1. Il giorno di Dio
(di Yahwèh).
Nella Bibbia si parla anche del giorno di Dio. Il giorno del Signore (di Cristo, del Messia)
coincide con l’adempimento finale del giorno di Dio, che è il giorno della
vittoria definitiva di Yahwèh,
a partire dal quale Dio sarà «tutto in
tutti», perché ogni cosa gli sarà sottoposta; «anche il Figlio stesso [il Messia] sarà sottoposto a colui che gli ha
sottoposto ogni cosa» (1 Corinti 15,27-28); è il giorno in cui Cristo «consegnerà il regno a Dio e Padre»: 1
Corinti 15,24 [non “di Dio Padre”
bensì theô kaì patrí, “a Dio e Padre”, cioè al “Creatore e Redentore” che ha adottato Gesù di Nazareth e i
credenti (Luca 9,35; 1 Pietro 1,1; Romani 8,23; Galati 4,5; Efesi 1,5), per
questo “Padre” ma non “Dio Padre”, che non è la stessa cosa, dato che nella
Bibbia non c’è un “Dio Figlio”]: gli uomini tutti sono “figli” (creature) di
Dio; i credenti sono “figli” anche
perché sono stati adottati grazie a Cristo; «non
sono nati da sangue, né da volontà di carne, ma sono nati da Dio» (Giovanni
1,13). Dunque il giorno di Yahwèh
(di Dio) e il giorno del Signore (di Cristo, quello del suo ritorno), sono un
solo identico giorno: ad un tempo
l’ultimo di questo mondo e quello eterno della parusia.
Il giorno di Dio è descritto nella Bibbia come un giorno
grande (Gioele 2,11) e terribile (2,31); o come il giorno dell’ira di Yahwèh (Apocalisse 6,17); ed è sempre
“vicino”: Isaia 13,6; Gioele 1,15;2,1; Abdia 1,15; Sofonia 1,7,14. Ma si può
anche “affrettare” (2 Pietro 3,12) come si può affrettare quello di Cristo,
dato che coincidono: «A motivo degli
eletti, quei giorni [della grande tribolazione] saranno abbreviati» (Matteo
24,22); «Questo evangelo del regno sarà
predicato in tutto il mondo, affinché ne sia resa testimonianza a tutte le
genti; allora verrà la fine» (Matteo 24,14).
Pietro nel discorso detto della Pentecoste fa coincidere il
giorno del Signore con il giorno di Yahwèh
che fu annunciato dal profeta Gioele (2,28-32), dove è descritto come il veniente
«grande e glorioso giorno di Yahwèh. E [in quel giorno] avverrà che chiunque avrà invocato il nome di Yahwèh sarà salvato» (Atti
2,14-36 e particolarmente il v. 20 e il v. 21). Perciò il biblista Aldo Sbaffi dice: «L'espressione
"giorno del Signore" aveva già per il mondo giudaico una portata
eminentemente escatologica (Yôm Yahweh) e questo significato è mantenuto anche
nella espressione neotestamentaria, in riferimento al "ritorno di Cristo"»1.
2. Problematiche
escatologiche nelle metafore bibliche: salvezza e perdizione. La grazia
universale.
In questo studio, cercheremo di fare un discorso non diciamo
“terra terra” ma quasi: certamente “terreno”; o meglio, da “terreni” quali
siamo cercheremo di comprendere il “celeste”, cioè «le cose che occhio non ha visto e che orecchio non ha udito…» (1
Corinti 2,9). Impresa ardua. Siamo interamente nel campo della fede.
A questo proposito si parla spesso di “salvezza”, raramente
di “perdizione”. Ora cerchiamo di spiegare, per quanto possibile, da che cosa
ci si debba salvare e se ci saranno dei perduti; è il momento opportuno per farlo:
è, soprattutto, il tema della sorte degli empi.
Bisogna dire, con onestà intellettuale, che non è possibile
sostenere con la Bibbia che la
salvezza è universale, nel senso che si salveranno tutti gli uomini e non
soltanto una parte. Ma con la stessa onestà intellettuale non si può neppure
sostenere, con la Bibbia, che ci
saranno uomini definitivamente perduti. Questo nel senso che non è detto inequivocabilmente e per esplicito né l’una né l’altra cosa.
Nella Sacra Scrittura esistono testi chiarissimi (e lo vedremo) dai quali si
può dedurre che ci sarà salvezza per tutti e che nessuno sarà perduto; ma ce ne
sono altrettanti, e forse di più, ugualmente chiarissimi, che affermano che gli
empi non otterranno la salvezza. Gesù dice che Dio «non ha mandato il proprio figlio [il Messia] nel mondo per condannare
il mondo, ma affinché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Giovanni 3,17).
Ma altrove è detto: «Molti sono chiamati,
ma pochi eletti» (Matteo 22,14). A questo punto, di primo acchito,
basterebbe considerare che, tutto sommato, ci interessa sapere che ci saranno i salvati, gli eletti, e non potremmo che augurarci di essere
tra loro. Se poi ci saranno o non ci
saranno i perduti vorrà dire che così
ha stabilito Dio secondo la sua insindacabile volontà.
a) Quesiti e risposte. Ma questo
ragionamento sarebbe troppo ovvio, superficiale e un po’ egoistico.
Approfondendo il problema, ci viene spontaneo il desiderio di conoscere
chiaramente che cosa la Bibbia sostiene in proposito; se ci dice che i salvati saranno tali almeno perché uniti ai loro cari.
Insomma, che vita sarebbe per noi se nella nuova creazione i nostri cari
fossero assenti, ovvero se ci fossero i nostri cari e fossimo assenti noi che
vita sarebbe per loro? In altre parole, e per esempio, una madre che è tra i
salvati, mentre “gode” della vita piena della nuova creazione, ha il ricordo
del figlio perduto per la sua vita empia; che fa? Critica la decisione di Dio
che ha scacciato dalla vita eterna quel figlio? Oppure dice, rivolta col
pensiero al figlio perduto, “ben ti sta, peggio per te che sei stato empio!”?
Ci rendiamo conto che stiamo facendo un discorso terra terra; ma se
consideriamo che i risorti, che entreranno nella nuova creazione, saranno
“persona”, la stessa persona di prima, e non un’altra, allora il nostro discorso non è terra terra. Mario Rossi
sarà ancora l’individuo “Mario Rossi con i suoi ricordi” nella nuova creazione,
oppure no?! E non sarebbe eternamente afflitto per la mancanza del figlio tra i
salvati? Né si può pensare che Dio cancellerà una parte della memoria dei
salvati menomando la loro persona, come per opera del fiume Lete nel poema
dantesco, la cui acqua bevuta lasciava dimenticare il male commesso e ricordare
soltanto il bene2; mentre qui, nella nuova creazione,
farebbe dimenticare quelle persone care che risulterebbero assenti. Idea che
non possiamo ammettere. Benché nell’altra risposta che si dà comunemente,
secondo la quale la felicità nella nuova creazione sarebbe completa nell’essere presi dalla presenza di Cristo e dalla
contemplazione di Dio, ci sia della verità, tuttavia non ci soddisfa se diciamo
che questo fatto non include altro e che in esso si esaurirebbe tutta la
felicità. Questa risposta ci sembra un po’ troppo individuale, egoistica,
riduttiva, nel senso che contemplare
per tutta l’eternità sarebbe appunto riduttivo e inaccettabile, se il termine
“contemplare” non includesse una infinità
di cose e di possibilità (Dio è infinito!). Che cosa vuol dire “godere
della presenza di Cristo”? Vuol dire proprio provare felicità al solo
guardarlo? Certamente vorrà dire anche questo, ma anche che ci deve essere
qualcosa di più; non di più importante ma di diverso, di altro genere. Godere
di Cristo e di Dio deve essere soprattutto e certamente anche una metafora, che
grosso modo può tradursi nel fatto che la vita nella nuova creazione sarà
perfetta perché sarà varia e ricca di
possibilità infinite. E come si può dire perfetta, varia e ricca di
possibilità infinite, se in queste
possibilità le persone che ci sono care non sono incluse? Il “non esserci” di
coloro che amiamo non sarà una mancanza che rende imperfetta e limitata la
nostra perfezione? L’amore per il prossimo (anche per i nostri cari), che Gesù
ha insegnato, non può essere assente nella pratica esternazione della nuova
creazione; anzi lì dovrà essere realtà perfetta. Paolo dice che «Se non ho amore, non sono nulla... L’amore non
verrà mai meno... Tre cose durano: fede, speranza, amore; ma la più grande di
esse è l’amore» (1 Corinti 13,8,13). Oggetto del nostro amore sono anche i
nostri cari; siamo creature, non siamo dii. Le creature richiedono la compagnia
di altre creature, dei propri simili, soprattutto a cominciare dai propri cari.
