giovedì 2 giugno 2011

IL PROBLEMA DELLA CAUSALITA' E DEL LIBERO ARBITRIO TRA SCIENZA E FEDE

Teologia del Nuovo Testamento
(Ho tratto questo articolo dal mio libro L'Ultimo Adamo, Roma 2004)

Prima di entrare nel vivo dell’argomento che riguarda il libero arbitrio, dobbiamo accennare ad un problema che è sempre presente tra i filosofi e specialmente tra gli scienziati: ci si chiede se la Scienza nella sua marcia verso l’acquisizione della conoscenza della Natura abbia d’avanti a sé, sullo sfondo, soltanto il Non-ancora-conosciuto o non anche e soprattutto l’Inconoscibile, qualcosa che non corrisponde o che non corrisponde più al principio di causalità, né ad alcuna legge dinamica verificabile, che è impossibile misurare, di cui non si può fare alcuna predizione certa, che non può essere scientificamente conosciuto, che si sottrae ad ogni precisa indagine per natura. La teoria dei quanti, in special modo dei quanti di energia, di Max Karl Planck e il principio di indeterminazione di Werner Karl Heisenberg, hanno molto a che vedere con la risposta a questa domanda.
a) Planck, nel dicembre del 1900, giunse alla scoperta che l’energia è costituita da elementi piccolissimi indivisibili: i “quanti” di energia. Ora, non è questo il luogo per entrare nei particolari. Qui ci basta sapere che questa caratteristica della teoria dei quanti, fino a prova contraria, non è conciliabile con la meccanica classica (quella di Newton e Galilei) specialmente se teniamo conto degli sviluppi apportati da Heisenberg. Per la fisica classica le leggi rispondono sempre, oltre che alla concezione meccanicistica della materia, al principio causale, secondo il quale per ogni “cosa” (effetto) c’è un’altra “cosa” (causa) che l’ha prodotta, in modo che tra causa ed effetto esisterebbe un legame necessario; o con altre parole: le leggi fisiche rispondono a quel principio di causalità che sarebbe «il nesso obbligato degli eventi e della loro successione nel tempo» (Planck). Poiché il principio causale non è soltanto appannaggio della Fisica, domina infatti su tutta la storia della filosofia, almeno da Aristotele fin quasi ai nostri giorni, era inevitabile che l’importante scoperta di Planck con le sue implicazioni dovesse interessare i filosofi. Planck stesso, come vedremo, espresse la sua posizione sulle conseguenze della sua scoperta anche in ambito filosofico. Con la ragione prese atto che la concezione meccanicistica della materia ormai da tempo faceva acqua da tutte le parti, ma espresse, diciamo noi, con il cuore (o con l’intuito) molta “simpatia” per la validità universale del principio di causalità e delle leggi dinamiche del mondo fisico. Si tratta dunque, almeno apparentemente, di un atteggiamento quasi ambiguo; ma se lo approfondiamo ci risulta condivisibile.
b) Heisenberg enunciò il suo principio di indeterminazione nel 1927, nell’ambito della fisica quantistica, e giunse a conclusioni filosofiche categoriche, e quasi opposte a quelle a cui giunse Planck. È impossibile misurare contemporaneamente sia la posizione e sia la velocità di una particella atomica elementare, per l’azione reciproca tra l’oggetto osservato e l’osservatore. Questo è un fatto riscontrabile in pratica nei laboratori scientifici. Per i fisici, nell’ambito della fisica classica era possibile fare delle “predizioni”, riguardo ai fenomeni che studiavano, sulla base del principio di causalità, cioè sulla base della possibilità di misurare, verificare, riprodurre in laboratorio, secondo leggi assolute; e questo significava (e in parte significa ancora oggi) fare scienza. Ora questo non è più possibile sulla base dello stesso principio causale univoco e delle leggi assolute, almeno nel caso della misurazione contemporanea della posizione e della velocità di una particella atomica elementare. È per questo che la predizione si basa su leggi statistiche, dalle quali si ottiene una previsione, non necessaria ma soltanto probabile ancorché molto vicina alla realtà, tale che dia in pratica un risultato affidabile. In altre parole, la particella non si comporta sempre allo stesso modo come ci si aspetterebbe in base alla causalità e alle leggi dinamiche, essa non è determinabile. Da ciò, secondo Heisenberg, si deve dedurre che il principio di causalità e le leggi assolute si devono ricusare perché non valide; è praticamente impossibile misurare contemporaneamente posizione e velocità, e ciò contraddice i presupposti propri delle leggi dinamiche. Soltanto le leggi statistiche (di probabilità) possono rimediare all’inconveniente. Da un punto di vista filosofico, secondo Heisenberg (che era laureato anche in filosofia), il principio di indeterminazione avrebbe un legame con il principio, che alcuni affermano, per il quale un’esistenza, in questo caso della particella, è obiettiva soltanto se può essere misurata contemporaneamente nella posizione e nella velocità e quindi predetta (riprodotta) sulla base dei dati ottenuti: non conosciamo la particella atomica visto che non siamo in grado di misurarla obiettivamente, con certezza, cioè in base a leggi assolute o dinamiche.
Se le deduzioni filosofiche di Heisenberg avessero un riscontro reale, in questo caso dovremmo concludere che, sullo sfondo della ricerca scientifica, non ci sarebbe soltanto il Non-ancora-conosciuto, ma anche e soprattutto l’Incono-scibile. 
Ora, Max Planck, il padre della fisica quantistica dell’energia, che è quella alla quale appartiene il principio di indeterminazione di Heisenberg, che cosa dice a proposito della validità o meno del principio di causalità, anche dopo la sua scoperta dei “quanti” di energia? Afferma: «Sarebbe un errore il credere che nel campo delle scienze della natura le leggi [prima fra tutte il principio di causalità] abbiano ovunque un rigore assoluto ed il succedersi dei fenomeni sia sempre necessario e non ammetta eccezioni...». Ma poco dopo aggiunge: «La fisica non può... fare a meno della premessa che esistano leggi assolute, come non può farne a meno qualunque altra scienza della natura o dello spirito», e le leggi statistiche [tanto care anche ad Heisenberg] «non avrebbero senza di quelle alcuna base». Le leggi statistiche (di probabilità, complesse) presuppongono al fondo del problema leggi dinamiche (causali, semplici), senza di che non sarebbe possibile alcuna costruzione statistica. Una legge statistica nasconde ancora in sé il problema del come essere ricondotta ai suoi elementi dinamici semplici. «Ogni statistica può dire la prima parola, ma mai l’ultima»1.
