domenica 11 dicembre 2016

11 dicembre 2016


SALIRE E SCENDERE
Lo studio del Nuovo Testamento ci porta a concludere che Gesù Cristo è vero uomo; non è Dio (Giovanni 17,4; 1 Timoteo 2,5). È l’Uomo adottato da Dio ed “assunto in cielo” mediante la risurrezione. Di là “ha da venire a giudicare i vivi e i morti” e a instaurare il suo Regno per tutti. Nella Bibbia non c’è la dottrina trinitaria, neppure per implicito1. Il testo biblico controverso che ci accingiamo a esaminare si trova in Giovanni 3,13. Sostanzialmente riguarda il tema “Gesù mandato da Dio”. Alcuni sostenitori della dottrina trinitaria dicono che qui si affermerebbe che Cristo (il “Figlio di Dio”) è mandato dal Padre; letteralmente dal cielo in terra, nel senso che sarebbe Dio incarnato: la seconda persona della Trinità fatta uomo. Sgomberiamo subito l’equivoco che la frase «mandato da Dio» potrebbe generare, come se si trattasse letteralmente (o quasi) di una venuta dal cielo in terra.  L’espressione è usata spesso riguardo a Gesù (ma non soltanto per Gesù): egli è mandato da Dio; mandato ad annunciare la Buona Notizia della salvezza, il perdono universale di Dio; è l’Apostolo dell’Evangelo (Ebrei 3,1). Dio, prima di mandare il Nazareno a svolgere il suo proprio compito, lo santifica, cioè lo sceglie (lo apparta, lo adotta) per un compito sacro (Luca 3,21-22; Giovanni 10,36), appunto per annunciare l’Evangelo. Allo stesso modo, anche Giovanni il Battezzatore è «mandato da Dio» (Giovanni 1,6), è mandato a esortare il popolo al pentimento e a impartire il battesimo. Mandati sono anche i profeti (Isaia 6,8). Anche i dodici discepoli che seguivano costantemente Gesù erano mandati. Nel Nuovo Testamento il termine “mandato” (apόstolos, apostéllô) si riferisce a tutti i discepoli e in modo particolare ai Dodici, che erano detti appunto “apostoli” (mandati). Anche Gesù – come abbiamo già accennato – era “apostolo”. Il fatto che Cristo sarebbe “mandato” dal cielo in terra non potrebbe determinare un significato particolare, diverso dall’uso che ha quando si riferisce, per esempio, ai Dodici. Dante Alighieri adopera la stessa espressione per la sua donna ideale, ovviamente in senso metaforico che è l’unica accezione che l’espressione può avere quando coinvolge il cielo: dice che par che sia venuta dal cielo in terra a miracol mostrare. Nessuno proviene letteralmente dal cielo. Né l’espressione può alludere alla nascita “miracolosa” di Gesù. La Bibbia ha diversi esempi di nascite miracolose: nessuna è “incarnazione di Dio”. D’altra parte, abbiamo il racconto evangelico della nascita “miracolosa” di Giovanni il Battezzatore che in qualche modo ci ricorda quello della nascita di Gesù (Luca 1,5-25).