Almeno essi (i nostri cari) devono
esserci nella nuova creazione se ci siamo noi; ovvero almeno noi dobbiamo esserci se ci sono loro. Un
amore che non ha il suo oggetto più qualificato che è la mamma, oltre a Dio, e
dopo Dio e dopo la mamma tutti gli altri cari, e via via fino ad includere
tutti gli uomini, che amore sarebbe? E che perfezione sarebbe quella senza
amore, specialmente se si considera che l’amore è proprio dell’essenza di Dio
(1 Giovanni 4,8) e che l’uomo è fatto a sua immagine (Genesi 1,26-27)? D’altra
parte, Cristo ha detto che il massimo dell’amore (cioè quello perfetto)
consiste nell’amare anche i nemici (Matteo 5,44-48); e allora nella nuova
creazione ci devono essere anche coloro che nella vita “terrena” erano nostri
nemici e che tali sono rimasti fino alla loro morte o fino alla parusia di
Cristo, altrimenti non potrà esserci il massimo dell’amore come richiesto dalla
perfezione, mancando l’oggetto del massimo amore. E poiché tutto questo
discorso testé fatto vale per ogni uomo (per ogni individuo) allora vuol dire
che devono esserci tutte le persone che sono care all’individuo (ed anche i
nemici) e quindi per estensione tutta l’umanità, per il rapporto di ogni singolo individuo (di tutti gli
individui) con altri individui che compongono l’umanità stessa. In teoria
soltanto chi è indifferente a tutto, chi è solo in assoluto, potrebbe
eventualmente essere assente dalla nuova creazione; ma di fatto nessuno è del
tutto solo: anche chi è solo è stato amato dalla sua mamma (come è possibile
che nella nuova creazione ci sia la mamma senza quel figlio “solo”, o il figlio
senza la mamma?), ed inoltre anche se fosse proprio del tutto solo, sarebbe
amato da Dio (Isaia 49,15), e non è poco. Dio ama tutti gli uomini, senza
riguardo alla qualità delle persone e Cristo è il Signore di tutti (Atti
10,34-36), dunque tutti gli uomini devono essere presenti nella nuova
creazione. Dio si priverebbe dell’oggetto del suo amore, anche di un solo
uomo?! Insomma, se per assurdo si salvasse soltanto una persona (ma anche
pochi, poniamo un migliaio), la nuova creazione sarebbe inimmaginabile con un
solo abitante o con pochissimi, non sarebbe “riempita” come era (ed è) nei
piani di Dio (Genesi 1,28). Il modo di essere della nuova creazione potrà
dipendere necessariamente
dall’atteggiamento degli uomini, cioè dal loro libero arbitrio? Dio può
lasciare al caso (o al libero arbitrio dell’uomo, che è pressappoco la stessa
cosa) la sorte della nuova creazione?
Gesù diceva: «Quando il Figliuol
dell’uomo verrà [cioè alla parusia], troverà egli la fede sulla terra?»
(Luca 18,8). E se non la troverà? E se non c’è mai stata vera fede? Non ci sarebbe in questo caso il fallimento del piano di
Dio? La porta del “paradiso” si aprirebbe inutilmente, e Dio rimarrebbe solo.
Ci serviamo qui di una immagine popolare e pittoresca: nel giorno del giudizio,
all’ora stabilita, San Pietro apre la porta del Paradiso per fare entrare i
salvati, ma rimane sbalordito; si rivolge a Gesù e gli dice: “Signore, alla
porta non c’è nessuno!”. È evidente che nella nuova creazione deve esserci tutta l’umanità! Secondo
noi, questo concetto o questi concetti, dobbiamo considerarli inclusi nella
volontà di Dio quando Paolo dice che Dio vuole
che tutti siano salvati; scrive a Timoteo: Dio, nostro Salvatore, «vuole che tutti gli uomini siano salvati e
vengano alla conoscenza della verità. Poiché v’è un solo Dio, ed anche un solo
mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo, il quale diede se stesso qual
prezzo di riscatto per tutti [ypèr pántôn]» (1 Timoteo 2,4-6). Alcuni
intendono, dal loro punto di vista, che sì, è vero, Dio vuole che tutti siano
salvati, ma non tutti accettano di essere salvati e di conseguenza si
comportano da uomini empi, in modo da escludersi volontariamente dalla salvezza
pur avendo conosciuta la verità. (È incredibile che qualcuno si voglia
escludere volontariamente dalla salvezza, se non si ammette che c’è una
incapacità, almeno parziale, di capire). Dicono in altri termini: gli uomini
sono condannati se rifiutano la verità che hanno conosciuta; perciò Dio vuole
che tutti conoscano la verità. Ma così la conoscenza non sarebbe causa, sia pur
involontaria, della loro condanna? (Gesù dice ai farisei: Se foste ciechi, non avreste alcun peccato...: Giovanni 9,41). In
questo modo la volontà di Dio si tramuterebbe in un pio desiderio, che si
piegherebbe, suo malgrado, di fronte
alla caparbietà degli uomini; Dio (che è il Salvatore!) sarebbe costretto (da
chi?) a prendere delle decisioni che non vorrebbe prendere: condannerebbe
coloro che invece vorrebbe salvare. E Cristo avrebbe sofferto la morte di croce
invano (il suo esempio sarebbe inutile: 1 Pietro 2,21) per quegli uomini che
dovessero rimanere definitivamente esclusi dalla nuova creazione. Egli, però, «diede se stesso qual prezzo di riscatto per
tutti» (cioè, l’esempio che egli ha lasciato per tutta l’umanità è per tutti: 1 Pietro 2,21), non soltanto per
alcuni. Ma subito si fanno avanti i sostenitori della libertà dell’uomo, del
libero arbitrio ad ogni costo, del fatto che Dio non costringe nessuno ad
accettare la verità e la salvezza, e così via. È un discorso inammissibile! L’uomo
di fronte a Dio è come un piccolo bambino di fronte al padre (è “fuori
dall’Eden”); e certamente il padre non vorrebbe lasciare cadere in un burrone
il suo figlioletto o non vorrebbe lasciargli mangiare un cibo dannoso per la
sua salute, per rispetto della libertà e del libero arbitrio del bambino: ha il
dovere di proteggerlo a qualunque costo. Ora, quel padre, essendo uomo, può
anche fallire in questo suo compito protettivo; Dio no! Perciò alla parusia
troverà il modo di recuperare tutti i suoi figli, anche gli empi! Il libero
arbitrio potrebbe avere valore assoluto
solo se l’uomo avesse la capacità perfetta di conoscere, di comprendere e di
decidere; se non fosse sottoposto a pressioni esterne capaci di coartare il suo
arbitrio; se potesse stabilire un rapporto perfetto
nei riguardi degli altri, di se stesso e del mondo che lo circonda, ciò che
implicherebbe la perfezione del soma
(del corpo-persona), vale a dire dell’individuo, di se stessi e del mondo
intero. È questo il caso dell’uomo nella sua condizione attuale? Certamente no!