Dunque, sostanzialmente, Planck è un sostenitore del principio di causalità, seppur non in modo assoluto; ammette la possibilità di eccezioni; anche se, allo stesso tempo, la nega con molta chiarezza affermando che l’eccezione nasconde al fondo leggi dinamiche, cioè causali. In altre parole: nessun fenomeno sarebbe determinato da leggi statistiche; quest’ultime devono considerarsi come una metodica di indagine adatta per quei fenomeni nei quali il principio di causalità è ben “nascosto” e non può essere considerato come base implicita dell’indagine scientifica. C’è però una non lieve sfumatura che in questo discorso deve essere precisata. Ad onor del vero Planck ammette la validità del principio di causalità non in base ad una prova certa e inoppugnabile, oggettiva, bensì sulla base di una riflessione che appartiene all’ordine filosofico, che implica piuttosto la “fede”; secondo questa riflessione, l’esistenza del Mondo non sarebbe possibile senza la causalità (idea che condividiamo), e certamente non sarebbe possibile la conoscenza del mondo fisico. Dice: «Chi ha veramente collaborato a costruire una scienza sa per propria esperienza interiore che sulla soglia della scienza sta una guida apparentemente invisibile ma indispensabile: la fede che guarda innanzi...», la quale presuppone leggi assolute. E prende uno dei tanti esempi, quello di Giovanni Keplero, la cui esistenza trascorse in mezzo ad enormi difficoltà. Nonostante ciò – dice Planck – egli diventò il creatore dell’astronomia moderna, perché fu sorretto dalla sua fede in leggi razionali che reggono l’universo [e noi potremmo aggiungere che la credenza nel “caso” o nella irrazionalità non consentirebbe risultati scientifici apprezzabili: sarebbe come cercare al buio un ago in un pagliaio senza sapere se ciò che si cerca esista veramente]. In questi casi ed in altri simili (ve ne sono tanti), «la fede [che presuppone leggi assolute] è la forza che dà efficacia al materiale scientifico radunato (dal ricercatore), ma si può andare ancora un passo avanti, ed affermare che anche nel raccogliere il materiale la preveggente e presenziente fede in nessi più profondi può rendere dei buoni servigi», frutti tangibili di quella fede che ammette leggi razionali, assolute, che reggono l’Universo2.
Certamente affermare che queste leggi razionali possono definitivamente riassumersi con assoluta certezza nel principio causale sarebbe dogmatico e contrario al modo di pensare scientifico; ma è altrettanto evidente che l’esistenza del Mondo non si può fondare unicamente sul caso o sull’irrazionalità, né si può ammettere che quest’ultima vi abbia, almeno in qualche modo, una parte essenziale. Si può discutere se queste leggi siano trascendenti o immanenti [propendiamo per quest'ultima ipotesi]; ma se si ammette che l’uomo può conoscere, che la conoscenza è possibile, che è una realtà (senza di che non potremmo essere certi neppure della nostra stessa personale esistenza), bisogna ammettere che l’Universo visibile e invisibile è retto da “leggi razionali” che l’indeterminatezza evidenziata dal principio di Heisenberg non può annullare; che il principio causale esprime egregiamente la razionalità di queste leggi, almeno fino a vera prova contraria. E perciò possiamo rispondere alla domanda che ci siamo posti all’inizio di questo articolo, se, cioè, ci sono coseinconoscibili per natura oppure no. Non possiamo umanamente affermare che l’uomo conoscerà tutto, ma possiamo dire che è possibile conoscere tutto, anche se di fatto l'uomo conosce poco rispetto all'Universo infinito che mai conoscerà per intero. E dunque, in quanto è possibile conoscere tutto (sottinteso: tutto ciò che esiste), si può enunciare la seguente tautologia: tutte le “cose” esistenti, quelle conosciute e quelle non ancora conosciute, esistono e sono conoscibili; ovvero: esistono le “cose” conosciute e le “cose” conoscibili. Di sicuro questa affermazione è lapalissiana, e si può dire anche come segue: non esistono “cose” inconoscibili per natura; oppure: le “cose” che esistono, esistono anche se non sono conosciute. San Paolo afferma: «Noi conosciamo in parte... ma quando la perfezione sarà venuta, quello che è solo in parte, sarà abolito... [diverrà superato] ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia [senza mediazione]; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente...» (1 Cor. 13,9-12). E Gesù dice: «Beati i puri di cuore, perché vedranno [conosceranno] Dio» (Matt. 5,8). Ed ancora: Non temete, «perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati» (Luca 12,7); affermazione che implica una “mente”, la quale, almeno per il punto di vista della scienza, è immanente; si identifica con le “cose” stesse. Proprio perché l’Universo è retto e governato dalla Razionalità, dalla Parola [il Logos immanente, il ruah], nulla dell’Universo è precluso per natura alla conoscenza umana. Bisogna concludere che la Scienza, nel formulare le leggi fisiche, ha d’avanti a sé il Non-ancora-conosciuto, non ha l’Inconoscibile. Perciò, senza scomodare una qualche teoria della conoscenza (nel qual caso dovremmo rivedere tutta la storia della filosofia), affermiamo che l’uomo può conoscere non soltanto come possibilità “obiettiva-soggettiva”, ma anche come possibilità “oggettiva”, e questa possibilità ovviamente vale anche e soprattutto per la conoscenza del mondo fisico. Forse (diciamo forse) vi è una sola cosa che potrebbe essere inconoscibile: il nostro Io. L’uomo non può conoscere pienamente e oggettivamente il proprio Io. Paolo di Tarso afferma che alla risurrezione (da pneumatici) conosceremo anche come Dio ci ha conosciuti (1 Corinti 13,12 u.p.).
Fin qui abbiamo affermato la validità del principio causale almeno nelle scienze della natura. Ora è giunto il momento di domandarci se questo principio è valido nelle scienze dello spirito, se l’uomo è governato sin nei suoi pensieri dalla legge causale, se è determinato da questa oppure no. Insomma, l’uomo è dotato di libero arbitrio? Ecco la domanda delle domande! Certamente, almeno di primo acchito, ammettere che neppure l’uomo possa sfuggire alla causalità, potrebbe significare che sia sottoposto al più stretto determinismo, nel quale non avrebbe posto il libero arbitrio. Tuttavia, è proprio così: anche l’uomo non può sfuggire (o non può sfuggire del tutto?) alla legge di causalità, al Fato direbbe Plutarco. E allora?
Dal punto di vista della teologia biblica (ora è di questo che stiamo parlando) dobbiamo innanzitutto distinguere l’uomo perfetto dall’uomo cosiddetto decaduto (quello fuori dall’Eden), o meglio: il perfetto e l’uomo che perfetto ancora non è. L’Uomo perfetto è perfettamente a immagine di Dio, in ciò consiste la sua perfezione (che è la sua “divinità”); l’uomo imperfetto è tale perché deve ancora, per così dire, completare in se stesso quella immagine o “natura” necessaria per giungere ad essere «di poco inferiore a Dio» (Salmo 8,4-5; Cfr. 2 Pietro 1,4), deve ancora rivestirsi di Cristo, per poter essere conforme alla sua immagine, che è immagine di Dio (Rom. 13,14; 8,29; 2 Cor. 4,4; ecc.). Il primo è ideale, il secondo è reale. Di uomini ideali, o meglio in questo caso semplicemente perfetti (realmente perfetti), “divini”, per adesso – secondo il Nuovo Testamento – ce n’è soltanto uno: il Messia Gesù, Signore “alla destra di Dio” (Rom. 8,34), «coronato di gloria e di onore a motivo della morte che ha sofferto» (Ebr. 2,9), il Primo (Col. 1,18); duce e perfetto esempio di fede (Ebrei 12,2). Tutti gli altri uomini reali sono ancora lontani dalla perfezione, compresi coloro che sono già sulla via per conseguirla grazie a Cristo Salvatore.
