sabato 1 marzo 2014

COMMENTO A Mt 28,19


Il testo di Matteo 28,19 è una formula battesimale molto discussa e spesso contestata. Lo storico Marcel Simon afferma: «Non è possibile credere al passo finale di Matteo, in cui Gesù ordina ai propri discepoli di battezzare tutte le nazioni  in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Questa formula trinitaria, inattesa nella sua bocca, è in realtà totalmente ignorata dalla generazione apostolica» (I primi cristiani, Garzanti editore, Milano 1958). L’interpretazione trinitaria di questo testo è basata sulla congiunzione “e”; la quale, pur distinguendo le tre “persone” (diciamo “tre” ammesso che lo Spirito si debba considerare una persona), allo stesso tempo le includerebbe in un solo nome (sottinteso? quale?). Vediamo il testo:

 

πορευθέντεϛ  οὖν  μαθητεύσατε  πάντα  τὰ  ἔθνη,   βαπτίζοντεϛ  αὐτοὺϛ  εἰϛ  τὸ  ὄνομα   τοῦ  πατρὸϛ  καὶ  τοῦ  υἱοῦ  καὶ  τοῦ  ἁγίου  πνεύματοϛ… 

 

letteralmente: andate dunque, ammaestrate tutti i popoli, battezzandoli nel nome del padre e del figlio e dello spirito santo...

 