Mentre scriviamo questo libro giungono, purtroppo, le notizie degli ultimi due
casi in cui una madre uccide i suoi figli; quello degli Stati Uniti e quello
accaduto alle porte di Roma. Se nella “nuova terra” non ci sarà anche quella
madre “assassina”, pentita e “purificata” [vedi più avanti], quei bambini
innocenti sarebbero vittime due volte: la prima volta allorché sono stati
inseguiti per la casa e accoltellati (è il caso accaduto alle porte di Roma) o
affogati nella vasca da bagno (è il caso accaduto negli Stati Uniti), e la
seconda volta allorché si troveranno senza madre nella “nuova creazione”:
vedranno gli altri bambini (le altre persone) ciascuno in compagnia della
propria madre, ma loro sarebbero orfani in un cantuccio; nella “nuova
creazione”!!! E si consideri bene questa riflessione: che il discorso sarebbe
ugualmente valido se quelle madri avessero ucciso i propri figli non per pazzia
(come secondo noi è effettivamente avvenuto) ma per “cattiveria”. Anzi,
sicuramente, nei due casi sopra detti, Dio ha perdonato da subito quelle madri,
se commisero il delitto in stato di assoluta pazzia; ma il nostro discorso
forse non sarebbe valido anche nell’ipotesi (in generale) che una madre uccida
i suoi figli per “empietà”? Indubbiamente c’è, nella condizione umana attuale
post-edenica, un grado di responsabilità personale più o meno alto (più o
meno alto, non da poco), e tuttavia non
in senso assoluto. Anzi, nella condizione attuale di corpi-psichici,
imperfetti e mortali, sicuramente gli uomini preferirebbero, semmai, avere meno
libertà e meno libero arbitrio in cambio della certezza di ottenere, in un modo o in un altro (anche a scapito
della propria [mal concepita] libertà), la perfezione e la vita eterna. Ma che
saranno questa libertà e questo intoccabile libero arbitrio paragonati al bene
superiore della vita eterna nella condizione di “esseri perfetti”?! D’altra
parte, noi non diciamo che Dio deve costringere
alla salvezza, ma che può salvare tutti convincendo
tutti al pentimento, alla parusia
di Cristo; Dio non è un uomo (né tanto meno un uomo della condizione attuale,
quella dei psichici) che può fallire nell’arte di convincere. Il giorno di Dio
e di Cristo (la parusia) è il giorno della rivelazione (dello svelamento) di Dio; è la “luce” perfettamente evidente, la conoscenza
diretta senza mediazione, capace di convincere in assoluto, toccando – diremmo noi esseri psichici –
l’intelligenza e il profondo del cuore degli esseri spirituali perfetti (che
tali saranno gli uomini alla parusia); è il giorno in cui non c’è più la
speranza perché c’è la realtà
evidente (1 Corinti 13,10 e 12; Romani 8,24). Non è così nel mondo attuale. Il
padre del fanciullo epilettico che chiede aiuto a Gesù si sente dire dal
Nazareno: «Se tu puoi credere, ogni cosa è possibile a chi crede»,
e quel padre risponde: «Io credo Signore,
sovvieni alla mia incredulità» (Marco 9,23-24); è disposto anche a
rinunciare al libero arbitrio pur di non trascurare una possibilità di salvare
il figlio dalla malattia: chiede che la fede gli sia data, concessa nonostante la sua incredulità, vale a dire contro la sua volontà, che confusamente
vuole e non vuole, crede e non crede. In effetti non crede; vorrebbe credere. Gesù gli fa dono della
fede, e guarisce il fanciullo. Questo dono Dio, tramite Cristo, può farlo a
tutti, e alla parusia anche agli empi (anche a chi, nella condizione attuale,
non lo chiederebbe). Quel padre sa di non avere fede, o forse non è sicuro di
averla, non può averla, ma vorrebbe
averla, perciò la chiede. Ci sono molti che non ce l’hanno perché non possono averla, e non sanno di
poterla chiedere e di poterla ottenere. Il perché oggi la fede si ha o non si
ha lo scopriremo, comunque, nel giorno della parusia, quando «Dio giudicherà i segreti degli uomini»
(Romani 2,16) e verrà la perfezione (1Corinti 13,10). Ma il testo dell’epistola
di Paolo che abbiamo citato, non dice che Dio vuole salvare tutti quegli uomini che conoscendo la verità
l’abbiano accettata per fede; al contrario, dice che conosceranno la verità
[quando?] coloro che sono salvati, e che essendo tutti salvati, tutti conosceranno la verità, dopo essere stati salvati
(anche se potenzialmente): tutti sono salvati e tutti conosceranno la verità, chi prima (per fede) e chi dopo (per
conoscenza diretta). La salvezza e la conoscenza sono legate da un rapporto
cronologico, talché alla prima (la salvezza) segue la seconda (la conoscenza
piena) e non viceversa. Quando avverrà questo? Mentre sono ancora empi?! Saranno salvati gli empi in
quanto empi, mentre sono ancora empi?! Gli empi saranno costretti da Dio a
credere? Certamente no; Dio non costringe nessuno. Ci sarà una conversione
spontanea ma inevitabile e
infallibile degli empi, basata sulla conoscenza diretta, senza mediazione, di
Cristo e di Dio, cioè del Bene? Noi pensiamo di sì.
In effetti, la salvezza dipende unicamente da una decisione
arbitraria di Dio. Niente e nessuno, neppure il sacrificio di Cristo sulla
croce (né in se stesso, né come indice della fedeltà a Dio) potrebbe salvare
l’uomo se Dio non avesse deciso in questi termini. E questa decisione di Dio è
basata soltanto sulla sua libertà
assoluta e sul suo amore. La sua libera (e assoluta) volontà è che tutti siano
salvati; e la sua volontà è legge, che deve
attuarsi e perciò si attua per le vie ininvestigabili di Dio. È piuttosto la
modalità, appunto la “via”, che non ci è chiara, perché non ci è del tutto
nota; e non ci è chiaro altresì in che senso si debbano intendere “salvezza” e
“perdizione”. Sappiamo per quale mezzo giungono nella nuova creazione i credenti (mediante la fede in Cristo, a
cui segue la nuova nascita); poco o
nulla sappiamo come vi giungono gli altri.
Nella Bibbia è detto chiaramente che coloro che non
ubbidiscono al Vangelo del nostro Signore Gesù «saranno puniti di eterna distruzione, respinti dalla presenza [letteralmente:
dalla “persona”] del Signore e dalla gloria della sua potenza, quando verrà...»
(2 Tessalonicesi 1,9-10). L’eterna distruzione è una metafora? E se è una
metafora, qual è il significato proprio? Saranno respinti dalla presenza del Signore per sempre? Anche
Pietro dice (in 2. 3,7) che nel giorno del giudizio gli empi saranno distrutti.
E in Romani 2,7 Paolo dice che Dio «renderà
a ciascuno secondo le sue opere: vita eterna a quelli che con la perseveranza
nel bene operare cercano gloria e onore e immortalità; ma a quelli che sono
contenziosi e non ubbidiscono alla verità ma ubbidiscono alla ingiustizia, ira
[di Dio] e indignazione...». Anche se qui si tratta di una enunciazione di
principio, per evidenziare che nessuno può ottenere la salvezza se non per grazia, mediante la fede (argomento che l’apostolo sviluppa nel prosieguo
dell’epistola) resta il fatto che c’è una discriminazione. Qual è la sorte di
colui che non ha fede? Insomma è più che evidente che, secondo una interpretazione
letterale della Bibbia, gli empi
saranno puniti con la distruzione. Nella descrizione metaforica che Gesù fa del
giudizio universale in Matteo 25,31-46, il Giudice (che è Cristo stesso) divide
i giusti dagli ingiusti, e Gesù conclude dicendo che quest’ultimi «andranno a punizione eterna; ma i giusti a
vita eterna». Questa discriminazione è attestata in moltissimi punti del
Nuovo Testamento, che a volerli citare tutti, ci vorrebbero alcune pagine di
questo studio. Quel che è certo
perciò, al di là delle espressioni metaforiche, è che c’è una distinzione di
trattamento tra i giusti e gli ingiusti; i primi saranno “premiati”, i secondi
saranno “puniti”. In che cosa consiste la differenza di trattamento? Mentre è
chiaro in che cosa consista il premio,
non è altrettanto chiaro, di primo acchito, in che cosa consista la punizione.
