pneumatico (mettendo
da parte il fatto che lo Spirito non ha e non è sangue, e neppure corpo
materiale), non vediamo la differenza, per così dire, qualitativa tra questo
modo dello Spirito di “entrare” nelle persone (si fa per dire) e l’altro modo,
più diretto e più plausibile, di cui si parla quasi in ogni pagina del Nuovo
Testamento e che coinvolge il credente nella consapevolezza dell’immanenza
dello Spirito. Il corpo di Cristo
darebbe maggior valore e maggiore efficacia alla potenza dello Spirito? Un’ultima domanda: Se Cristo (corpo
psichico o corpo spirituale, non importa) fosse “mangiato” dai fedeli realmente, come corpo reale (un pezzetto o per intero?), non
si esaurirebbe? Noi non sappiamo dare una risposta a questa domanda, perché non
crediamo che i discepoli possano e debbano mangiare il loro Maestro. Tuttavia,
ammesso che fosse infinito (dato che tale dovrebbe essere se non si esaurisce),
perché i fedeli tornano a mangiarlo di nuovo e spesso? Un “pezzo” di infinito non è esso stesso infinito? Forse non ha piena efficacia
mangiarlo una sola volta? Ma si può mangiare qualcosa che sia infinita? Queste
sono tutte domande pertinenti, se si tiene conto che derivano dalla credenza
secondo la quale i simboli della cena si muterebbero realmente nel corpo e nel sangue di Cristo, credenza che è ignorata
dal Nuovo Testamento.
• • •
Per noi “mangiare” Cristo, significa cibarsi delle sue
parole, del suo insegnamento e del suo esempio; e “cibarsi”, in questo caso,
vuol dire credere e “fare la volontà
di Dio”. Anche Gesù si cibava delle
cose spirituali; diceva: «Il
mio cibo è fare la volontà di colui
che mi ha mandato e di compiere l’opera sua»
(Giovanni 4,34). “Cibarsi” è un termine che nel tema che stiamo trattando è adoperato sia per le cose materiali e sia
per le cose spirituali.
Cibarsi della manna (delle cose materiali) è necessario, ma
non serve per la vita spirituale; bisogna cibarsi delle parole di Gesù, per
partecipare del suo spirito eterno. Prendere parte alla Cena, pertanto,
significa anche porsi con la propria coscienza, con la propria responsabilità
personale e il proprio impegno, di fronte alle parole di Cristo, affinché siano
accolte (nella metafora “mangiate”)
dal credente. La carne non giova a nulla – dice Gesù – le mie parole sono spirito e vita (cfr. Giovanni 6,63).
Dunque, sulla base di quanto abbiamo detto fin qui in questo
studio, la Santa Cena, non può dirsi “sacramento” nel significato di questo
termine scelto e adottato dalla chiesa cattolica romana, ma in qualche modo
accettato anche da molte altre chiese. (Matteo
Manzella)
Note
1. Cfr. la
rispettiva voce in: Dizionario biblico, a cura di Giovanni
Miegge e Altri, Feltrinelli editore, Milano 1968; Aldo Gabrielli, Grande dizionario illustrato
della lingua italiana (a cura di Grazia Gabrielli), Mondadori, Milano
1989; Grande Enciclopedia [De Agostini], vol. XVII, Milano-Novara
1978.
3. Catechismo della
Chiesa Cattolica [Romana], Libreria Editrice Vaticana e
De Agostini, 1993, pag. 301 (art. 1131).
4. Ibidem, pag. 300 (art. 1128, 1129).
5. Ibidem, pag. 304 (art, 1142).
6. Michael Grant, San Paolo,
traduzione presso Bompiani, Milano 1997, soprattutto alla pag. 78.