La sottigliezza alla quale i trinitari si appigliano è la seguente: Il nome [singolare e unico] a cui la formula battesimale si riferirebbe, è il nome di Dio [“Jhwh” o semplicemente “Dio” ?], e questo nome sarebbe sia del Padre, sia del Figlio, sia dello Spirito Santo, accomunati nella stessa formula, quindi tutte e tre le “persone” sarebbero Dio [un unico Dio?] dato che il nome di una cosa (a prescindere se si tratta di una persona o no) indica la sua essenza. Il testo infatti – dicono i trinitari – non dà l’ordine di battezzare nei nomi... (al plurale), bensì nel nome... (al singolare)→ [vedi: Catechismo della Chiesa Cattolica (romana): Art. 233]. Sennonché il testo non dice affatto questo, e non usa, né implicitamente né esplicitamente, il corrispondente greco della parola italiana “sia” (e se per ipotesi la usasse, si rafforzerebbe comunque la nostra interpretazione), usa invece la congiunzione “e. Del resto, in frasi di questo genere, in italiano (ma anche in altre lingue), non si direbbe mai «nei nomi». Un ipotetico lettore, anche attento ma privo di pregiudizi, che fosse all’oscuro dei problemi teologici che si dibattono su questo testo, lo comprenderebbe per quello che effettivamente dice;  che cioè il battesimo va impartito sia nel nome del Padre, che in quello del Figlio, come in quello dello Spirito Santo (cioè pronunciando tutti e tre i nomi); senza per questo dedurre che i tre sono un solo Dio. La congiunzione “e”, infatti, dato che ovviamente i nomi che congiunge sono diversi non può significare che tutte e tre le “persone” abbiano in comune un nome unico (“Dio”) che indicherebbe identità di natura, o che in ogni modo siano una stessa cosa; ma al contrario distingue sostanzialmente, implicitamente separa, dice che il battesimo va impartito nel nome di tutte e tre le “persone”, e almeno nella lingua italiana, questo significa “per ciascuna col suo proprio nome”, nei loro tre rispettivi nomi, altrimenti non si capirebbe perché il testo usa i termini padre, figlio, spirito, cioè tre nomi che letteralmente indicano tre “persone”, quindi tre essenze, e non una sola. Quando dice “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, sta dicendo nel nome [nei nomi!] di tutti e tre, per ciascuna “persona” il suo proprio (così è nella lingua italiana!), e sarebbe grammaticalmente, se non sbagliato, certamente inusitato e pleonastico dire nei nomi (al plurale) del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo; per di più così potrebbe risultare che ciascuna delle tre persone avrebbe più di un nome. La congiunzione “e” (…e del Padre; e del Figlio; e dello Spirito) non unisce (implicitamente) i tre nomi delle tre persone in un solo nome; anzi li separa ognuno dall’altro come tre “essenze sostanziali” diverse, scandendoli, e stabilendo implicitamente che la formula deve contenerli tutti e tre, altrimenti sarebbe  bastato dire “nel nome di Dio”. Perciò ogni altra interpretazione basata sul nome o sui nomi è priva di fondamento perché, se non altro, l’espressione potrebbe considerarsi ambigua. Non per niente la maggior parte dei traduttori omette le congiunzioni “e” (kaì) sostituendole con le virgole: nel greco originale non c’è la punteggiatura, non esistono le virgole; la “e”, congiunzione, spesso sostituiva la virgola. Così la traduzione Nuova riveduta taglia corto: «Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (ovviamente ciascuno col suo proprio esclusivo nome, quindi ciascuno con la propria esclusiva natura essenziale); il nome, o meglio i nomi, di cui qui si parla sono: “padre”, “figlio”, “spirito”, e non “dio”, ammesso che quest’ultimo termine si possa considerare veramente un “nome proprio”, dato che potrebbe considerarsi piuttosto un aggettivo o un nome comune: nella Bibbia Yahweh è dio (“Yahweh è il nome, ed è equivalente a “Padre”: Esodo 3,13-15; Giovanni 17,6,11). Questo discorso (di Giovanni 28,19), che è in corretto italiano, si potrebbe esprimere, in parole povere, come segue: nel nome del Padre, nel nome del Figlio e nel nome dello Spirito Santo (dove soltanto il Padre è dio: Giovanni 17,3). Ma volendo scrivere in modo più corretto, o più snello, si usa omettere la ripetizione dell’espressione “nel nome di”; basta la prima volta, e mai si potrebbe esprimere usando l’espressione “nei nomi” (al plurale) perché non sarebbe corretto. Certamente ci si può chiedere: se l’autore del testo avesse avuto in animo di esprimere propriamente un concetto trinitario, come avrebbe dovuto dire? Il concetto trinitario non appartiene al modo comune di pensare, che si possa esprimere con il comune linguaggio (tanto meno con quello biblico); esso appartiene al linguaggio filosofico, tecnico, che hanno forgiato gli stessi trinitari secoli dopo la redazione del Nuovo Testamento. Talché non possiamo ammettere in Matteo, né tanto meno in Gesù Cristo, una simile possibilità. Sicuramente Cristo non ha pronunciato la frase ... nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo, sia pur e ovviamente nel corrispondente aramaico. Se dal punto di vista grammaticale i trinitari avessero ragione; se in questo testo il nome per il quale e con il quale si impartisce il battesimo fosse un nome unico e sottinteso appartenente a tutte e tre le “persone”, potremmo concludere, senza ombra di dubbio, che il testo non sia autentico. Infatti, in questo caso rivelerebbe una tale sottigliezza di contenuto e una tale capziosità anacronistica, nella forma, da aumentare i sospetti circa la sua autenticità. Noi invece sosteniamo che in questo testo non c’è un nome unico e sottinteso, bensì tre nomi espressi (e quindi tre “persone” distinte e separate); questo è fuori dubbio! È evidente che si tratta di una aggiunta o di una manipolazione maldestra, quanto ingenua, di un trinitario troppo zelante. Se poi si vuole affermare che ci sbagliamo, che il testo nonostante tutto è autentico (e non abbiamo difficoltà a concederlo), allora dobbiamo accettare l’interpretazione più ovvia, quella che tiene conto del fatto che, in varie lingue e in ogni caso, la congiunzione “e” serve ad unire o congiungere ciò che nella realtà è sostanzialmente (sostanzialmente!) separato: per cui il Padre, il Figlio, lo Spirito sono diversi, non sono uguali; non sono la stessa cosa, visto che, in questo discorso, sono uniti dalla congiunzione “e”. Matteo 28,19 dice che il battesimo va impartito nel nome del Padre (il solo vero Dio: Giovanni 17,3), nel nome del Figlio (cioè del Messia), nel nome dello Spirito (cioè dell’Agente divino, della Dýnamis, del Vento di Dio); vale a dire di ciascuno dei tre menzionati, ognuno tautologicamente con il proprio esclusivo nome, e quindi si tratta propriamente di tre essenzialmente separati: il Padre, il Messia, e il santo Ruah o Pneuma. Colui che salva è Dio (il Padre, il quale ha così deciso sovranamente); ma salva per mezzo del Figlio (il Messia elevato al rango e alla natura di Signore) e grazie all’illuminazione dello Spirito, strumento creatore e santificatore, immanente nell’uomo. Il fatto, dunque, che i tre nomi stiano accomunati in un’unica formula non ci autorizza affatto a dedurre alcunché di trinitario. Del resto, ognuno dei tre sta nell’ordine gerarchico che gli compete. Solo il Padre è Dio (Giovanni 17,3), e perciò nella formula precede il Figlio e lo Spirito; il Figlio è il Salvatore, colui a cui Dio ha dato ogni potestà (ma non è Dio): Matteo 28,18; mentre lo Spirito è lo strumento di Dio, che opera anche e specialmente in Cristo e per Cristo: il Messia è ripieno di Spirito (Luca 4,1). Non ci sono appoggi trinitari nella Sacra Scrittura! Affermare che in questa formula battesimale ci sia quella “finezza” filosofica e teologica che vorrebbero i trinitari, significa perdere il senso della misura: ignorare il contesto culturale, dottrinale e storico nel quale sorse la fede cristiana e nel quale furono redatti gli scritti neotestamentari; nonché il corretto senso letterale del testo in questione. Gli storici affermano che certamente non c’è l’idea trinitaria nel cristianesimo primitivo. Dice Simon che nel Nuovo Testamento «La loro cristologia (dei primi cristiani) non intacca ancora lo stretto monoteismo israelita...»; essi sono lontani dall’identificare il loro Maestro con Dio (op. cit.).