Se accettiamo l’interpretazione letterale pura e semplice, dobbiamo concludere che gli ingiusti
saranno distrutti, che non esisteranno più (certamente non sono mandati a
bruciare nell’inferno come dicono i “tradizionalisti” [la Bibbia non afferma
l’inferno, neanche come “privazione di Dio”] ma non esisteranno più); però
anche se sono distrutti, sicuramente esisteranno comunque nella mente di Dio, e in qualche modo anche nel ricordo di
quanti li conobbero; e questo ricordo delle persone che sono state distrutte
renderebbe imperfetta (cioè non del tutto felice) la vita dei salvati nel nuovo
mondo, per i motivi ovvi che abbiamo già detto. I tradizionalisti, a questo
punto, come è noto, sono pronti ad affermare che Dio annulla dalla mente dei
salvati il ricordo dei propri cari che mancano all’appello, perché potrebbe
generare infelicità. Ma questo sarebbe il massimo dell’assurdo! Come si può
pensare che da una parte Dio non costringe nessuno a convertirsi al bene, per
rispettare la libertà della persona, e dall’altra viola l’integrità personale
dei redenti menomandola nella sua essenza più profonda, cioè nei ricordi,
rendendo le persone smemorate, almeno parzialmente, affinché non abbiano a
ricordare cose spiacevoli. In questo modo quel tale che è accolto nella nuova
creazione senza la madre perché quest’ultima è nel novero degli empi, non
chiederà se ha o no una madre, né tanto meno dove si trovi, se tra i salvati o
tra i perduti; con il risultato che sarebbe un demente o un vegetale che vive
felicemente da vegetale. Una simile congettura è da respingere, perché sarebbe
una offesa all’intelligenza dell’uomo, che è fatto a immagine di Dio.
b) Dialogo. Ancora quesiti e risposte.
Se invece si accetta, come noi
facciamo, l’interpretazione metaforica,
nel presupposto della salvezza universale, allora bisogna precisare in che cosa
consisterà la punizione che attende gli ingiusti prima di essere introdotti pienamente nella nuova creazione, visto
che c’è comunque una punizione. Ed
inoltre bisogna spiegare come si può adattare il senso letterale a quello
metaforico, almeno per quei versetti biblici che parlano della distruzione
degli empi, della loro punizione eterna.
Cercheremo di farlo qui di seguito, immaginando una conversazione tra due
interlocutori che chiamiamo a caso Jacopo
(che sostiene la distruzione degli empi) e Sergio
(che sostiene la salvezza universale). E supponiamo di coglierli nel bel mezzo
della loro conversazione.
Jacopo: Sulla base della Scrittura non trovo
che alla fine tutti gli uomini si salveranno nel giorno della parusia, vale a
dire anche gli empi, i nemici di Dio di Cristo e dell’umanità autori di
efferati volontari e ripetuti crimini. Anzi il concetto opposto mi sembra
affermato per esplicito.
Sergio: Ammetto che ci sono
molti versetti biblici dai quali si può dedurre che gli empi non si salveranno,
e che alla fine, nel giorno della parusia, saranno distrutti. Ma ci sono anche
testi che affermano chiaramente che la volontà di Dio è che tutti siano
salvati, e altri nei quali si afferma che Cristo ha dato l’esempio valido per tutti, fino a morire ingiustamente
sulla croce; e il suo sacrificio non può essere efficace solo per una parte
dell’umanità.
Jac.: E allora?
Quale sarebbe, secondo te, la soluzione? C’è una contraddizione nella Bibbia su
questo punto così importante per la teologia?
Ser.: No, nella Bibbia non c’è contraddizione teologica, tanto
meno su questo punto. Secondo me la soluzione deve essere di tipo deduttivo;
deve scaturire da una riflessione, che mettendo in second’ordine il senso
letterale, ed esaltando quello metaforico, ne ricavi uno che nella sostanza non
contraddica né l’una né l’altra soluzione.
Jac.: Perché
dovremmo esaltare il senso metaforico a scapito di quello letterale?
Ser.: Per un
fatto semplicissimo: tutto ciò che nel Nuovo Testamento riguarda l’escatologia
è profezia, e perciò è raccontato predetto spiegato descritto con termini ed
espressioni che, nella quasi totalità, hanno in modo evidente un senso metaforico che va al di là di quello
letterale come in tutte le profezie. Fa eccezione il fatto letterale che Cristo
sarà presente e visibile personalmente e realmente, sia pur in modo
inimmaginabile.
Jac.: Perché?
Ser.: Faccio degli esempi. Gesù dice ad un certo punto: «vedranno il Figliuol dell’uomo venire sulle
nuvole del cielo» (Matteo 24,30). Proprio sulle nuvole? E su quali nuvole,
quelle del nostro emisfero o su quelle dell’emisfero opposto; anzi, quelle del
cielo della nostra città o quelle del cielo di New York? E se quel giorno non
ci sono nuvole? Evidentemente il senso vero non è quello letterale; si tratta
dell’ultimo evento della storia descritto in modo da evidenziare che il ‘Cristo-ritornato’ sarà ben visibile. Ancora un altro esempio: Paolo dice: «la tromba suonerà, e i morti
risusciteranno» (1 Corinti 15,52). Si può veramente pensare che suonerà
proprio una tromba alla risurrezione dei morti?
Jac.: D’accordo;
è evidente che molte espressioni sono metaforiche, tipiche del linguaggio
apocalittico. Tuttavia questo non ci autorizza ad affermare che quando si parla
della distruzione degli empi si debba intendere qualcos’altro, qualcosa di
diverso che vada oltre il senso letterale.
Ser.: Allora prendiamo in
considerazione l’ipotesi letterale della distruzione degli empi. Dobbiamo
domandarci: con quale modalità saranno distrutti? Col fuoco? Con l’acqua? Con
un terremoto? Con una guerra atomica (e ad opera di chi o contro chi)? Con un
solo gesto di Dio (un gesto della mano)?! Col pensiero di Dio? Con il soffio
(in senso proprio) della bocca di Cristo [2 Tessalonicesi 2,8]?
Jac.: Non ha importanza come; è l’Onnipotente che li distruggerà,
e perciò il fatto non può essere messo in dubbio, proprio perché Dio è
onnipotente.
Ser.: Sull’onnipotenza di Dio siamo d’accordo; ma proprio per
questo possiamo pensare che Dio può fare in modo (“distruggere” dice la
metafora) che non ci siano più azioni malefiche. È così che il male è distrutto; per il fatto che nessuno
commetterà più azioni malefiche. Questo è evidente se consideriamo quel testo
dell’Apocalisse che dice che «la morte e il soggiorno dei morti [l’Ades]
furono gettati nello stagno di fuoco» (20,14). Ma la morte non è né una
cosa, un oggetto, né una persona, che possa essere presa e gettata in qualche
posto o distrutta col fuoco, cioè bruciata; è evidente che si tratta di una
metafora il cui significato proprio è che nessuno morirà più, che Dio
instaurerà l’immortalità secondo la sua promessa. Lo stesso si può pensare (e
secondo me si deve pensare) che nei
testi dove è detto che gli empi saranno distrutti si voglia dire che non ci
sarà più nessuno che si comporterà empiamente, che non ci saranno più azioni
di empietà.
Jac.: Ma allora
come spieghi quel testo che afferma che gli empi saranno non soltanto puniti di
eterna distruzione, ma anche che saranno «respinti
dalla presenza del Signore»? (2 Tessalonicesi 1,9).
Ser.: È semplice. Se il testo è tradotto con maggiore precisione,
si scopre che qui si dice che sarà la presenza
stessa del Signore (cioè la parusia in se stessa) che indurrà (letteralmente
“respingerà”) gli empi a meditare sulle loro malefatte e a provare rimorso, e
finché non usciranno da questo rimorso, che li attanaglierà in una terribile sofferenza
morale per un tempo più o meno lungo (questa è la punizione!), non potranno
accedere alla felicità dei salvati, non godranno di essa, saranno respinti,
anzi si auto-respingeranno, dalla presenza del Signore. L’uscita da questo
stato di terribile sofferenza morale
potrà avvenire e avverrà con una
conversione genuina e profonda che li trasformerà. La presenza di Cristo
produrrà, nel tempo, la loro conversione definitiva, eterna, attraverso la sofferenza morale, di modo che gli empi non
esisteranno più (in questo senso saranno distrutti!) perché non saranno più
empi. La presenza di Cristo sarà portatrice di gioia per i giusti da subito, mentre inizialmente sarà
sofferenza morale per gli empi, fino alla loro conversione allorché saranno
ammessi pienamente nella nuova creazione e nella gioia.
