Il testo di Matteo 28,19 è una formula battesimale molto discussa e spesso
contestata. Lo storico Marcel Simon afferma:
«Non è possibile credere al passo finale di Matteo, in cui Gesù ordina ai
propri discepoli di battezzare tutte le nazioni “in nome del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Questa formula trinitaria,
inattesa nella sua bocca, è in realtà totalmente ignorata dalla generazione
apostolica» (I primi cristiani, Garzanti editore, Milano 1958).
L’interpretazione trinitaria di questo testo è basata sulla congiunzione “e”;
la quale, pur distinguendo le tre “persone” (diciamo “tre” ammesso che lo
Spirito si debba considerare una persona), allo stesso tempo le includerebbe in
un solo nome (sottinteso? quale?). Vediamo il testo:
πορευθέντεϛ οὖν μαθητεύσατε πάντα τὰ ἔθνη,
βαπτίζοντεϛ αὐτοὺϛ εἰϛ τὸ ὄνομα τοῦ
πατρὸϛ καὶ τοῦ υἱοῦ καὶ τοῦ ἁγίου
πνεύματοϛ…
letteralmente: andate dunque, ammaestrate tutti i popoli, battezzandoli nel nome del
padre e del figlio e dello spirito santo...
La sottigliezza alla quale i trinitari si appigliano è la seguente: Il nome
[singolare e unico] a cui la formula battesimale si riferirebbe, è il
nome di Dio [“Jhwh” o semplicemente “Dio” ?], e questo nome sarebbe sia
del Padre, sia del Figlio, sia dello Spirito Santo, accomunati
nella stessa formula, quindi tutte e tre le “persone” sarebbero Dio [un unico
Dio?] dato che il nome di una cosa
(a prescindere se si
tratta di una persona o no) indica
la sua essenza. Il testo infatti – dicono i trinitari – non
dà l’ordine di battezzare nei nomi... (al plurale), bensì nel nome...
(al singolare)→ [vedi: Catechismo della Chiesa Cattolica (romana): Art.
233]. Sennonché il testo non dice affatto questo, e non usa, né implicitamente
né esplicitamente, il corrispondente greco della parola italiana “sia”
(e se per ipotesi la usasse, si rafforzerebbe comunque la nostra
interpretazione), usa invece la congiunzione “e”. Del resto, in
frasi di questo genere, in italiano (ma anche in altre lingue), non si direbbe
mai «nei nomi». Un ipotetico lettore,
anche attento ma privo di pregiudizi, che fosse all’oscuro dei problemi
teologici che si dibattono su questo testo, lo comprenderebbe per quello che
effettivamente dice; che cioè il battesimo va impartito sia nel nome del
Padre, che in quello del Figlio, come in quello dello Spirito Santo (cioè
pronunciando tutti e tre i nomi); senza per questo dedurre che i tre
sono un solo Dio. La congiunzione “e”, infatti, dato che
ovviamente i nomi che congiunge sono diversi non può significare che tutte
e tre le “persone” abbiano in comune un nome unico (“Dio”) che
indicherebbe identità di natura, o che in ogni modo siano una stessa cosa; ma
al contrario distingue sostanzialmente,
implicitamente separa, dice che il battesimo va impartito nel nome di
tutte e tre le “persone”, e almeno nella lingua italiana, questo
significa “per ciascuna col suo proprio nome”, nei loro tre
rispettivi nomi, altrimenti non si capirebbe perché il testo usa i termini padre,
figlio, spirito, cioè tre
nomi che letteralmente indicano tre “persone”, quindi tre essenze, e non una sola. Quando dice “nel nome del Padre e del
Figlio e dello Spirito Santo”, sta dicendo nel nome [nei nomi!] di tutti e tre, per ciascuna “persona” il suo proprio (così è nella lingua
italiana!), e sarebbe grammaticalmente, se non sbagliato, certamente inusitato
e pleonastico dire nei nomi (al plurale) del Padre e del Figlio e dello
Spirito Santo; per di più così potrebbe risultare che ciascuna delle tre
persone avrebbe più di un nome. La congiunzione “e” (…e del Padre; e
del Figlio; e dello Spirito)
non unisce (implicitamente) i tre nomi delle tre persone in un solo nome; anzi
li separa ognuno dall’altro come tre “essenze sostanziali” diverse,
scandendoli, e stabilendo implicitamente che la formula deve contenerli tutti e
tre, altrimenti sarebbe bastato dire “nel nome di Dio”. Perciò ogni altra
interpretazione basata sul nome o sui nomi è priva di fondamento
perché, se non altro, l’espressione potrebbe considerarsi ambigua. Non per
niente la maggior parte dei traduttori omette le congiunzioni “e” (kaì)