Fin qui, in questo breve trattato, abbiamo esaminato la formula battesimale di Matteo 28,19 al fine di discutere il tema “Trinità o non Trinità”, sotto tre principali aspetti: 1) riguardo all’autenticità; 2) mettendo la virgola al posto della congiunzione “e”; oppure, al contrario, 3) esaltando il valore grammaticale proprio della congiunzione “e”. Ne è risultato che, da qualsiasi angolazione si possa esaminare il testo, non si trova in esso alcuna affermazione trinitaria. E, in via subordinata, qualora vi fosse una implicazione trinitaria, bisognerebbe concludere che proprio, e soprattutto per questo, il testo non sarebbe autentico, perché apparterrebbe certamente ad un’epoca posteriore, più o meno lontana o più o meno vicina alla redazione di Matteo, cioè ad un’epoca in cui cominciava a farsi strada l’idea trinitaria e si sentiva l’esigenza di trovare un appoggio nei vangeli e negli altri scritti cristiani che già circolavano nelle comunità, appoggio che non esisteva (e non esiste).

Ma allora, se non si può essere certi dell’autenticità del testo, qual è la vera formula del battesimo (che qui ci interessa anche ai fini trinitari)? Il Conzelmann, come altri autori, ammette che anticamente il battesimo era impartito nel nome di Gesù, e ciò perfino nel primo periodo del cristianesimo ellenistico (cfr. Hans Conzelmann, Le origini del cristianesimo, Editrice Claudiana, Torino 1976). Il nostro discorso prosegue su questa strada. «Qualunque cosa facciate, in parola o in opera, fate ogni cosa nel nome del Signor Gesù, rendendo grazie a Dio, il Padre, per mezzo di lui» (Col. 3,17).