Jac.: Questa
interpretazione mi sembra un po’ forzata. Tu hai aggiunto al testo dei concetti
che non sono espressi nel testo stesso.
Ser.: Ti ricordo il testo di Apocalisse
che abbiamo citato prima, dove si parla della morte che è bruciata nello stagno
di fuoco, e che non può essere preso alla lettera. Neanche questo di 2 Tessalonicesi può essere preso alla
lettera. Per questo sono uscito dalla metafora. È vero, ho aggiunto dei
concetti che non sono espressi per esplicito...
ma non sono espressi solo se ci atteniamo letteralmente alla distruzione degli
empi. Preciserò e rafforzerò, con altri testi, l’esattezza della mia interpretazione.
Jac.: Per
esempio?
Ser.: Per esempio con il testo di Matteo 12,31-32, dove Gesù dice:
«Ogni peccato e bestemmia sarà perdonata agli
uomini; ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata. A chiunque parli
contro il Figlio dell’uomo, sarà perdonato; ma a chiunque parli contro lo
Spirito Santo, non sarà perdonato né in questo mondo né in quello futuro».
E il testo parallelo di Luca 12,10 afferma sostanzialmente la stessa cosa. C’è
dunque un mondo futuro nel quale sono
perdonati i peccati che non sono stati perdonati nel mondo attuale; sono i
peccati degli empi, di cui quello contro lo Spirito (cioè contro l’illuminatore
della coscienza) è il primo, da cui tutti gli altri derivano.
Jac.: Questo è un testo che bisognerebbe approfondire, perché non
mi pare che sostenga implicitamente la salvezza universale; infatti c’è almeno
un peccato che non sarà mai perdonato, quello contro lo Spirito.
Ser.: Veramente non è proprio detto che non sarà mai e comunque perdonato. È sottinteso che non sarà perdonato senza pena; o meglio che l’empio sarà
ammesso nella nuova creazione dopo aver subito una pena capace di produrre
risultati eterni, cioè un vero pentimento. La pena a cui gli empi saranno
sottoposti non è subita in cambio del perdono; non c’è perdono in senso
proprio. D’altra parte Dio non dà il perdono
in cambio di qualcosa! Il peccato contro lo Spirito appartiene al peccato degli
empi, a quei peccati che caratterizzano la loro empietà; non è il peccato degli
uomini comuni, che sono anch’essi peccatori ma, avendo creduto in Cristo sono
stati subito perdonati. L’empio per essere ammesso nel nuovo mondo dovrà
passare attraverso quella sofferenza morale di cui dicevamo prima. Cristo salva
i credenti da questa sofferenza, ma non salva gli empi, Dio non li perdona.
L’ingiusto (altrimenti detto empio) solo così potrà essere indotto a pentirsi,
cioè mediante un intenso rimorso rigeneratore. Si può pensare che il peccato
degli empi contro lo Spirito sia il primo, quello che produce tutti gli altri
peccati degli empi, e che il pentimento che riguarda i vari e terribili peccati
degli empi debba includere perciò il pentimento che riguarda il peccato contro
lo Spirito, ed anche viceversa. Dunque l’empio non sarà perdonato in senso
proprio e in assoluto, semmai in senso relativo. Un condannato che è graziato o
perdonato non sconta la pena, viene messo in libertà; in questo senso gli empi
non saranno perdonati perché dovranno
scontare la pena. Il vero perdono è riservato a coloro che (già in questo
mondo) credono in Cristo e conseguente-mente iniziano il processo della nuova
nascita; essi sono perdonati da subito e gratuitamente,
senza che abbiano a subire alcuna pena né in questo mondo né in quello futuro
(questo è il vero perdono) e pregustano la vita futura della nuova creazione;
mentre gli empi dovranno subire la rigenerazione attraverso una intensa sofferenza morale nel “giorno” della parusia di Cristo; certamente anch’essi
saranno ammessi nella nuova creazione per
grazia (nessun prezzo può essere
pagato, o nessuna sofferenza può essere “merce” di scambio per ottenere
la vita eterna), ma tuttavia passando attraverso un “fuoco” rigeneratore.
Perciò Paolo dice che saranno salvi, «però
come attraverso il fuoco» (1 Corinti 3,13-15). Per questo il giorno di Dio [e
di Cristo], dice il profeta Gioele, sarà «grande
e terribile» (2,31); sarà grande perché, in un modo o in un altro, porterà
la vita eterna per tutti; sarà terribile perché per gli empi non la porterà
senza sofferenza: non sono stati perdonati nel mondo attuale, né lo saranno in
quello nuovo, perché non si sono pentiti e convertiti prima della loro morte, e
hanno peccato contro lo Spirito Santo; dovranno affrontare la pena del loro
rimorso. Insomma i giusti andranno subito a vita eterna, mentre gli empi
andranno alla punizione (Matteo 25,46), a quella punizione capace di produrre,
nel tempo e infine, effetti eterni: produrrà la conversione che li porterà a
godere pienamente della nuova creazione, perché Dio vuole che tutti siano
salvati (1 Timoteo 2,4-6).
Jac.: Non mi
pare però che nella Scrittura si dica, da qualche parte, in modo esplicito che
gli empi si convertiranno o almeno che possono convertirsi.
Ser.: È vero, non c’è scritto per esplicito che si convertiranno
(lo abbiamo già detto). Ma c’è un testo dal quale si può dedurre, almeno, che
possono convertirsi; in Ezechiele 18,23 il profeta riferisce le seguenti parole
di Dio: «Io provo forse piacere se
l’empio muore?... Non ne provo
piuttosto quando egli si converte dalle sue vie e vive?». Dunque l’empio si
può convertire: il testo citato più su dice che non saranno perdonati né in questa vita..., ma in Ezechiele 18,23 è
implicito che l’empio può essere perdonato in questa vita, perché è detto che Dio prova piacere se l’empio si converte.
Jac.: Il testo che hai citato non si riferisce alla parusia, agli
avvenimenti ultimi, ma a quelli del mondo attuale. Se l’empio si pente prima di
morire, cioè “oggi”, sarà salvato dalla distruzione finale.
Ser.: È vero; ma il concetto va precisato. L’empio che non si
converte nel mondo attuale, cioè prima del sonno della morte, potrà salvarsi
(si salverà!) alla parusia, nel giorno di Dio ma non senza pena. Il profeta Gioele dice che nel giorno di Dio
(che è anche il giorno del Signore, di Cristo) «chiunque avrà invocato il nome di Yahwèh sarà salvato» (2,32); e questo stesso testo è
citato da Pietro nel suo discorso detto della Pentecoste [Cfr. § 100]. Alla parusia di Cristo, allorché gli
empi subiranno la sofferenza più o meno lunga e più o meno intensa del rimorso
che porta al pentimento, è evidente che saranno essi stessi che invocheranno il
nome di Dio per uscire dallo stato di “perdizione”. Yahwèh annuncia mediante il profeta Gioele (e mediante
l’apostolo Pietro) che in quel giorno spanderà lo Spirito su ogni persona, quindi anche sugli empi
(Gioele 2,28), e allora sarà spontaneo per essi invocare il nome di Dio per
essere salvati, secondo la promessa di Yahwèh. Il giorno in cui, secondo la
profezia di Gioele, Dio spande il suo Spirito su ogni persona, può considerarsi
iniziato dalla nascita di Cristo (o almeno dal suo battesimo e dalla sua
predicazione); ma raggiunge il suo culmine e la sua piena validità nella nuova
creazione, con la risurrezione di tutti
i morti, con il premio (la “corona di giustizia”) per i credenti, il rimorso
per gli empi e la successiva salvezza anche per loro.
Jac.: Dunque,
se ho ben capito, la salvezza non consiste soltanto nell’ottenere la grazia
della vita eterna (dato che questa in un modo o in un altro la otterranno
tutti), ma piuttosto nel non dover passare attraverso quella intensa sofferenza
morale, più o meno lunga, attraverso la quale dovranno passare gli empi; e
quest’ultima è chiamata “perdizione”, mentre la prima è chiamata “salvezza”.