Gesù Cristo, nel brano del Vangelo di Giovanni che stiamo esaminando, parla con Nicodemo della “nuova nascita”, della nascita spirituale (o “nascita da alto, dal cielo”) e dà forza al suo discorso dicendo, in altre parole (con nostre parole), che coloro che ragionano seriamente di qualcosa ne parlano con cognizione di causa, come se fossero dei testimoni che hanno visto e udito, e che questo è il suo caso. Al v. 11, infatti, Gesù dice: «Noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo visto». Poi pronuncia le parole del testo controverso: «Nessuno è salito in cielo, se non colui che è disceso dal cielo: il Figliuol dell’uomo che è nel cielo» (3,13). In sintesi dice che nessuno è salito in cielo; però dato che egli (il Cristo) vi è disceso, vuol dire che prima vi è salito (lo dice egli stesso, esplicitamente). Non si può scendere dal cielo se prima non vi si è saliti. Nessuno ha visto Dio (Giovanni 1,18), perché nessuno è salito in cielo (tranne Colui che vi è disceso). Appunto, se c’è qualcuno che discende dal cielo, vuol dire che vi è salito; prima di scendere ovviamente. E questo Qualcuno è l’Unico, il Messia. Questa del “salire e scendere” è la metafora. Qual è il significato fuori metafora? Il cielo è il luogo metaforico di Dio. Questo luogo non può essere letteralmente un “luogo”, né tanto meno in cielo; non può essere un determinato luogo nello spazio, come per esempio Gerusalemme in Palestina. Inteso in questo senso il “luogo” implicherebbe che Dio ha un corpo e per di più di dimensioni finite, dato che se è collocato esclusivamente in quel luogo non è negli altri luoghi. Anche se la Bibbia dice esplicitamente che il cielo è la dimora di Dio (Genesi 11,5; 28,12-13; Esodo 24,10; Salmo 18,6-9; Matteo 6,9,26; 23,22) si tratta comunque di una metafora; perciò dice anche che Dio i cieli non lo possono contenere (1 Re 8,27). È evidente che quando si dice “Dio è in cielo”, non si può con ciò dedurre che c’è un luogo fisico in cielo nel quale Dio “abita”; ma è altrettanto evidente che è pressoché impossibile uscire da questa metafora per tradurla in un significato sicuro e proprio. Ѐ più facile dire che cosa esclude, anziché che cosa includa; che cosa non è, anziché che cosa sarebbe. Un vecchio catechismo cattolico tentava di uscirne fuori dicendo che Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo. Ed Eckhart, accogliendo la metafora del cielo, mostra ch’essa include la terra ed ogni luogo; dice: «La terra non può fuggire tanto verso il basso, che il cielo non fluisca in essa ed imprima in essa la sua potenza e la renda feconda, le piaccia o no. Così avviene anche all’uomo, che immagina di sfuggire a Dio, e non può; tutti i luoghi lo manifestano»2. Certamente qui c’è un’eco dell’antica credenza secondo la quale il cielo feconda la terra in senso proprio, ma Eckhart se ne serve identificando questa credenza con la metafora evangelica del cielo, che implica la presenza, e quindi la conoscenza, di Dio. Questa presenza è ovunque, non c’è un luogo dove Dio non ci sia (…dove potrei fuggire lontano dalla tua presenza? ...); è perfino nelle ossa e negli organi del nostro corpo, nel soggiorno dei morti (nella tomba), nelle profondità del mare… (v. Salmo 139). Inoltre, l’espressione letterale “Dio è in cielo”, che è in uso nella Bibbia, è presa in prestito dalla credenza degli antichi, secondo la quale Dio è in un luogo inaccessibile (che tale era per loro il cielo) come Zèus sul monte Olimpo, appunto. Paolo dice che Dio «abita una luce inaccessibile» (2 Timoteo 6,16). Chiarito questo, anche se non ce n’era bisogno, dobbiamo accogliere l’espressione letterale nel nostro linguaggio; accoglierla come la più idonea per il nostro ragionare pratico: Dio è in cielo. Il cielo, perciò, è il luogo perfetto, perché è di Dio. Il luogo di Dio, vale a dire dell’Essere Perfetto, non può che essere il cielo: è il luogo di Jehôvâh, di Colui che è: dell’Essere (Esodo 3,14). Ora, il testo che stiamo esaminando va considerato tenendo conto della dinamica propria e temporale che esprime, dato che in esso si parla di “salire” e di “scendere”. Nel discorso di Gesù ci sono tre momenti: 1) nessuno è salito in cielo: vale a dire nessuno è andato nel luogo di Dio per parlare con lui “faccia a faccia”; fuori della metafora: nessuno è in qualche modo, sia pur inspiegabile, in diretto contatto con Dio, e questo concetto è espresso con il termine “salire”; 2) è salito in cielo colui che è disceso dal cielo e nessun altro. Se Cristo è disceso dal cielo, questa è la prova che vi è salito, come Mosè che discende dal Monte Sinai (se scende è perché vi è salito). Vale a dire, c’è una persona che è salita in cielo prima di scendere, prima di rivelare ciò che ha “visto” e “udito”; fuori della metafora, questa persona è in contatto diretto con Dio perché ovviamente ha prima stabilito il contatto (è “salita”), perché non potrebbe “scendere” dal cielo, cioè rivelare ciò che ha “visto” e “udito”, se non è prima salita: «nessuno è salito in cielo – dice Gesù – se non colui che è disceso dal cielo», soltanto lui vi è salito; colui che è disceso vi è salito, evidentemente è “salito” prima di “scendere”; è in contatto diretto con Dio colui che ha stabilito questo contatto. Infatti, 3) l’unico a stabilire il contatto in modo perfetto è stato Gesù Cristo, il Figliuol dell’uomo, cioè il Messia; l’Unto dice le parole di Dio (Giovanni 8,26-28): è colui che è “salito” in cielo e dopo ne è “disceso”. È colui che ha udito la “voce” di Dio che diceva «Questo è il mio diletto figliuolo, nel quale mi sono compiaciuto» (Matteo 3,17): parole identiche a quelle che si adoperavano tra gli Ebrei in occasione della cerimonia di incoronazione del re3. Tutto questo significa che là dove si parla di “salire” e “scendere” non si sostiene la preesistenza “celeste” (presso Dio) di Gesù (o del “Figlio di Dio”, il Re). Si parla della conoscenza di Dio che si acquisisce attraverso un contatto misterioso e diretto con la Divinità. È il “contatto” per il quale Cristo può riferire le “parole di Dio”, senza salire e senza scendere in senso proprio e letterale; è l’opera del Profeta: di colui che parla nel nome di Dio; di colui che riferisce agli uomini le parole del Padre, del Creatore.