7. Sull’espressione “salire e scendere”
(Giovanni 3,13) si veda il mio studio intitolato, appunto, “Salire
e scendere, Teologia del N. Testamento”, anche in formato elettronico
gratuito: https://docs.google.com/file/d/0B0FB8-eo6oUUMDgyYWYwMDMtZjA5YS00ZWI2LWI0NjItZmM0OWNjMDc5ZTI3/edit
8. Leonhard Goppelt, Teologia del Nuovo
Testamento, Morcelliana, Brescia, vol. 2o,
pag. 705.
Goppelt
dice pure, riferendosi alla Santa Cena, che accogliere o mangiare la carne e
bere il sangue del Figliuol dell’uomo «equivale
ad accogliere lui in se stessi [in se stessi!]» (ibidem pag. 706). Ma
noi osserviamo che così siamo ancora nella metafora: è impensabile che una persona (un uomo) “in carne ed ossa”
(diciamo così dato che qui si parla di “carne” e di “sangue”) possa entrare in
noi stessi (entrare in “carne ed ossa”), nei credenti che partecipano alla
Santa Cena. In aggiunta a quanto abbiamo già detto, dobbiamo osservare che
nella Cena i fedeli mangiano veramente e propriamente
il pane e bevono veramente il vino; e se questi elementi diventano (o ad essi
si aggiunge) realmente il corpo del
Signore (la carne e il sangue), il mangiare (l’atto di mangiare) diventa
mangiare propriamente un uomo: un uomo fatto di carne e di sangue? O
che altro? Ma il corpo pneumatico di Cristo risorto, perfetto e imperituro, è
fatto propriamente di carne e di sangue, di ossa e di organi? Se non è così (e
certamente non è così) siamo di fronte ad una metafora, e questa metafora
letteralmente riguarda proprio il pane, il vino, la carne, il sangue e l’atto
di mangiare e di bere. Coloro che mangiano e bevono, mangiano e bevono
propriamente, sono uomini in carne ed ossa, corpi psichici direbbe Paolo (1
Cor. 15,44), e propriamente
possono mangiare soltanto vero pane e
bere soltanto vero vino o al massimo altro vero cibo o altra vera bevanda, al
di là dei termini e delle espressioni della metafora e al di là del loro
significato “nascosto”: quando
mangiano, mangiano; quando bevono, bevono; quando pensano, pensano; quando
vogliono, vogliono; quando credono, credono, eccetera; e queste sono tutte
realtà vere e proprie. Pertanto se il pane e il vino diventano carne e sangue,
essi mangiano carne e bevono sangue, il ché è, oltre che inammissibile secondo
ragione e secondo il senso comune, anche contrario alla legge di Dio che vieta
di mangiare o bere il sangue. La verità è un’altra: qui si tratta di una metafora e non di mangiare propriamente il
corpo del Signore. L’errore è di quei teologi (e sono la maggioranza) che si
ostinano a non uscire dalla metafora, e pretendono di spiegare il significato
vero e proprio con nuovi termini
metaforici. Goppelt si rende conto di questa necessità, ma il suo tentativo di
uscire dalla metafora non riesce del tutto; egli sta ancora con un piede dentro
la metafora e con l’altro fuori, perché il suo discorso [si veda l’intera pagina
706 del suo libro] presuppone il sacrificio
espiatorio di Cristo. Ma quando
Cristo dice ch’egli dà la vita per la salvezza del mondo (Gv. 6,51 u.p.),
intende riferirsi propriamente e in modo ante
litteram al cosiddetto “sacrificio espiatorio” come lo intendeva la
teologia fino a poco tempo fa e come alcuni teologi lo intendono ancora oggi,
cioè in senso letterale? Per noi mangiare la carne e bere il sangue di Cristo, nell’atto
simbolico (!) è mangiare il pane
e bere il vino (e non propriamente il corpo del Signore); atto che, appunto,
simbolizza il fatto che il credente accetta Gesù di Nazareth come “Messia” (che
è sinonimo di “Figliuol dell’uomo”), come Salvatore e Signore (Luca 2,11); e
significa altresì accogliere l’invito a seguirlo (Matt. 16,24; Giov. 8,12;
ecc.). a sceglierlo come guida esemplare (Filipp. 2,5; 1 Pietro 2,21; Ebrei
12,2 ecc:), ad accogliere le sue parole
[esse sono spirito e vita: Gv. 6,63].