Però Gesù ha detto: «Chiunque vive e
crede in me, non morrà mai in eterno» (Giovanni 11,26). Questo implica il
fatto che coloro che non credono morranno, morranno definitivamente, per
sempre, come è detto in molti testi per esplicito.
Ser.: Non è esattamente così. Tanto è vero che nel giorno del
giudizio, cioè alla parusia, risusciteranno tutti
i morti (Matteo 25,31-46). Si deve supporre, perciò, che una parte (i credenti)
risorge per andare subito nella gioia
della nuova creazione (sarà attirata
dalla presenza di Cristo), e una parte (gli empi) risorge per “pagare” la pena
stabilita dal giudizio divino (sarà respinta
dalla presenza di Cristo), ma successivamente introdotta pienamente nella nuova
creazione. Il testo di Giovanni 11,26 che tu hai citato deve essere inquadrato
nel contesto. Siamo nell’episodio della risurrezione di Lazzaro. Gesù sta
parlando della morte, o del sonno della morte, cioè di quello “stato”
momentaneo di non-esistenza proprio dei defunti (non si parla qui, ma neppure altrove,
di morte definitiva ed eterna; né la risurrezione di Lazzaro è una risurrezione
definitiva); e dalla lettura dell’intero brano risulta che Gesù dice che la
salvezza consiste nella vita eterna (ovviamente per la grazia di Dio). E io
deduco che Dio potrebbe, se volesse,
lasciare tutti nel nulla della morte,
ma poiché Dio è “Dio” non vuole questo
(l’uomo, tuttavia, non è immortale per
natura, lo sarà soltanto per grazia di Yahwèh): la vita eterna non è meritata neppure dai credenti, la
fede non è un merito. Nessuno può dire a Dio “tu mi devi salvare” in base ad un qualsiasi merito. Però
Dio vuole che tutti siano salvati, e
che tutti giungano a ravvedersi (Atti 17,30) ed entrino nella vita eterna. La
salvezza universale è la grazia
universale. Ma non è detto che affinché quel “tutti” abbia il suo vero effetto,
ci debba essere un ravvedimento necessariamente
in questa vita “terrena”, cioè “adesso”. Per questo risuscitano tutti i morti! Perché Dio dovrebbe
risuscitare tutti i morti e farne poi morire nuovamente (e per sempre) una
parte?! Potrebbero risuscitare
soltanto quelli che devono entrare nella nuova creazione, e rimanere morti per
sempre gli altri. Non pretendiamo qui di suggerire a Dio ciò che deve fare;
certamente no! Stiamo solo facendo delle riflessioni per cercare di capire
alcuni testi della Scrittura. Sappiamo per certo che alla parusia ci saranno
molti viventi che non saranno passati attraverso il sonno della morte (1 Tessalonicesi
4,15-17). Gesù, qui (in occasione della risurrezione di Lazzaro) dice «chiunque vive e crede in me, non morrà mai in eterno»; non dice che risusciterà,
ma che non morrà, dato che parla dei viventi; ma neppure dice che cosa
succederà, in quel giorno, ai viventi che non credono in lui che pure rimarranno vivi; saranno
trasformati come i credenti, che sono anch’essi viventi in quel momento (1 Tessalonicesi
4,15-17)? La risurrezione, invece, è
ovviamente riservata ai morti. Dice: «Chiunque
crede in me, anche se dovesse morire,
vivrà (io sono la risurrezione e la vita)» (Giovanni 11,25). È chiaro che
alla parusia, nella “nuova
creazione”, tutti sono o saranno cristiani: ci sono coloro che accettano Cristo
oggi (in questa vita “terrena”), e coloro che lo accettano dopo la
risurrezione. Infatti, secondo alcuni teologi, c’è una prima risurrezione che
riguarda coloro che hanno creduto quando erano in vita; e c’è una seconda
risurrezione “mille” anni dopo per coloro che devono subire la condanna a
seguito della quale si convertiranno e saranno introdotti anch’essi nella nuova
creazione. E citano un testo dell’Apocalisse:
«Essi [i fedeli di Cristo] tornarono in
vita e regnarono con Cristo per mille anni. Gli altri morti non tornarono in
vita prima che i mille anni fossero trascorsi, questa è la prima risurrezione.
Beato e santo è colui che partecipa alla prima risurrezione. Su di loro non ha
potestà la morte seconda, ma saranno sacerdoti di Dio e di Cristo e regneranno
con lui quei mille anni» (Apocalisse 20,4-6; Cfr. Luca 14,14). Siamo in piena metafora, più che
altrove; assai complessa se inquadrata nel contesto profetico più ampio. Non
pretendo di spiegare tutto, punto per punto; perciò non lo farò; la sola
comprensione letterale dell’Apocalisse
richiederebbe un libro intero e altrettanto l’interpretazione delle profezie in
essa contenute3. Mi limito a dire che, in ogni
modo, appare chiaro che, stando al testo che ho citato, ci saranno due
risurrezioni dei morti; o meglio due categorie di risorti; io dico: a) quella di coloro che entreranno subito nella gioia della nuova creazione
(di coloro che regneranno), e b) quella di coloro che vi entreranno
successivamente (che saranno sudditi),
dopo essere passati per la “morte seconda” (cioè attraverso la sofferenza della
pena che porta al pentimento); oppure, che saranno sudditi per “mille” anni,
dopo di che saranno integrati tra i “re”. La morte seconda, non può essere in
ogni caso una seconda morte vera e
propria, definitiva ed eterna, perché tutti i risorti in quanto risorti saranno corpi pneumatici per grazia di Dio, perciò imperituri, immortali. Non è esatto quel che dicono alcuni, che
il termine “risorgere”, nel greco originale, è espresso in un certo modo per
ciò che concerne la prima risurrezione, e in un certo altro modo per ciò che
concerne la seconda risurrezione, e che questo fatto indicherebbe una
differenza sostanziale, che gli empi non sarebbero corpi pneumatici; i termini anástasis e egeirô, anche nelle loro varie accezioni, sono adoperati nel Nuovo
Testamento indifferentemente e le coincidenze e le discordanze sono casuali.
Con la risurrezione (la risurrezione di tutti i defunti) la morte, come dice la
metafora, è stata gettata nello stagno di fuoco assieme all’Ades (Apocalisse 20,14). L’Ades, nella Bibbia, è quel
luogo che, sebbene immaginario e simbolico, indica una realtà, cioè il fatto
che ci sono (per modo di dire) coloro che hanno già vissuto in questo mondo e aspettano la risurrezione, perciò la
metafora lo definisce anche “soggiorno dei morti”. Ebbene, nell’immagine, non
soltanto la morte, ma anche il “luogo” dei morti sarà gettato nello stagno;
questo, nella metafora, significa evidentemente che non ci saranno più morti in
assoluto, né “buoni” né “cattivi”, né che stiano lì ad “aspettare” la
risurrezione né che stiano lì per l’eternità essendo letteralmente morti per la
seconda volta, perché quel “luogo” è stato distrutto; il luogo non c’è più! Se così non fosse dovremmo domandarci: qual è la
differenza sostanziale (cioè di
“natura”) tra i morti che risorgono per la vita eterna, e i morti che secondo i
tradizionalisti risorgerebbero per essere distrutti? Gli uomini, sia morti e
sia risorti, non sono tutti uguali? Non risorgeranno tutti allo stesso modo,
come opera dello Spirito, cioè con un corpo pneumatico? La risurrezione
coincide e si identifica con l’eliminazione della morte; il risorto è “il vivente
corpo pneumatico che rifiuta la morte”, perciò la metafora dice che la morte
“fu gettata nello stagno di fuoco”. Insomma, questa non è la risurrezione di
Lazzaro a cui segua una seconda morte, ma quella finale e definitiva, appunto pneumatica. Dunque com’è possibile che
gli empi risorti possano morire
nuovamente se la morte non esiste più (se non si muore più), neppure come
possibilità, dato che per volontà di Dio
è negata dal corpo pneumatico immortale? Dio è creatore; è l’autore della vita, non della morte: non distrugge e
non uccide. Dalla risurrezione in poi il mondo intero è già perfetto, è “nuova
creazione”, e dunque la morte non esiste più in assoluto (non si muore più),
neppure per “uccidere” (o distruggere) gli empi. E del resto, a prescindere da
ogni considerazione testé fatta, non si comprenderebbe per quale motivo gli
empi dovrebbero risorgere se sono destinati alla distruzione; in questo caso
sarebbe più logico che rimanessero nello stato di morte! Non è possibile che
nella Bibbia ci sia la pantomima della risurrezione di coloro che invece
dovrebbero rimanere morti. È possibile che nella nuova creazione, alla parusia, si distrugga ancora e si muoia
ancora come nella vecchia creazione?