La congregazione cristiana dei Testimoni di Geova, (detto per inciso) non concorda con il testo che stiamo esaminando; ma non vi concorda neppure la maggior parte delle altre chiese cristiane, quelle che accettano la concezione trinitaria di Dio. I Testimoni di Geova credono (non in base alla loro dottrina, ma di fatto) all’esistenza di due dii (o dèi): il Padre (il vero Dio) e il Figlio (un Dio minore). Più precisamente, dicono che l’Unigenito di Dio sia il primo essere che Dio ha creato, il quale avrebbe collaborato con il Padre alla creazione del mondo. Ma di che “natura” sarebbe un essere che collabora con il Creatore?! Anche se lo consideriamo un “creatore subalterno”, sarebbe comunque “creatore”, cioè “dio”. Ma se si ammette che è il primo essere che Dio ha creato, si deve concludere che è una “creatura-creatore”; ma questo è impossibile. I trinitari credono all’esistenza del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo, ma almeno precisano (sfuggendo alla propria contraddizione in termini4) che i tre (le tre “persone”) sono un solo Dio. Così, in qualche modo, più o meno secondo ragione, rientrano nella concezione monoteista.


La parte finale del testo che stiamo esaminando, espressa con le parole «che è nel cielo», manca in molti antichi manoscritti. Ѐ evidente che si tratta di una glossa, che un copista troppo zelante ha tolto dal margine e l’ha introdotta nel testo, per spiegare che Gesù è in cielo essendo risorto. Concetto che è già implicito in 1,18: «Nessuno ha mai visto Dio; l’Unigenito Figlio [il Messia, il Re, l’Unto5], che [ora] è accanto [κόλπον] al Padre [accanto a Dio], è colui che lo ha fatto conoscere». In conclusione, la metafora del “salire” implica qualcosa che si consegue, che si acquisisce, cioè la conoscenza di Dio (parliamo di quel che sappiamo: v. 11), e non qualcosa che si ha per natura. Chi vuol conoscere (sapere) le cose che riguardano il cielo (cioè Dio) deve salire in cielo. E solo uno vi è salito, colui che dopo esservi salito è disceso: il Messia. Solo uno vi è salito perché Dio ne ha adottato (scelto, eletto) soltanto uno: Gesù di Nazareth.  Chi sale in cielo – stando ai termini letterali della metafora – vi sale per conoscere; chi scende può comunicare la conoscenza, parlarne con convinzione come un testimone oculare e auricolare, come colui che sa (v. 11). Cristo “scende”, e scende perché vi è “salito”: non era già nel cielo o non vi era già stato prima di nascere, prima di venire al mondo, perché nessuno può scendere se non colui che è salito; e solo Cristo vi è salito (v. 13), vi è salito evidentemente dopo essere venuto al mondo, dopo la nascita, da adulto; chi sale in cielo vi arriva, non è già lì da prima o da sempre, che in tal caso sarebbe un ritornare o un esservi stabilmente, da sempre. E d’altra parte, per questo “salire e scendere” non conta, ovviamente, il senso letterale, ma quello fuori metafora. Perché mai Cristo avrebbe dovuto salire in cielo se già vi fosse stato (secondo i trinitari) dall’eternità? Se Cristo è Dio, per quale motivo sale in cielo? Gesù non rivela la conoscenza di Dio in quanto sarebbe coeterno con il Padre, della sua stessa “natura” (cioè Dio stesso), o comunque in quanto era già in cielo prima di nascere in Palestina, ma in quanto è “salito” in cielo, dove ha appreso le “parole” di Dio: «Le cose, dunque, che dico, così le dico, come il Padre me le ha dette» (Giovanni 12,50); altra metafora (antropomorfica: Dio che parla, e parla con un uomo) il cui senso è così evidente che non ha bisogno di essere spiegato. Gesù “sale” per conoscere; non sa tutto! Infatti, dal Nuovo Testamento possiamo dedurre che Dio a Gesù di Nazareth non rivelò ogni cosa. Il maggiore studioso di critica testuale, Bruce M. Metzger, già professore al Theological Seminary di Princeton, che è stato uno dei maggiori collaboratori dell’edizione del testo greco del Nuovo Testamento, riferisce l’episodio che riguarda la domanda che gli apostoli fanno a Gesù circa la data del suo ritorno. Con riferimento al suo lavoro di filologo racconta: «La dichiarazione di Gesù, Ma quanto a quel giorno e a quell’ora nessuno lo sa, neppure gli angeli del cielo, né il Figlio, ma il Padre soltanto (Matteo 24,36 e Marco 13,32), era inaccettabile per i copisti, i quali non riuscivano a conciliare l’ignoranza di Gesù con la sua divinità, e salvarono la situazione semplicemente omettendo la frase οδ υἱόϛ [né il Figlio]».6 I filologi hanno ricostruito il testo originale ricavandolo dai manoscritti più attendibili.