È ovvio pensare che la formula battesimale dovesse avere (almeno agli inizi) una qualche analogia, o un qualche legame, con la confessione di fede richiesta al battezzando. Secondo noi (e prima di noi secondo autorevolissimi critici ed esegeti) la più antica confessione di fede, o una delle più antiche, è la seguente: Io credo che Gesù [detto] Cristo è il Figliuol di Dio. Questo testo è contenuto al v. 37 del cap. 8 degli Atti che racconta l’episodio della conversione e del battesimo dell’etiope. Molti contestano l’autenticità del v. 37 (e quindi della confessione di fede) perché manca in molti importanti manoscritti. Ma è presente nel testo occidentale. Certamente quando il vers. 37 ci dice che l’etiope confessa che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, è come se avesse detto che Gesù Cristo è Cristo, dato che il termine “cristo” e l’espressione “figlio di dio” sono sinonimi. Ricordiamo qui che l’espressione biblica “Figlio di Dio” non implica il concetto  antropomorfico che il termine “figlio” potrebbe suggerire, e per il quale il “Figlio” sarebbe “Dio” come un figlio di uomo è uomo. “Figlio di Dio” era detto l’Unto (il Messia), l’Eletto, il Re presso il popolo ebraico, che ovviamente era uomo (cfr. Giulio Busi, Simboli del pensiero ebraico, Giulio Einaudi editore, Torino 1999, voce Unto, Messia, che esprime un concetto valido anche per la più antica tradizione cristiana, come risulta dalle espressione neotestamentari). Indubbiamente il termine “cristo” (“messia”) divenne presto un secondo proprio nome di Gesù (già nel Nuovo Testamento); ma è anche vero che la confessione di fede rassomiglia molto all’espressione apocrifa di Marco 1,1 («Principio dell’evangelo di Gesù Cristo, Figliuolo di Dio») dove si direbbe, appunto, “Principio dell’evangelo di Gesù Cristo, Cristo”, e secondo noi anche per questo la confessione di fede attribuita all’etiope in Atti 8,37 può essere sospettata di inautenticità. Il testo è omesso in alcune recenti edizioni della Bibbia; si passa dal v. 36 direttamente al v. 38. Si può leggere nella traduzione di Giovanni Diodati, per esempio nell’edizione della S.B.B.F., Roma 1946. Resta il fatto che anche se siamo di fronte ad un’aggiunta di un copista, l’espressione appartiene ad un’epoca molto vicina alla redazione degli Atti ed è  sostanzialmente conforme a tutto il Nuovo Testamento; perciò è verosimile in se stessa e non fa a pugni con il contesto, né immediato né più ampio. Echeggia sostanzialmente (non nella forma) il contenuto del versetto che troviamo all’inizio dell’epistola  ai Romani«[Gesù Cristo nostro Signore]… dichiarato Figliuolo di Dio [Re] con potenza secondo lo spirito di santità mediante la sua risurrezione dai morti» (1,4), che è certamente la formula più antica. Inoltre, se il copista ha fatto questa aggiunta, evidentemente questa era la confessione di fede richiesta ai battezzandi in quel momento. Il Cullmann la ammette come autentica, al punto che ipotizza che dai manoscritti nei quali il v. 37 è assente, potrebbe essere stata tolta perché non conforme alle altre confessioni di fede che intanto si erano, successivamente, affermate al di fuori del Nuovo Testamento (cfr. Oscar Cullmann, Le prime confessioni di fede cristiane, Centro Evangelico di Cultura, Roma 1948, pag. 18 nota compresa; Il battesimo dei bambini e la dottrina biblica del battesimo, in: Dalle fonti dell’Evangelo alla teologia cristiana, Editrice A.V.E., Roma 1971, pag. 183 ss. [Appendice]).