Dopo tutte le numerose e terribili guerre e le enormi distruzioni e sofferenze
provocate dall’uomo, anche Dio si metterebbe a fare la stessa cosa? In effetti,
secondo me, la Scrittura dice che è beato colui che è condotto subito a godere
la nuova vita con Cristo, perché è stato perdonato da subito; e che gli altri
(gli empi) sono anch’essi corpi pneumatici, ma devono affrontare ancora la loro
sofferenza morale per aver rifiutato Cristo empiamente; vale a dire
non sono perdonati del loro peccato
contro lo Spirito, radice di ogni male. Solo dopo il pentimento potranno
entrare nella beatitudine, e tutti si pentiranno; a seguito della loro
sofferenza morale invocheranno il nome di Yahwèh. Così Dio avrà la vittoria completa, non parziale. Perché
non soltanto dalla nascita di Cristo, vale a dire non soltanto in questa vita,
ma anche nel “giorno” della parusia «chiunque avrà invocato il nome di Yahwèh
sarà salvato».
Jac.: Vorrei ritornare sui testi che parlano della “condanna”
degli empi, perché ve ne sono alcuni che ne parlano in modo da negare la vita
eterna agli ingiusti. In Matteo 5,20 Gesù rivolgendosi ai discepoli, e ai suoi
ascoltatori in generale, dice: «Io vi
dico che se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei Farisei,
voi non entrerete affatto nel regno dei cieli». E nel brano di Luca 13,1-5
mette in luce che chiunque non si ravvede
della propria condotta perirà. E Paolo in Galati 5,19-21 dopo ever elencato
i peccati della “carne” conclude che «quelli
che fanno tali cose non erediteranno il regno di Dio». È evidente dunque
che coloro che non si comportano secondo i dettami dell’Evangelo e non si
ravvedono durante la vita terrena, prima della loro morte, non erediteranno il
regno di Dio.
Ser.: Ti rispondo ribadendo ancora una volta il senso metaforico
di tutto ciò che nel Nuovo Testamento si dice riguardo all’escatologia e alla
“nuova creazione”. Se dovessimo prendere alla lettera le parabole
escatologiche, pesando e soppesando ogni parola, quasi che tutte le parole
debbano avere necessariamente un particolare significato, arriveremmo a
conclusioni assurde. Per esempio, nella parabola delle mine (o dei talenti) in
Luca 19,11-27 Gesù conclude: «Quanto poi
a quei miei nemici [dice il re della parabola] che non volevano che io regnassi su loro, menateli qua e scannateli in
mia presenza» (v. 27). Ora, se il re della parabola rappresenta Gesù Cristo
“ritornato”, e se il testo appena citato qui sopra dovesse avere un senso
letterale (o anche quasi letterale), arriveremmo alla conclusione che nel
giorno della parusia gli empi sarebbero scannati (o almeno distrutti) dai
giusti per ordine di Cristo in sua presenza; «menateli qua e scannateli»: che battaglia! che carneficina! Anzi,
non potrebbe neppure essere una “carneficina”, dato che i risorti non saranno
“corpi-carnali” (o “psichici”), ma “corpi-spirituali”; sarebbe una impossibile lotta mortale (mortale!?!) dello spirito contro lo spirito. E
inoltre: Gesù ha insegnato a non uccidere, neppure con il pensiero (Matt.
5,21-22; 26,52; Cfr. Matt. 5,27-28; Giac. 2,11); dunque com’è
possibile che qui dia l’ordine di uccidere? Le parabole di Cristo vanno prese
per il significato centrale del discorso, sfrondato dai particolari
necessariamente troppo verosimili rispetto alla realtà mondana, che non è
quella della parusia. I re di quel tempo (e non solo di quel tempo) eliminavano
spietatamente e fisicamente i loro nemici. Il comportamento “severo” di quei
re, tradotto in “lingua” evangelica attraverso il racconto di Gesù, allude al
fatto che gli empi dovranno subire la pena del loro rimorso (perché la loro
natura alla risurrezione è perfetta e la mente “aperta”), che in altre parabole
è descritta come il «pianto e lo stridor
dei denti». Cristo non uccide e non dà ordine di uccidere; egli è la
risurrezione e la vita, non è dispensatore di morte: «Come il Padre ha vita in se stesso, così ha dato anche al Figliuolo
d’aver vita in se stesso; e gli ha dato autorità di giudicare, perché è il
Figliuol dell’uomo. Non vi meravigliate di questo; perché l’ora viene in cui
tutti quelli che sono nei sepolcri [tutti i morti], udranno la sua voce e ne verranno fuori: quelli che avranno
operato bene, in risurrezione di vita; e quelli che avranno operato male in
risurrezione di giudizio» (Giovanni 5,26-29). Dunque, i giusti entreranno
subito nella vita (cioè godranno subito della nuova creazione); mentre gli
ingiusti saranno sottoposti al giudizio: Cristo stesso sarà il giudice nel loro cuore, sarà la voce della loro
coscienza finalmente resa perfetta dal loro essere “spirituale” acquistato con
la risurrezione, non per loro merito ma per grazia di Dio, come per tutti i
risorti. La parabola delle mine (o dei talenti) mette in luce anche un altro
aspetto della questione: letteralmente
i servitori fedeli sarebbero premiati differen-temente, in proporzione ai loro
meriti, il che non può essere preso in senso proprio. Infatti, sappiamo da
altre fonti evangeliche (per esempio dalla parabola degli operai delle diverse
ore: Matteo 20,1-16) che il “premio” sarà uguale per tutti. Dunque anche questo
aspetto della parabola delle mine non può essere preso alla lettera, ma nel
senso che Dio guarda all’impegno dei credenti e non alla “quantità” del loro
operare, che ovviamente sarà secondo le possibilità di ciascuno, ovvero secondo
i “talenti” ricevuti da Dio stesso.
Jac.: D’accordo,
gli empi non saranno “scannati”, ma saranno, in un modo o in un altro, esclusi dal regno. Non entreranno nel
regno di Dio dice Matteo 5,20.
Ser.: Infatti, non entreranno nel regno da empi (gli empi non vi entreranno finché saranno empi!); vi
entreranno soltanto quando saranno trasformati dal loro rimorso, dal loro
dolore morale, ed avranno invocato il nome di Yahwèh. La parola “entrare” (entrare o non entrare nel regno)
non vuol dire entrare in senso proprio. Alla nuova creazione non si accede
fisicamente (se così possiamo dire) aprendo una porta o varcando un recinto,
bensì mediante la risurrezione e la trasformazione dell’essere; la trasformazione
in questa accezione riguarda gli empi (dato che i credenti sono stati già
trasformati), perché in un certo senso inizialmente sono come se non fossero pienamente risorti (colui che ha creduto e
crede in Cristo risorge per “primo”, gli empi per “secondi”, mille anni “dopo”:
Apocalisse 20,6); è l’acquisizione della capacità
a gioire della vita eterna, di essere “vivi”, come i giusti (i quali
possiedono questa capacità dal momento in cui hanno creduto in Cristo), è ciò
che gli empi, pur risorti, non hanno ancora, per il rimorso che li attanaglia.