Non si può, quindi, dedurre, come affermano alcuni, che colui che è “salito” è il preesistente, che in effetti non sarebbe salito perché era in cielo da sempre; mentre colui che è sceso sarebbe (come effettivamente è) l’esistente Gesù di Nazareth, il Cristo. Il termine “preesistente”, se si pretende di dargli una realtà sostanziale, esprime in se stesso una contraddizione in termini, perché ciò che sta prima dell’esistente è il “non-esistente”; ciò che diviene cessa di esistere. La seconda Persona della Trinità diviene uomo? Se è così, cessa di esistere per divenire altro sostanzialmente diverso da ciò che era. Pertanto, o non è divenuta uomo (e perciò non c’è incarnazione), o non c’è Trinità. Il termine “preesistente”, vale a dire “ciò che esiste prima di esistere” (?) esprime un concetto privo di significato. Niccolò Cusano nel De visione Dei dice che in Dio «nessuna cosa è esistita prima di avvenire, perché non fu concepita prima che essa fosse»7. Certamente in Dio, al di là di ogni discorso filosofico, tutto (nessuna cosa esclusa) è realmente presente; ma su questo si potrebbe scrivere a lungo, come del resto è stato già fatto, senza giungere a nessuna certezza. In tal caso non soltanto il Messia sarebbe preesistente, ma anche tutti i profeti, anzi tutte le cose, noi compresi. Evidentemente il concetto della preconoscenza divina è strettamente legato a quello della “realtà in Dio”. A questo proposito, il racconto che il profeta Geremia fa di sé, è emblematico: egli era conosciuto e scelto da Dio, per essere profeta delle nazioni, prima che fosse concepito nel seno di sua madre (Geremia 1,4-5). Su questa base si può, dunque, esprimere il concetto sui generis secondo il quale Geremia esisteva prima di nascere. Così pure l’apostolo Paolo (Galati 1,15-16). Ed anche Gesù; anzi Gesù, essendo, per intervento divino, il secondo Adamo (il vero Adamo, quello perfetto8) precede tutti, e in quanto perfetto precede ogni cosa: «Egli è avanti ogni cosa» (Colossesi 1,17); «il Primo della Creazione di Dio» (Apocalisse 3,14): lo è nella mente di Dio dall’eternità, come Idea; lo è nella realtà immanente, è «il Primogenito dei morti» (Apocalisse 1,5), il primo dei risorti; «io sono il primo e l’ultimo [il primo e l’ultimo Adamo]… e fui morto, ma ecco son vivente per i secoli dei secoli…» (Apocalisse 1,18). Questi concetti nel Nuovo Testamento sono chiarissimi; semmai ci sarebbe da domandarsi se ciò che esprimono non sia valido anche per tutte le persone e per tutte le cose. Ma questo è un altro discorso. Le conclusioni di alcuni biblisti, che si appoggiano su approfonditi studi di ebraismo, sono oggi orientate ad affermare che in generale l’idea di “preesistenza” non implica una esistenza temporale e premondana; nel caso di Gesù, indica semplicemente che la persona e l’opera del Messia sono dovute interamente ad una iniziativa di Dio (K. J. Kuschel).