Se esaminiamo il problema del libero arbitrio riferendolo all’uomo ideale (quello perfettamente a immagine di Dio), dobbiamo subito affermare che l’uomo perfetto, cioè “divino”, non ha bisogno del libero arbitrio. Dio, infatti, di cui l’uomo ideale in questo caso è perfetta immagine, non è in balia del libero arbitrio. Esprimendoci qui necessariamente con concetti e termini antropomorfici, dobbiamo dire che Dio non ha bisogno di ponderare i suoi pensieri e le sue azioni per decidere (liberamente) di fare o di non fare qualcosa. Dio è l’autore del Bene; egli compie soltanto il bene (che è tale perché è da lui voluto), senza bisogno di ponderare il da farsi, lo compie in modo infallibile. Anzi, ciò che egli compie (la sua azione e ciò ch’essa produce) è bene, per natura. Non è infallibile per il fatto che sa ponderare bene (perfettamente) le decisioni da prendere; al contrario, egli non le pondera affatto perché è infallibile, e dunque non ha bisogno di ponderare, di pensare e di scegliere; egli è veramente libero in quanto, per natura, non può sbagliare. Il Bene e il Male non sono enti reali e in sé che Dio deve adottare o respingere; per cui dovrebbe adottare il Bene (o adeguarsi ad esso) per essere Buono, ovvero respingere il Male per non essere Cattivo. Ciò che Dio vuole è Bene (e tautologicamente vuole soltanto ciò che vuole), e ciò che vuole egli anche compie infallibilmente. Pertanto, che l’uomo perfetto sia perfettamente a immagine di Dio, vuol dire che la sua natura, che Dio onnipotente e sovrano ha resa perfetta per grazia, non può sbagliare. Significa che le sue decisioni, e il suo comportamento conseguente, avvengono spontaneamente senza incorrere in errori, senza possibilità di compiere il male; e questo significa che opera bene senza ponderare una scelta. Ribadiamo ancora una volta che il male non è qualcosa di reale in sé che l’uomo può prendere o rifiutare, adottare o respingere; il male è il comportamento (dell’uomo) contrario al volere di Dio, è la trasgressione della legge divina intesa nel senso più ampio. E se l’uomo (l’individuo) non è chiamato ad una scelta per natura, non c’è libero arbitrio, non ce n’è bisogno; è veramente libero dal male in quanto non è soggetto ad errori; la preghiera insegnata da Gesù (...liberaci dal male...) sarebbe qui pienamente e definitivamente esaudita. È evidente che ci stiamo riferendo all’uomo pneumatico, di cui Paolo parla nella sua prima lettera ai Corinti; è l’uomo che abiterà i “nuovi cieli e nuova terra” di cui si parla nella seconda lettera di Pietro; ci stiamo riferendo ai risorti, all’uomo del futuro, che – secondo il Nuovo Testamento – Dio trasformerà alla risurrezione dell’ultimo giorno (1 Corinti 15,51) rendendolo per natura immune dal trasgredire la legge divina, sicché il suo comportamento sarà conforme a Cristo [con la stessa forma, con la stessa essenza] e quindi alla natura divina, propria di tutti gli esseri pneumatici.
Ma se ci riferiamo all’uomo reale, quello attuale, che marcia o che dovrebbe marciare verso la perfezione, evidentemente necessita del libero arbitrio perché deve prendere continuamente decisioni ponderate (così Dio lo ha creato, secondo la metafora edenica), per le quali sarà responsabile di fronte ai suoi simili, di fronte a Dio e di fronte alla propria coscienza. Se per lui non ci fosse libero arbitrio, non ci sarebbe neppure responsabilità. L’uomo attuale può compiere sia il male che il bene (cioè azioni buone e azioni cattive), liberamente, in base alle sue scelte responsabili, proprie della sua volontà e della sua natura anche se (o per il fatto che) quest’ultima è ancora imperfetta. Dio dice: «Io pongo davanti a te la vita e il bene, la morte e il male... scegli dunque la vita» (Deut. 30,15,19). E Paolo afferma: «Tribolazione e angoscia [vi è] sopra ogni uomo che fa il male; sul Giudeo prima e poi sul Greco; ma gloria, onore e pace a chiunque opera bene...» (Rom. 2,9-10). L’operare dell’uomo comporta una scelta, e la responsabilità della scelta comporta una scelta libera, la quale è personale sia nel merito che nel demerito. Perciò il profeta Ezechiele dice: «Il figlio non porterà l’iniquità del padre e il padre non porterà l’iniquità del figlio; la giustizia del giusto sarà del giusto, l’empietà dell’empio sarà dell’empio» (18,20). Ma, affinché la responsabilità personale dell’uomo sia piena e quindi veramente frutto della volontà dell’uomo, cioè del suo libero arbitrio di uomo ancora imperfetto, è necessaria la conoscenza di ciò che è conforme alla volontà di Dio e di ciò che non lo è; e solo a questa condizione l’agire dell’uomo può essere pienamente responsabile di fronte a Dio. Ma l’uomo attuale, come abbiamo già detto, non essendo ancora perfetto, quand’anche si trovi nella condizione effettiva di conoscere (seppur in una certa misura) non sempre è in grado di conoscere veramente e profondamente qual sia il vero bene, cioè di valutare perfettamente il da farsi, quali siano le azioni da compiere per avere un comportamento conforme alla volontà di Dio; se lo fosse compirebbe il bene di certo (e sarebbe uomo perfetto), perché – come giustamente diceva Socrate – chi conosce il vero bene non può non fare il bene: nessuno vuole il suo proprio male, nessuno compie delle azioni inique allo scopo di subirne le conseguenze, per il solo “piacere” di soffrire. Da questo intreccio di conoscenza, valutazione e azione pratica e reale, l’uomo naturale attuale esce più o meno sconfitto, spesso compie il male che non vorrebbe compiere e non compie il bene che vorrebbe compiere (Rom. 7,14-25). Perciò Dio giudica le azioni umane non tanto in se stesse, ma piuttosto nelle intenzioni più profonde di colui  che le commette, perché conosce anche i pensieri degli uomini (Salmo 94,11; 139,23; Isaia 66,18; Atti 17,30-31; Rom. 2,16; 1 Cor. 4,5; 1 Pietro 1,17). Jhwh ha deciso comunque, in base alla sua insindacabile volontà, di salvare dal “fuoco” del rimorso, che è proprio del “giorno” eterno della risurrezione dei morti, coloro che hanno creduto nel suo Messia e che hanno già dato inizio, durante la loro vita “terrena”, alla nuova nascita spirituale, preludio o caparra del corpo pneumatico con il quale, alla parusia del Signore, l’uomo sarà (finalmente!) liberato definitivamente e totalmente dal male e dalla schiavitù dell’errore, secondo la preghiera degli stessi credenti (Matt. 6,13: rysai êmâs apò tou monêrou; liberaci dal male: traduz. C.E.I.), cioè “liberaci dalla possibilità o dal pericolo di sbagliare, di commettere il male, volontariamente o involontariamente” non importa. Per questo in quel giorno, cioè nella nuova creazione, il libero arbitrio non avrà più la sua ragion d’essere: ogni persona (pneumatica) sarà perfettamente a immagine di Dio: Jhwh sarà ogni cosa in tutti (Cfr. 1 Cor. 15,28).
Ma l’uomo reale, quello attuale, gode veramente del libero arbitrio? È libero di volere, di giudicare, di scegliere e di agire in base alle proprie decisioni? Certamente sì, ma nei limiti di cui abbiamo discusso qui sopra, che sono i limiti propri dell’essere psichico, come lo definisce Paolo. E il Fato, vale a dire la legge necessaria di causa-effetto, che ruolo ha riguardo all’uomo?
Leone Tolstòj in Guerra e pace, alla conclusione dell’opera, cioè nell’Epilogo (nell’edizione integrale Einaudi3 un totale di 103 pagine, un vero trattato sulla filosofia della storia), imposta bene il problema; dice:

«Guardando l’uomo come oggetto di osservazione da un punto di vista qualsiasi – teologico, storico, etico, filosofico – noi troviamo una legge generale di necessità alla quale egli è soggetto come qualunque altro essere. Guardandolo invece dal nostro intimo, come oggetto della nostra coscienza, ci sentiamo liberi... Attraverso la ragione l’uomo si osserva; ma si conosce soltanto attraverso la coscienza... Per comprendere, osservare, concludere, l’uomo deve prima aver coscienza di essere vivo. E l’uomo non si riconosce vivo se non volendo, cioè avendo coscienza della propria volontà. E della sua volontà, che forma l’essenza della sua vita, l’uomo non ha e non può avere coscienza se non sentendola libera... Una serie di esperienze e di ragionamenti mostra a ciascun uomo che egli, come oggetto di osservazione, è sottoposto a certe leggi... che quella piena libertà della quale ha coscienza in sé, non è possibile... [e tuttavia] non si sottomette mai alle conclusioni di queste esperienze e di questi ragionamenti... Tutti i suoi desideri nella vita non sono che aspirazioni verso un aumento di libertà... Rappresentarsi un uomo che sia privo di libertà [per natura] non è possibile, se non rappresentandoselo privo di vita».

Il problema sembra insolubile (e forse lo è). Se si nega il principio di causalità le leggi di Keplero e di Newton sarebbero una illusione, un accomodamento della nostra mente che “inventa” qualcosa per giustificare il movimento dei corpi celesti; se invece lo si ammette, non si può fare a meno di estenderlo anche all’uomo4. Perciò Tolstòj afferma ancora:

«La prima esigenza della mente è la supposizione e la ricerca della causa [necessaria], senza la quale non è concepibile nessun fenomeno. Io alzo la mano per compiere un atto indipendente da qualsiasi causa; ma voler compiere un atto che non abbia causa è la causa del mio atto... Se fosse possibile la libertà senza la necessità, giungeremmo ad una incondizionata libertà al di fuori dello spazio, del tempo e delle cause, la quale, per il fatto stesso di essere incondizionata e non limitata da nulla, non sarebbe nulla o sarebbe soltanto un contenuto senza forma».