sostituendole con le virgole: nel greco originale non c’è la punteggiatura, non
esistono le virgole; la “e”, congiunzione, spesso sostituiva la virgola. Così
la traduzione Nuova riveduta taglia corto: «Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli,
battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (ovviamente ciascuno col suo
proprio esclusivo nome, quindi ciascuno
con la propria esclusiva “natura” essenziale); il
nome, o meglio i nomi, di cui qui si parla sono: “padre”, “figlio”, “spirito”,
e non “dio”, ammesso che
quest’ultimo termine si possa considerare veramente un “nome proprio”, dato che
potrebbe considerarsi piuttosto un aggettivo o un nome comune: nella Bibbia Yahweh
è dio (“Yahweh” è il nome, ed è equivalente a “Padre”: Esodo 3,13-15; Giovanni
17,6,11). Questo discorso (di Giovanni 28,19), che è in corretto italiano, si
potrebbe esprimere, in parole povere, come segue: nel nome del Padre, nel
nome del Figlio e nel nome dello Spirito Santo (dove soltanto il Padre è dio: Giovanni 17,3). Ma volendo
scrivere in modo più corretto, o più snello, si usa omettere la ripetizione dell’espressione
“nel nome di”; basta la prima volta, e mai si potrebbe esprimere usando
l’espressione “nei nomi” (al plurale) perché non sarebbe corretto. Certamente
ci si può chiedere: se l’autore del testo avesse avuto in animo di
esprimere propriamente un concetto trinitario, come avrebbe dovuto dire? Il
concetto trinitario non appartiene al modo comune di pensare, che si possa
esprimere con il comune linguaggio (tanto meno con quello biblico); esso
appartiene al linguaggio filosofico, tecnico, che hanno forgiato gli stessi
trinitari secoli dopo la redazione del Nuovo Testamento. Talché non possiamo
ammettere in Matteo, né tanto meno in Gesù Cristo, una simile
possibilità. Sicuramente Cristo non ha pronunciato la frase “... nel nome del Padre, e del Figlio,
e dello Spirito Santo”, sia pur
e ovviamente nel corrispondente aramaico. Se dal punto di vista
grammaticale i trinitari avessero ragione; se in questo testo il nome per il
quale e con il quale si impartisce il battesimo fosse un nome unico e
sottinteso appartenente a tutte e tre le “persone”, potremmo concludere, senza
ombra di dubbio, che il testo non sia autentico. Infatti, in questo caso
rivelerebbe una tale sottigliezza di contenuto e una tale capziosità anacronistica,
nella forma, da aumentare i sospetti circa la sua autenticità. Noi invece
sosteniamo che in questo testo non c’è un nome unico e sottinteso, bensì tre
nomi espressi (e quindi tre “persone” distinte e separate);
questo è fuori dubbio! È evidente che si tratta di una aggiunta o di una
manipolazione maldestra, quanto ingenua, di un trinitario troppo zelante. Se
poi si vuole affermare che ci sbagliamo, che il testo nonostante tutto è
autentico (e non abbiamo difficoltà a concederlo), allora dobbiamo accettare
l’interpretazione più ovvia, quella che tiene conto del fatto che, in varie
lingue e in ogni caso, la congiunzione “e” serve ad unire o
congiungere ciò che nella realtà è sostanzialmente (sostanzialmente!) separato: per cui il Padre, il
Figlio, lo Spirito sono diversi,
non sono uguali; non sono la stessa cosa, visto che, in questo discorso, sono
uniti dalla congiunzione “e”. Matteo 28,19 dice che il battesimo va
impartito nel nome del Padre (il solo vero Dio: Giovanni 17,3), nel nome
del Figlio (cioè del Messia), nel nome dello Spirito (cioè dell’Agente divino,
della Dýnamis, del Vento di Dio); vale a dire di ciascuno dei tre
menzionati, ognuno tautologicamente con il proprio esclusivo nome, e quindi
si tratta propriamente di tre essenzialmente separati: il
Padre, il Messia, e il santo Ruah o Pneuma. Colui che salva è
Dio (il Padre, il quale ha così deciso sovranamente); ma salva per mezzo del
Figlio (il Messia elevato al rango e alla natura di Signore) e grazie
all’illuminazione dello Spirito, strumento creatore e santificatore,
immanente nell’uomo. Il fatto, dunque, che i tre nomi stiano accomunati in
un’unica formula non ci autorizza affatto a dedurre alcunché di trinitario.