Rimane il fatto che la concezione del preesistente e dell’esistente, nel testo in esame, è una interpretazione arbitraria che non tiene conto della logica indicata dai termini e dalla dinamica temporale della metafora. In altre parole, il senso letterale non è il significato proprio di questo discorso; qui, più che altrove, “lettera” e “spirito” non coincidono, tuttavia il senso letterale è essenziale per uscire correttamente dalla metafora. Insomma, questo salire e scendere (nel cielo e dal cielo) non è altro che l’ispirazione profetica, come quella di Isaia, dello stesso genere (Isaia 61,1; Luca 4,18). Gesù sta dicendo che lui è il Profeta, quello per eccellenza (l’unico), perché è il solo che sia “salito” in cielo, il solo che abbia avuto la rivelazione completa e definitiva, mentre i profeti che lo hanno preceduto hanno avuto una rivelazione parziale (Giovanni 10,8; Ebrei 1,1-2). Gesù è il Figlio di Dio(3), cioè il Re per eccellenza, il Messia atteso da secoli, il Cristo (l’Unto), uno come Mosè (Deuteronomio 18,15-18). Il Nazareno, accusato capziosamente di farsi Dio dai farisei, si difende affermando di essere il Messia (cioè il Re) e quindi negando implicitamente di essere Dio; o meglio affermando di essere dio come lo erano gli antichi giudici di Israele; quelli pur essendo infedeli, Gesù essendo fedele fino al sacrificio di sé (Giovanni 10,34-36; Salmo 82,6; Atti 10,42). Anche Paolo ha avuto una conoscenza diretta del cielo, ma parziale ed ineffabile. In 2 Corinti 12,2 il grande apostolo dice: «Io conosco un uomo in Cristo [cioè lui stesso], il quale, son già passati quattordici anni, fu rapito (se fu con il corpo o con la mente, io non lo so, Iddio lo sa) fino al terzo cielo... e udì parole ineffabili, le quali non è lecito ad uomo alcuno di proferire»9. Mentre Cristo afferma di dire le cose che ha “udito dal Padre” così come le ha udite, Paolo dice che quelle udite da lui “in cielo” non è lecito all’uomo pronunciarle. Si racconta che anche Tommaso d’Aquino avrebbe avuto un “rapimento”. Secondo quanto riferisce Reginaldo da Piperno10, l’Aquinate ebbe una apparizione o un rapimento che gli permise di comprendere che tutto quanto aveva scritto e scriveva era paglia [era tutto sbagliato?] in confronto a ciò che aveva contemplato nella visione; così non volle più scrivere, e lasciò incompiuta la Summa theologiae. Ora né Paolo, né Tommaso d’Aquino, erano di natura divina per questi “rapimenti” al terzo cielo. Neanche Cristo lo era, pur essendo (a differenza degli altri) l’Uomo perfetto a immagine di Dio, il secondo Adamo, il “Figlio di Dio”, cioè il Messia, l’Unto, il Profeta per eccellenza, il Mediatore (1 Timoteo 2,5) che ha ricevuto la rivelazione completa, perfetta e definitiva salendo e scendendo dal cielo; colui che udì la voce di Dio che diceva Tu sei il mio diletto Figliuolo, in te mi sono compiaciuto; oggi ti ho generato11. Parole, queste, che affermano implicitamente che Gesù fu adottato (eletto) da Dio ad essere Cristo, Messia, Re. Adozione che, per la fedeltà al Padre (a Dio) dimostrata in parole ed opere, nell’umiltà del comportamento e nella fedeltà fino alla morte di croce, ha prodotto la risurrezione e l’elevazione di Gesù al rango e alla natura di Signore Imperituro (Filippesi 2,5-11)12. «Iddio ha fatto e Signore e Cristo [Messia] quel Gesù che avete crocifisso… dichiarato Figliuol di Dio [Messia, Re] con potenza secondo lo spirito di santità mediante la sua risurrezione dai morti, cioè Gesù Cristo nostro Signore» (Atti 2,36; Romani 1,4). In conclusione, né qui né altrove Gesù ha detto di essere Dio; ha sempre affermato di essere il Messia, seppur con prudenza e in umiltà.