Tutto questo è implicito in quel concetto che l’apostolo Paolo esprime nel contrapporre l’essere naturale all’essere spirituale, là dove dice che «La persona (sôma) è seminata psichica, e risuscita pneumatica... Il primo uomo, Adamo [l’umanità], divenne [divenne!] anima vivente; l’ultimo Adamo [Cristo] è pneuma vivificante. Però, ciò che è pneumatico non viene prima; ma prima, ciò che è psichico; poi viene ciò che è pneumatico. Il primo uomo, tratto dalla terra, è terrestre; il secondo uomo [il Risorto] è dal cielo. Quel è il terrestre [Adamo], tali sono anche i terrestri [i discendenti di Adamo]; e quale è il celeste [il Risorto], tali saranno anche i celesti [i risorti, di cui Cristo è il primo]. E come abbiamo portato [portiamo] l’immagine ( eikóna, morphê ) del terrestre [Adamo], così porteremo anche l’immagine del celeste [del Risorto, del Signore Gesù]» (1 Cor. 15,42-49). Dunque, poiché i risorti avranno (o saranno) la stessa “natura” o immagine di Cristo, il quale è immagine di Dio, è evidente che avranno le stesse possibilità di Cristo e che i limiti propri del corpo psichico saranno superati e che la condizione dell’uomo sarà nuova ed inimmaginabile rispetto a quella attuale. In una parola, l’uomo sarà dio, incorruttibile, imperituro, cioè avrà raggiunto la meta a cui Dio stesso lo ha destinato creandolo: la condizione perfetta di “essere umano” (Salmo 8,4-5; 1 Cor. 15,51-53; 2 Pietro 1,4).
Max Planck con un ragionamento molto convincente ci induce ad ammettere che l’ipotesi di un avvenimento che accada senza alcuna causa è perfettamente compatibile con la logica formale; che pertanto sulla validità della legge causale nulla può dirci la logica5. Benissimo. Ma in effetti il problema è posto dalla seguente domanda retorica: ci sono prove vere e proprie che ci portano ad ammettere che il principio di causalità non sia universalmente valido? Abbiamo già visto che il principio di indeterminazione di Heisenberg non è tale da convincerci ad assumere una posizione contraria al principio di causalità. Quella misurazione “impossibile” che si misura statisticamente perché risulti comunque utile alla scienza, presuppone la forte probabilità o la quasi certezza che si potrebbe ricondurre ai principi delle leggi dinamiche, che sono causali, senza di che, forse, non ci potrebbe essere vera scienza; e questo fatto, per quanto ci riguarda, è sufficiente a rafforzarci nella convinzione che ogni avvenimento è conseguenza necessaria di uno o più avvenimenti dai quali è prodotto, e ciò dall'eternità. Certamente è probabile (lo ammettiamo!) che un giorno più o meno lontano o più o meno vicino si scopra in modo incontestabile che la causalità non è valida. Ma questa probabilità è equivalente alla probabilità che un giorno si possa scoprire che esistono somari con le ali i quali per di più diventano invisibili volando.
Certamente la causalità non è qualcosa di reale e in sé, è la dipendenza di un avvenimento da un altro avvenimento, legati da un nesso necessario, immanente, sicché uno è definito effetto e l’altro causa. Se non vi fosse questa “necessità” non saremmo più sicuri di niente; e, per quanto riguarda il mondo macroscopico, domani mattina potremmo vedere sorgere il Sole da occidente invece che da oriente, mentre per quanto riguarda il mondo microscopico potremmo constatare nei laboratori di fisica atomica che la struttura dell’atomo è improvvisamente cambiata e che la materia ha assunto caratteristiche nuove, impreviste e imprevedibili. Certo abbiamo esagerato un po', ma il concetto è chiaro.
Per quanto riguarda l’uomo, concordiamo con Tolstòj quando dice che «sempre ogni atto di un uomo ci si presenta come una certa unione di libertà e di necessità»; e questo per noi significa che nessuno ha ancora il corpo pneumatico di cui parla Paolo come di una necessità per godere della vita imperitura; quel corpo ovviamente ha cittadinanza soltanto nella nuova creazione della quale per adesso non possiamo sapere se sarà governata ancora dal principio causale; ma nell'ipotesi che quest’ultimo si identifichi con il ruah (con il Vento di Dio) allora certamente sarà governata ancora da questo principio, ma in modo nuovo, così da determinare appunto una nuova creazione.
Da un punto di vista puramente soggettivo riteniamo, in ogni caso, che se l’uomo fosse destinato a rimanere eternamente in quello stato per il quale non sarebbe né interamente sottoposto alla legge di necessità né interamente libero di volere e di agire [chi mi libererà da questo corpo di morte? Rom. 7,24], allora sarebbe preferibile quello stato ipotetico che lo vuole interamente sottoposto alla divina legge causale, al Fato, cioè determinato necessariamente sia nel volere che nell’agire. Ma su questo si può ovviamente dissentire a maggior ragione. Tuttavia un concetto affine è implicitamente ammesso da Paolo quando afferma: «È Dio che produce in voi il volere e l’agire, secondo la sua benevolenza» (Filippesi 2,13). Ma implicitamente dice pure che l’uomo è libero di volere, però molto meno libero di mettere ad effetto i suoi propositi. L’apostolo evidentemente fa appello alla volontà quando dice «siate trasformati per il rinnovamento della vostra mente...», ma ammette che ci sono delle difficoltà soggettive [spesso ci sono difficoltà anche oggettive] a compiere il bene che si vuole compiere [Rom. 7,14-25; Gal. 5,17]; e prosegue: «...affinché conosciate per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta volontà» (Rom. 12,2). Dunque – secondo il Nuovo Testamento – per conoscere veramente la volontà di Dio, alla quale bisogna adeguare la propria volontà, è necessario il rinnovamento della propria mente, una trasformazione della persona, che comincia al momento in cui inizia la fede e la conversione (ma senza escludere la Ragione, che rimane comunque al primo posto, per sempre), conversione che sarà totale e perfetta soltanto alla parusia di Cristo, nella nuova creazione.
Max Planck, alla fine del suo discorso sul libero arbitrio, ci ricorda che «Dalla collaborazione delle forze dell’intelletto con quelle della volontà la filosofia ricava il suo frutto più maturo e più prezioso: l’etica»6. E la Bibbia – come abbiamo notato più sopra – ci racconta che Dio ha esortato il suo popolo a scegliere il bene (Deut. 30,19). Se questa scelta (che implica la libertà della persona) non fosse possibile, se non ci fosse libertà di scelta per natura, il progresso dell’umanità non si potrebbe realizzare neppure secondo la concezione della dottrina dell’evoluzionismo, la quale: o presuppone una serie di libere scelte da parte dell’uomo (ma in base a quale criterio?); o si presenta come una probabilità dipendente automaticamente e unicamente dal caso (senza alcun criterio); e in quest’ultima ipotesi (se cioè il mondo fosse interamente e unicamente in mano al caso e all’arbitrio assoluto) l’obiettivo della marcia per il progresso morale e materiale (ammesso che in questa situazione si possa parlare di un obiettivo) sarebbe quasi certamente irraggiungibile. Paolo invece ci dice che tutto è opera del Creatore, che in lui viviamo e siamo (Atti 17,28; Rom. 11,36). In Lui – leggiamo in Giac. 1,17 – «non c’è variazione [le leggi sono assolute] né ombra di mutamento». E Pietro ci ricorda che secondo la promessa di Cristo «aspettiamo nuovi cieli e nuova terra nei quali abiti la giustizia» (2 Pietro. 3,13), e qui il termine “giustizia” va inteso nel senso più ampio e onnicomprensivo, vale a dire nel significato che ha in ultima istanza: quello di “perfezione” divina che è sinonimo di “amore”. (Matteo Manzella)