Ed accogliere le sue parole vuol dire fare la sua volontà, come lui (il Cristo)
ha fatto la volontà del Padre, cioè di Dio. Non significa mangiarlo! Cfr. Matt.
7,21; Luca 22,42; Giov. 7,17; 4,34 eccetera. Gesù dice: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame, e chi crede
in me non avrà mai sete» (Giov. 6,35). Eccoli gli elementi reali fuori
della metafora, pur essendo “parti” della metafora del mangiare e del bere
della Santa Cena: sono la “seguela”
(chi viene a me...) e la fede (chi crede in me...). Ognuno di questi due elementi
richiama l’altro, e tutti e due richiamano il fare la volontà di Dio, cioè “cibarsi” di Cristo, appunto delle sue
parole, della sua persona (non
propriamente del suo corpo); significa accettare o credere alla verità di ciò
che Cristo ci dice, e agire di conseguenza, mettendo in pratica il suo
insegnamento secondo il suo stesso esempio: traguardo che è davanti al credente
ogni volta che partecipa alla Cena, e ogni volta con maggiore consapevolezza.
Gesù
dice: «La mia carne [il mio “cibo”]
è vero cibo e il mio sangue [il mio “cibo”, la mia “bevanda”] è vera bevanda» (Giov. 6,55); si potrebbe perciò
concludere che il cibo che si mangia nella Santa Cena è propriamente Cristo; ma non è così. Infatti, questa frase può avere
un secondo significato, legittimo quanto il primo, che è: “La mia carne è
[simbolizzata] dal vero cibo, e il mio sangue è [simbolizzato] dalla vera bevanda”. Inoltre, il cibo di cui parla
Gesù è vero cibo nel senso
che è atto a “nutrire” come nutre il cibo, meglio: è atto a mantenere
in vita coloro che lo mangiano, appunto come
il vero cibo. Dunque non è propriamente cibo.
E con una differenza: che il cibo
materiale (pane, vino, manna, ecc.) mantiene in vita per un certo tempo; mentre
il cibo di cui parla Gesù (le sue parole, il suo insegnamento) se mangiato (se
cioè le parole e l’insegnamento di Cristo si accolgono) danno vita eterna. In
ultima istanza dunque si tratta delle parole di Cristo che devono essere
accolte con fede e seguite dalle azioni conformi alla fede, non di mangiare realmente il corpo del Signore.
Gesù disse: «Adoperatevi
non per il cibo che perisce, ma per il cibo che dura in vita eterna, il quale
il Figliuol dell’uomo vi darà; poiché su lui il Padre, cioè Dio, ha apposto il
proprio suggello [Matt. 3,17; 17,5].
Essi [alcuni della folla] dunque gli dissero: Che dobbiamo fare per operare le opere di Dio? Gesù rispose e
disse loro: Questa è l’opera di Dio: che
crediate in colui che Egli ha mandato» (Giov. 6,27-29). Gli interlocutori
di Gesù avevano almeno compreso correttamente che il Maestro con il termine
“cibo” intendeva dire “opera”. Ma l’opera a cui Gesù si riferisce è il frutto
della fede (che crediate...), non di
mangiare propriamente il suo corpo oppure del cibo vero e proprio; “mangiare il
corpo del Signore” significa credere in lui e agire coerentemente. Ora,
nell’imminenza della parusia (posto che fosse propriamente imminente) questo
bisognava fare quasi esclusivamente, «tanto più», avrebbe potuto dire l’apostolo Paolo, «conoscendo il tempo nel quale siamo» (Rom. 13,11).
9. Catechismo della
Chiesa Cattolica, op. citata, pag. 347 (Art. 1333).
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