Del resto, ognuno dei tre sta nell’ordine gerarchico che gli compete. Solo il
Padre è Dio (Giovanni 17,3), e perciò nella formula precede il Figlio e lo
Spirito; il Figlio è il Salvatore, colui a cui Dio ha dato ogni potestà (ma non
è Dio): Matteo 28,18; mentre lo Spirito è lo strumento di Dio, che opera
anche e specialmente in Cristo e per Cristo: il Messia è ripieno di Spirito
(Luca 4,1). Non ci sono appoggi trinitari nella Sacra Scrittura! Affermare che
in questa formula battesimale ci sia quella “finezza” filosofica e teologica
che vorrebbero i trinitari, significa perdere il senso della misura: ignorare
il contesto culturale, dottrinale e storico nel quale sorse la fede cristiana e
nel quale furono redatti gli scritti neotestamentari; nonché il corretto senso
letterale del testo in questione. Gli storici affermano che certamente non c’è
l’idea trinitaria nel cristianesimo primitivo. Dice Simon che nel Nuovo
Testamento «La loro cristologia (dei primi cristiani) non intacca ancora lo
stretto monoteismo israelita...»; essi sono lontani dall’identificare
il loro Maestro con Dio (op. cit.).
Fin qui, in questo breve trattato, abbiamo esaminato la formula battesimale
di Matteo 28,19 al fine di discutere il tema “Trinità o non Trinità”, sotto tre
principali aspetti: 1) riguardo
all’autenticità; 2) mettendo la
virgola al posto della congiunzione “e”; oppure, al contrario, 3) esaltando il valore grammaticale
proprio della congiunzione “e”. Ne è risultato che, da qualsiasi
angolazione si possa esaminare il testo, non si trova in esso alcuna affermazione
trinitaria. E, in via subordinata, qualora vi fosse una implicazione
trinitaria, bisognerebbe concludere che proprio, e soprattutto per questo, il
testo non sarebbe autentico, perché apparterrebbe certamente ad un’epoca
posteriore, più o meno lontana o più o meno vicina alla redazione di Matteo,
cioè ad un’epoca in cui cominciava a farsi strada l’idea trinitaria e si
sentiva l’esigenza di trovare un appoggio nei vangeli e negli altri scritti
cristiani che già circolavano nelle comunità, appoggio che non esisteva (e non
esiste).
Ma allora, se non si può essere certi dell’autenticità del testo, qual è la
vera formula del battesimo (che qui ci interessa anche ai fini trinitari)?
Il Conzelmann, come altri autori, ammette che anticamente il battesimo era
impartito nel nome di Gesù, e ciò perfino nel primo periodo del
cristianesimo ellenistico (cfr. Hans
Conzelmann, Le origini del cristianesimo, Editrice Claudiana,
Torino 1976). Il nostro discorso prosegue su questa strada. «Qualunque
cosa facciate, in parola o in opera, fate ogni cosa nel nome del Signor Gesù,
rendendo grazie a Dio, il Padre, per mezzo di lui» (Col. 3,17).