Note

1. Max Planck, Leggi dinamiche e leggi statistiche, in: La conoscenza del mondo fisico, traduz. di Enrico Persico, Giulio Einaudi editore, Torino 1954, cap. III. Le citazioni testuali sono alle pagine 59, 69, 71.
2. Max Planck, Scienza e fede, in: La conoscenza del mondo fisico, traduz. di Enrico Persico, Giulio Einaudi editore, Torino 1954, cap. XII, pagine 291-295.
3. Lev Tolstòj, Guerra e pace (due volumi), traduz. ital. di Enrichetta Carafa d’Andria, Giulio Einaudi editore, Torino 19502. I brani da noi citati, da qui in avanti, si trovano nel Volume Secondo, alle pagine 693. 694, 697, 703, 704.
4. Cfr. Max Planck, La conoscenza del mondo fisico, opera citata; particolarmente i capitoli III, V, X, XII. Lev Tolstòj, Guerra e pace, op. citata, “Prologo”, parte II.
Il concetto di libero arbitrio – che nega o sembra negare il principio di causalità – in ultima istanza si identifica con il concetto di libertà. Ma esprimere il concetto di libertà è pressoché impossibile, prova ne siano le varie concezioni della libertà che troviamo nella storia della filosofia. Un tentativo, non troppo riuscito, di aggirare l’ostacolo è quello di precisare chi o che cosa è libero: È libero ciò che è (o colui che è) “causa di se stesso”. Ma l’uomo come causa di se stesso, è tale soltanto come possibilità di scelta? Comunque sia, il problema è, appunto, conoscere se l’uomo è inconsapevolmente sottoposto ad una legge di natura (immanente) che determini il suo volere e le sue azioni. Se c’è nell’uomo questo determinismo, indubbiamente è determinato anche il risultato dell’indagine intesa a stabilire se c’è o no questo determinismo; mentre se non c’è determinismo, non potendo evidenziare alcuna prova oggettiva a sostegno di ciò (perché è impossibile) non possiamo considerare decisiva quella soggettiva per la quale ci sentiamo liberi. Ecco il vero problema. Eppure l’esigenza di una risposta soddisfacente è evidente. Perciò Max Planck dice: «La questione se la volontà umana sia libera o no è di esclusiva pertinenza della nostra coscienza e non può essere decisa che dal nostro io» (La causalità nella natura, in: La conoscenza del mondo fisico, op. citata, pag. 268).
5. Max Planck, Legge di causalità e libero arbitrio, in: La conoscenza del mondo fisico, opera citata, cap. V, particolarmente pag. 101
6. Ibidem, pag. 138.

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lunedì 7 marzo 2011

ALCUNI CONCETTI RIGUARDO ALLA PROBLEMATICA TRINITARIA

di Matteo Manzella


Secondo la Bibbia è Dio stesso che, parlando a Mosè, spiega il significato [o uno dei significati?] del suo nome (Jhwh). «Dirai così ai figli d’Israele:”l’Io Sono mi ha mandato da voi”» (Esodo 3,14). Questo significato non implica in nessun modo il concetto di Trinità. Ma i trinitari non si rassegnano; affermano: alla creazione del mondo, in Genesi 1,26, là dove Dio si accinge a creare il capostipite dell’umanità, è detto: «Dio [‘elóhîm] disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine…». Il plurale espresso nelle parole “facciamo” e “nostra” implica che Dio è trino.