(Matteo Manzella)                                                   

 

 

Note

 

1. Sulla Trinità: Matteo Manzella, L’Ultimo Adamo, Roma 2004, in particolare il capitolo V.

 

2. Maister J. Eckhart, “Ave, gratia plena”, in Sermoni tedeschi, a cura di Marco Vannini, Adelphi Edizioni, Milano 19913, pag. 51-52.

 

3. Cfr. Giulio Busi, Simboli del pensiero ebraico, Giulio Einaudi editore, Torino 1999.

 

4. Sulle contraddizioni proprie della dottrina trinitaria si veda L’Ultimo Adamo, op. citata.

 

5. Sul termine “unto” e i sinonimi cfr. le rispettive voci in Dizionario biblico a cura di Giovanni Miegge e Altri, Feltrinelli editore, Milano 1968, e Giulio Busi, Simboli del pensiero ebraico, opera citata.

 

6.  Bruce  M. Metzger, Il testo del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1996. 
 

7. Niccolò Cusano, La visione di Dio, pag. 56, Zanichelli , Bologna 1980 – Mondadori editore, Milano 1998.

 

8. 1 Corinti 15,45-49. Cfr. il mio L’Ultimo Adamo, op. citata.

 

9. La traduzione è mia, sulla scorta del Diodati; sempre del Diodati cfr. Atti 22,17.

 

10. Tommaso D’Aquino, L’uomo e l’universo (Opuscoli filosofici), a cura di Antonino Tognolo,  Rusconi Libri, Milano 1982, pag. 89.

 

11. Matteo 3,17; 17,5; Marco 1,11; 9,7; Luca 3,22; Ebrei 1,5; Salmo 2,7. Cfr. Busi, op. cit.

 

12. Filippesi 2,5-11, rimando il lettore a: Matteo Manzella, L’Ultimo Adamo, op. cit. pagg. 140-183. Sono ben 43 fitte pagine che è impossibile riassumere nel breve testo del presente studio.

 

   

 

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