È ovvio pensare che la formula battesimale dovesse avere (almeno agli inizi)
una qualche analogia, o un qualche legame, con la confessione di fede richiesta
al battezzando. Secondo noi (e prima di noi secondo autorevolissimi critici ed
esegeti) la più antica confessione di fede, o una delle più antiche, è la
seguente: Io credo che Gesù [detto] Cristo è il Figliuol di Dio.
Questo testo è contenuto al v. 37 del cap. 8 degli Atti che racconta
l’episodio della conversione e del battesimo dell’etiope. Molti contestano
l’autenticità del v. 37 (e quindi della confessione di fede) perché manca in
molti importanti manoscritti. Ma è presente nel testo occidentale. Certamente
quando il vers. 37 ci dice che l’etiope confessa che Gesù Cristo è il Figlio di
Dio, è come se avesse detto che Gesù Cristo è Cristo, dato che il termine
“cristo” e l’espressione “figlio di dio” sono sinonimi. Ricordiamo qui che l’espressione
biblica “Figlio di Dio” non implica il concetto
antropomorfico che il termine “figlio” potrebbe suggerire, e per il
quale il “Figlio” sarebbe “Dio” come un figlio di uomo è uomo. “Figlio di Dio”
era detto l’Unto (il Messia), l’Eletto, il Re presso il popolo ebraico, che
ovviamente era uomo (cfr. Giulio Busi, Simboli del pensiero ebraico, Giulio
Einaudi editore, Torino 1999, voce Unto,
Messia, che esprime un concetto valido anche per la più antica tradizione
cristiana, come risulta dalle espressione neotestamentari). Indubbiamente il
termine “cristo” (“messia”) divenne presto un secondo proprio nome di Gesù (già
nel Nuovo Testamento); ma è anche vero che la confessione di fede rassomiglia
molto all’espressione apocrifa di Marco 1,1 («Principio
dell’evangelo di Gesù Cristo, Figliuolo di Dio») dove si
direbbe, appunto, “Principio dell’evangelo di Gesù Cristo, Cristo”, e secondo
noi anche per questo la confessione di fede attribuita all’etiope in Atti 8,37
può essere sospettata di inautenticità. Il testo è omesso in alcune recenti
edizioni della Bibbia; si passa dal v. 36 direttamente al v. 38. Si può leggere
nella traduzione di Giovanni Diodati, per esempio nell’edizione della S.B.B.F.,
Roma 1946. Resta il fatto che anche se siamo di fronte ad un’aggiunta di un
copista, l’espressione appartiene ad un’epoca molto vicina alla redazione degli
Atti ed è sostanzialmente conforme a tutto il Nuovo
Testamento; perciò è verosimile in se stessa e non fa a pugni con il contesto,
né immediato né più ampio. Echeggia sostanzialmente (non nella forma) il contenuto
del versetto che troviamo all’inizio dell’epistola ai Romani:
«[Gesù Cristo nostro Signore]… dichiarato Figliuolo di Dio [Re] con
potenza secondo lo spirito di santità mediante la sua risurrezione dai
morti» (1,4), che è certamente la formula più antica. Inoltre, se il
copista ha fatto questa aggiunta, evidentemente questa era la confessione di
fede richiesta ai battezzandi in quel momento. Il Cullmann la ammette come
autentica, al punto che ipotizza che dai manoscritti nei quali il v. 37 è
assente, potrebbe essere stata tolta perché non conforme alle altre confessioni
di fede che intanto si erano, successivamente, affermate al di fuori del Nuovo
Testamento (cfr. Oscar Cullmann, Le
prime confessioni di fede cristiane, Centro Evangelico di Cultura, Roma
1948, pag. 18 nota compresa; Il battesimo dei bambini e la
dottrina biblica del battesimo, in: Dalle fonti dell’Evangelo alla
teologia cristiana, Editrice A.V.E., Roma 1971, pag. 183 ss. [Appendice]).