Rispondiamo: Non è così! Una prima considerazione, spicciola ma significativa, è la seguente: se dal plurale di Gen. 1,26 dovessimo dedurre che Dio è trino, allora dovremmo (come infatti possiamo) dedurre dal singolare di Esodo 3,14 che Dio è Uno, e che se fosse trino dovremmo trovare “Noi Siamo” e non “Io Sono”. Il termine “Dio” è generico, e nel suo significato non si opporrebbe al concetto di Trinità; ma JHWH vi si oppone perché significa “Io Sono”, è l’ESSERE, e l’essere divino è semplice, uno, e indivisibile. Non è possibile scegliere l’uomo (come invece fanno i trinitari) per l’analogia intesa a spiegare che la dottrina trinitaria non si opporrebbe alla ragione. Se l’uomo è creato a immagine di Dio (come infatti afferma la Bibbia) e fosse vero che Dio è tre persone, allora anche l’uomo dovrebbe essere costituito da tre persone (attenzione: “persone”, non “parti”; l’analogia riguarda la persona), ma non è così: l’uomo è una persona, non tre! Francesco è uno perché la persona è una e non è mai in unità sostanziale con altra o altre persone. E questo è assolutamente vero anche riguardo a Dio. Il Creatore è semplice (non composto); l’uomo è una unità tautologicamente composta di parti, ma non di più persone; la persona è una sola perché è l’unità. Dire “persona”, dire “sostanza”, dire “unità” ̶ riguardo all’uomo ̶ significa dire la stessa cosa. Se dunque l’uomo è una sola persona, si potrebbe dedurre che Dio non è trino, dato che l’uomo fu fatto a immagine di Dio. In realtà l’immagine di Dio è l’uomo nella sua natura perfetta, non è Dio. L’immagine di una cosa non è la cosa stessa di cui è immagine. Certamente non si tratta di “immagine” analoga alla natura di Dio. Di sicuro non c’è nessuna analogia tra l’uomo e il Dio dei trinitari; e non c’è nessuna analogia neppure con qualsiasi altra cosa antropomorfica e mondana. L’affermazione della Trinità è certamente una forzatura della ragione con la quale si vorrebbe giustificare (prescindendo dalla fede) la credenza nella divinità di Gesù Cristo.

Vi è poi una spiegazione che riguarda l’uso della lingua semitica nell’ambito della concezione politeista, che con il termine ‘elóhîm (divinità, l’insieme di tutto il divino) esprimeva Dio al plurale. Evidentemente, in quel momento storico, il termine non poteva essere che il plurale della lingua semitica, perché esprimeva bene l’idea di divinità, perciò fu usato anche per il monoteismo. Per questo le parole plurali “facciamo” e “nostra” era necessario che si accordassero con il termine plurale che indicava la divinità. Il singolare El (dio) indicava uno degli dèi, non esprimeva la pienezza della Divinità. In sostanza ‘elóhîm è un termine obbligato per necessità linguistica a cui si accorda “facciamo”, e non implica una concezione trinitaria di Dio. ISAAC ASIMOV, uomo di scienza, scrittore e saggista, nella sua opera che ha per argomento il primo libro della Bibbia, cioè Genesi, intitolata In principio (Oscar Mondadori, Milano 19995) ci ricorda che «gli Israeliti e tutti i popoli circostanti… parlavano di “dèi” anziché di “Dio”: ossia, in ebraico, di Elohim anziché di El. Elohim diventò un’espressione tanto familiare da essere inseparabile dalla divinità… Ciò spiegherebbe anche l’uso del “facciamo” e del “nostra”…» (pag. 76).