Se la formula battesimale deve avere una analogia o un legame con la confessione di fede richiesta al battezzando, e se la confessione di fede è quella che afferma Gesù essere Figlio di Dio (cioè il Messia), allora la formula battesimale doveva significare che il battesimo si impartiva nel nome di Gesù Messia (in greco Cristo), o nell’equivalente Gesù Figlio di Dio. Dovremmo perciò trovare questa formula nel Nuovo Testamento; e se c’è, questa è la più antica, che è anche autentica. Già in Luca, l’evangelista riferisce che il Risorto profetizzava che le persone sarebbero state esortate al ravvedimento e che si sarebbe predicato il perdono dei peccati nel nome di Gesù Cristo, nel suo nome appunto (24,47). Infatti, in tutto il Nuovo Testamento, e soprattutto negli Atti, è evidente che tra i primi cristiani ogni azione (compreso il battesimo) era fatta o detta o annunciata o progettata o realizzata nel nome di Gesù Cristo. Citare i testi qui (oltre a quelli già citati) comporterebbe la trascrizione di una significativa parte del Nuovo Testamento: tutta la vita cristiana, e non solo la liturgia (se così può definirsi), era improntata alla invocazione del nome di Gesù. Il lettore può rintracciare da sé i testi, eventualmente con l’aiuto di una chiave biblica; a noi basta ricordarne ancora uno: «Pietro disse loro: Ravvedetevi, e ciascun di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo...» (Atti 2,38). Questa è la vera formula del battesimo, e con i testi alla mano e con un minimo di intuito si può ricostruire come segue. Il battezzatore, rivolto al battezzando, chiedeva: Credi tu in Gesù? Il battezzando rispondeva: Io credo che Gesù è il Figlio di Dio [il Cristo, il Messia]. Allora il battezzatore procedeva: Io ti battezzo nel nome di Gesù Cristo; e lo immergeva nell’acqua. Questa formula si accorda con gli avvenimenti, in generale, narrati nel Nuovo Testamento, perciò è assai credibile, e sicuramente verosimile, che l’etiope abbia confessato: «Io credo che Gesù è il Figliuolo di Dio» (dove “Figliuolo di Dio” equivale a “Messia”, in greco “Cristo”). E se questa è la confessione di fede, come noi sosteniamo, non ci sembra che possa avere avuto (o avere, oggi) un legame con la formula battesimale apocrifa, unica e sola, che inserisce di punto in bianco, come un meteorite caduto dal cielo, il Padre, il Figlio e lo Spirito in una stessa formula. Quest’ultima ci avverte soltanto di un fatto: che il copista che l’ha inserita è idealmente un reduce ante litteram della vittoria militare dei trinitari sugli ariani, di una minoranza alleata del potere politico-militare sulla maggioranza dei credenti. L’interpretazione trinitaria del testo in questione non è biblica ma politica. È il segno storico – ancora oggi – dell’alleanza del potere religioso con quello politico. La formula apocrifa “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, non soltanto non trova nessun appoggio nella Sacra Scrittura, né letterale né parallelo e neppure vagamente sostanziale, ma risulta anche un corpo estraneo nella teologia del Nuovo Testamento. Mentre la formula battesimale «Nel nome di Gesù Messia» è storicamente legata alla dichiarazione di fede del battezzando: «Io credo che Gesù è il Messia». Il filosofo e teologo John Locke ha dimostrato con una copiosa documentazione biblica che la predicazione dell’evangelo, nel primo cristianesimo, aveva come centro e scopo, convincere Ebrei e Gentili che Gesù di Nazareth è il Messia [e non Dio] (cfr. John Locke, Scritti filosofici e religiosi, Rusconi editore, Milano 1979). E la stessa cosa hanno scritto molti autori moderni e contemporanei. Del resto, in Atti 9,22 leggiamo: «Saulo si fortificava sempre di più e confondeva i Giudei residenti a Damasco, dimostrando che Gesù è il Messia». E Filippo spiega all’etiope un passo messianico di Isaia [53,7-8], per dimostrare che il Messia di cui parla il profeta è venuto, e che è Gesù. Perciò la confessione di fede dell’etiope (Atti 8,37) è la logica conseguenza di questo discorso sul Messia: «Io credo che Gesù è il Figliuolo di Dio [cioè il Re, il Messia]». Cullmann afferma: Il problema formale della confessione di fede va risolto nella direzione dell’analoga formula battesimale (e viceversa), cioè del nome invocato sul battezzato; «In un solo testo (Matt. 28,19), tale nome è quello della Trinità [?!]; in tutti gli altri è quello del Cristo (Gal. 3,27; I Cor. 1,13; Atti 2,38; 8,16; 10,48; 19,5)» (Op. cit., p. 33). I testi citati dal Cullmann (che pure è un sostenitore della dottrina trinitaria) non lasciano alcuna incertezza: il battesimo era impartito nel nome di Gesù (e non nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo). Pertanto noi possiamo concludere che l’unico testo cosiddetto trinitario non è valido a dimostrare che la “fede trinitaria” era presente nella chiesa primitiva del Nuovo Testamento. L’argomento si può sintetizzare con le seguenti parole dell’apostolo Paolo: «Per noi [cristiani] c’è un Dio solo, il Padre [il Creatore], dal quale sono tutte le cose e un solo Signore, Gesù Cristo» (1 Corinti 8,6). [Matteo Manzella]