Il discorso della filosofia trinitaria inizia considerando due concetti contrapposti come se fossero concordi: afferma che Dio non è “composto” e nel contempo che è “Unità”. A nostro parere, il “composto” è certamente un tutto, ma ovviamente un tutto formato (o composto, appunto) da parti, le quali costituiscono quella sostanza o “composto” (quel tutto). Le “parti” di quel tutto (o “composto”) sono sostanziali ancorché diverse (la forma di una statua non è la materia della statua…); le parti sono proprie di quel tutto (non sono “aggiunte”), per questo viene definito Unità: ciascuna delle parti è inseparabile dalle altre e dal tutto. Si precisa, inoltre, che Dio è “semplice”, ma si pretende che questa affermazione non sia in contraddizione con la precedente (che afferma che Dio è Unità). Ammesso che Dio sia Unità, domandiamoci: che cosa sono più precisamente le “parti” che la compongono? dato che una Unità priva di parti non è niente! Aristotele insegna: «Parti sono quelle in cui il tutto… si compone»; «Tutto si chiama… ciò che contiene le cose in maniera tale che esse costituiscano una unità… quando vi sia una unità costituita da una molteplicità di parti». Non siamo d’accordo con Aristotele quando chiama “unità” indifferentemente quella costituita da una molteplicità di parti e quella che è formata da una sola “parte” o meglio da una sola realtà immateriale (semplice). Tuttavia condividiamo il pensiero di Aristotele quando afferma che l’unità può essere costituita da una molteplicità di parti, anche se, secondo noi, deve essere costituita da una molteplicità di parti, altrimenti piuttosto che una unità sarebbe un semplice. Ora secondo i trinitari Dio sarebbe Unità e Semplice allo stesso tempo, il che è impossibile. Il Catechismo dice: «Il Padre è tutto ciò che è il Figlio, il Figlio tutto ciò che è il Padre, lo Spirito Santo tutto ciò che è il Padre e il Figlio, cioè un unico Dio quanto alla natura» [ma in Dio c’è qualcos’altro oltre alla sua propria natura?]. Questa è un’affermazione doverosa del Catechismo che, giustamente, è stata fatta per evitare che si possa concludere che ci sono tre dii. Ma facendo questa precisazione i trinitari affermano implicitamente che non c’è distinzione delle tre persone, vale a dire che non ci sono tre persone perché sono identiche. Perciò si è cercato di correre ai ripari, affermando: «Il Figlio non è il Padre, il Padre non è il Figlio, e lo Spirito Santo non è il Padre o il Figlio». Questa affermazione contraddice la prima. Secondo noi, la proposizione «il Padre è…» (oppure: «il Padre non è…») implica l’essere, la sostanza; “essere qualcosa” (o “non essere qualcosa”), riguarda l’essenza, perché l’essenza è la risposta alla domanda «che cosa?»; che cosa è questo? che cosa non è? Se si dice che ognuna delle tre persone è ciò che sono le altre due, e che ciascuna delle tre non è nessuna delle altre due, si esprime una contraddizione in termini che poggia sul presupposto erroneo che in Dio vi possa essere distinzione tra “essenza” e “persona”, talché Dio come essenza sarebbe “così” e come persona (o persone) sarebbe “cosà”, dove “così” e “cosa” esprimerebbero appunto (come infatti esprimono) una contraddizione in termini. Questi concetti sono bene o male mutuati dall’essere umano, definiti per astrazione, e applicati a Dio. Ma l’Eterno, per bocca del profeta Isaia, dice: «A chi mi vorreste assomigliare?» (40,25). Non è possibile applicare a Dio concetti necessariamente antropomorfici e mondani. Allora si è fatta una ulteriore precisazione; dice ancora il Catechismo: «La distinzione reale delle Persone divine tra loro, poiché non divide [?]l’unità divina, risiede esclusivamente nelle relazioni che le mettono in riferimento le une alle altre». Osserviamo: 1) la preposizione “tra” non implica almeno due realtà distinte, cioè almeno due sostanze tra le quali “corre” la relazione? Se non ci sono almeno due realtà distinte (realmente distinte!), in questo caso almeno due “dii”, non può esserci distinzione reale e quindi non può esserci relazione alcuna. 2) Chi o che cosa sono “le une” e “le altre” di cui si parla nel Catechismo? Sono qualcosa o sono niente? Se sono qualcosa, sono qualcosa di sostanziale, perciò tre “dii”, dato che se in Dio c’è qualcosa non è nulla di accidentale: tutto ciò che è in Dio è “Dio”. Se invece “le une” e “le altre” sono niente, allora non c’è distinzione e non c’è una pluralità di persone. Insomma se c’è distinzione, questa non può che essere reale, perché in Dio è tutto “reale-sostanziale”. Cartesio diceva che «la “distinzione reale” in ogni caso si riferisce a due o più sostanze», e il Catechismo parla di «distinzione reale delle Persone» in Dio. E poiché è inammissibile considerare l’essenza e la persona come se fossero cose diverse [in definitiva ipostasi e prosopon indicano la stessa cosa], dobbiamo concludere che la dottrina trinitaria ci porta ad affermare che ci sono tre dii, visto che le Persone divine (tre persone!) sono realmente distinte, cioè: sostanzialmente distinte, che in Dio è la stessa cosa se si ammette, come ammettono i trinitari, che Dio è Sostanza. Si è cercato di spostare la distinzione reale dalle persone alle relazioni. Ma se la relazione è reale in sé, essendo in Dio, questa realtà coinciderebbe con la sostanza divina e la dividerebbe, perché se non la divide bisognerebbe ammettere che non c’è “relazione tra” (e se non c’è “relazione tra”, non ci sono persone); se invece c’è “relazione tra”, allora la sostanza divina è divisa (o replicata), ci sarebbero più sostanze distinte in Dio che relazionerebbero tra loro… eccetera, eccetera. Si dirà: non è la sostanza a relazionare, ma la persona. Questo è vero e non è vero, perché almeno in Dio la persona non è accidente della sostanza. In Dio tutto deve essere sostanziale. In lui la persona è la sostanza stessa! Insomma, ipotizzare delle relazioni in Dio allo scopo di spostare il problema dalle persone alle relazioni non è una soluzione; significa ripetere la stessa problematica, che deriva da un fatto semplicissimo dal quale non si esce: che tre non possono essere uno. Questo è il problema! Ed è un problema creato dai trinitari e mai risolto. Se una è l’essenza divina, una è la persona divina; perché non c’è distinzione tra essenza divina e persona divina. Dio è soltanto Essenza (una Essenza); ovvero, è soltanto Persona (una Persona). Dire «Dio è soltanto essenza» equivale a dire «Dio è soltanto Persona» e viceversa, perché le due proposizioni esprimono la stessa identica cosa. Non c’è Trinità! Se poi si dice che ci sarebbe vera distinzione tra essenza divina e persona divina (incredibile!), avremmo una sola essenza divina e tre persone, ma come si ha per il genere umano: molti individui di essenza umana; così ogni “Persona-Dio” (Padre, Figlio, Spirito) possiederebbe l’essenza divina (divisa o replicata, non importa), e questo significherebbe propriamente politeismo. Certamente i trinitari nel formulare la loro dottrina intendono affermare il monoteismo; ne prendiamo atto. Ma ci sembra che insistendo sulla divinità di Cristo e sulla fede trinitaria che ne è la diretta conseguenza, rischiano di dimostrare il contrario di ciò che intendono dimostrare. In realtà la Trinità è impossibile; è contro ragione. E poiché la dottrina trinitaria è assente nella Bibbia (non c’è neppure per implicito: Cristo non è Dio, è il Messia), ancora una volta dobbiamo concludere che è destituita di ogni fondamento.

Gesù, riferendosi al Padre (al Dio), in presenza dei discepoli dice: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo» (Giovanni 17,3).

Bibliografia: MATTEO MANZELLA, L’Ultimo Adamo, Leberit, Roma 2004, soprattutto le pagg. 221-238. NICOLA ABBAGNANO, Dizionario di Filosofia, TEA Torino-Milano 1993, voci: Essenza, Sostanza, Trinità. Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992.



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