L’entrare (o il non entrare) indica
perciò uno “stato”: rispettivamente lo stato del giusto, di colui che è nel regno, che vi è già entrato da subito; e
lo stato dell’ingiusto, di colui che
è risorto ma non gioisce ancora del regno perché non può gioire. Si tratta
perciò di una condizione morale; appunto di un modo di essere: quello dei
giusti e quello di coloro che ancora non sono giusti ma per i quali Dio ha
compiuto il primo passo risuscitandoli corpi-spirituali. I testi da te citati,
e gli altri simili che troviamo nel Nuovo Testamento, al di là del senso
letterale, non sostengono la distruzione degli ingiusti ma la loro trasformazione, come se passassero
attraverso un fuoco purificatore (Cfr.1 Corinti 3,13-15). Nella parabola delle
zizzanie (Matteo 13,24 ss.) i giusti, rappresentati dal buon grano, entrano
[subito] nel regno, senza passare attraverso il rimorso purificatore, perché
sono stati perdonati per la loro fede, non passano per il “fuoco”; mentre gli
empi, rappresentati dalla zizzania, saranno “gettati nel fuoco”, che è il fuoco
del rimorso che li trasformerà completamente e li indurrà ad invocare il nome
di Jhwh per essere salvati.
Jac.: Non sono
del tutto convinto della tua tesi. Per esempio, come giustifichi il fatto che
tutti gli empi saranno condannati alla stessa pena, cioè al dolore del rimorso,
al “fuoco”, al pianto e allo stridor dei denti, anche se non tutti si saranno
macchiati dello stesso peccato? Possiamo mettere sullo stesso piano l’empio
Hitler, o tanto più coloro che ubbidivano ai suoi ordini (i quali si
trinceravano dietro il “dovere” dell’ubbidienza), e l’anonimo empio che ha
commesso un solo delitto sia pur volontariamente e sia pur senza attenuanti?
Ser.: Io ho cercato di ricavare dai testi biblici (e dalla
riflessione) dei principi fondamentali riguardo alla sorte degli empi. Voler
scendere minuziosamente nei particolari, nei vari casi ipotetici, è come voler
spiegare una parabola dei vangeli punto per punto, parola per parola. Tuttavia,
se proprio vuoi una risposta così intesa, posso riferirmi al testo di Luca
12,47-48 dove Gesù conclude la Parabola
dei servi vigilanti con queste parole: «Quel
servitore che ha conosciuto la volontà del suo padrone e non ha preparato né
fatto nulla per compiere la volontà di lui, sarà battuto di molti colpi; ma
colui che non l’ha conosciuta e ha fatto cose degne di castigo, sarà battuto di
pochi colpi. E a chi molto è stato dato, molto sarà ridomandato; e a chi molto
è stato affidato, tanto più si richiederà». Anche senza spiegare proprio
tutte le parole e tutte le frasi di questo testo, e senza spiegare più
precisamente a chi Gesù si riferisce, è evidente che qui si allude alla
responsabilità individuale, che varia da caso a caso in base al grado di
conoscenza e (sottinteso) alla più o meno volontarietà della “negligenza”
commessa dagli ingiusti. In altre parole, se vogliamo applicare il concetto
alla sorte degli empi, cioè alla pena del dolore morale a cui saranno sottoposti
(o a cui essi stessi si sottoporranno), si può ragionevolmente dedurre che sarà
più o meno intensa e più o meno lunga, secondo natura in proporzione al grado
dell’empietà commessa.
Jac.: Ciò che fin qui hai detto certamente ci induce tutti a
riflettere più profondamente su questo tema. Tuttavia la tesi della grazia
universale (anche per gli empi che non si sono pentiti prima della morte) non
mi convince del tutto.
Ser.: Ti sottopongo ancora un argomento tra i mille che ho a
disposizione. L’evangelista Matteo riferisce il seguente episodio: «Pietro accostatosi [a Gesù] gli disse:
Signore, quante volte, peccando il mio fratello contro di me, gli perdonerò io?
fino a sette volte? E Gesù a lui: Io non ti dico fino a sette volte, ma fino a
settanta volte sette [cioè sempre, tutte le volte]» (Matteo 18,21-22). E
nel brano di Matteo 5,38-48, Gesù si rivolge ai suoi ascoltatori in questi
termini: «Io vi dico: Amate i
vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano... Voi dunque siate
perfetti, com’è perfetto il Padre vostro celeste» (vv. 44 e 48). La
condotta del cristiano deve ispirarsi alla perfezione divina. Ora, la perfezione nella sostanza del discorso
dei testi sopra citati, riguarda il fatto che il credente deve perdonare le
offese e deve, perfino, amare i propri nemici. Dunque, non è possibile
ammettere che invece Dio non perdona
i suoi nemici (non soltanto i semplici peccatori, ma anche i nemici), se Cristo
ci dice che dobbiamo ispirarci al modo di essere divino (siate perfetti come...) perdonando tutti! Insomma, se si è perfetti
come Dio nella misura in cui noi si
perdona tutti, anche i nemici, e se Dio è la Perfezione assoluta, su cui
per l’appunto poggiano il perdono e l’amore per i nemici, nell’ideale del
comportamento cristiano, vuol dire che Yahwèh
per primo ha già perdonato tutti, anche gli empi, e non importa
quando, dove, come e perché: Dio ha già perdonato, se dobbiamo adottare il
perfetto comportamento divino secondo l’esortazione di Cristo. Diversamente gli
uomini potrebbero dire a Dio: visto che
tu non perdoni i tuoi nemici (gli empi) neanche noi perdoniamo i nostri nemici,
perché sono empi; vogliamo seguire il tuo esempio. E si badi bene, questo
perdono (quello di Dio e conseguentemente quello del cristiano) qui, nelle
parole e nella motivazione di Gesù, non è condizionato; è assoluto. Il
cristiano non deve perdonare il nemico a condizione che si penta e diventi amico, o addirittura che
si converta entro un certo termine, prima della morte. Il perdono a cui Cristo
ci esorta in questa vita è lo stesso perdono di Dio, che è il perfetto Padre celeste che perdona di un perdono assoluto, gratuito,
arbitrario, che scaturisce dalla sua assoluta libertà, dal suo amore e dalla
sua perfezione, talché alla parusia di Cristo salva tutti, seppure per due vie
diverse: una è quella che percorrono i credenti (quelli della prima
risurrezione) che è la via del perdono divino immediato, e l’altra (quella del
pentimento attraverso il “fuoco” del rimorso) che percorrono gli altri (quelli
della seconda risurrezione) che godranno della “nuova creazione” in un secondo
momento. In altre parole, se Cristo ci esorta a perdonare i nostri nemici, vuol
dire [vedi più sopra] che Dio perdona anche lui i suoi nemici, cioè tutti e
senza condizione alcuna (non soltanto e necessariamente in questa vita, ma
certamente e universalmente nell’eschaton).
E ciò conferma l’idea della grazia universale, per tutti in assoluto. E questo
si giustifica anche all’occhio della giustizia umana (seppur, giustamente, nella pratica mondana la
giustizia umana esigerebbe, come esige, “premi” e soprattutto “punizioni”) per
il fatto che alla fine della storia (nell’eschaton)
Dio sarà tutto in tutti, al
ristabilimento di tutte le cose; cioè si giustifica nel fatto che Dio farà
“ogni cosa nuova”, a sua perfetta
immagine, nella quale, perciò, non può esserci la vecchia “giustizia umana”, perché questa ha la sua ragion d’essere
nell’attuale mondo che è fuori
dall’Eden, che dopo il peccato di Adamo (secondo la metafora della Genesi) non è o non è più a immagine di
Dio se non in modo imperfetto. La “cosa nuova” non è soltanto il mondo
formalmente rifatto perfetto, ma anche e soprattutto il comportamento dell’uomo, del nuovo
Adamo; in altre parole, si giustifica anche agli occhi della giustizia umana
(di oggi) per il fatto che le cose vecchie sono
passate; ora è il momento del perdono, della grazia universale, come una
sorta di amnistia che ristabilisce la pace alla fine di una guerra civile; è la
grazia la vera novità (il “nuovo”), ciò che fa il nuovo cielo e la nuova terra
nei quali giustizia abita: evidentemente la giustizia di Dio non vuole
convivere con l’empio, con l’anti-Dio, e ciò non si deduce dal fatto che Dio lo
relegherebbe da una parte o dal fatto che lo distruggerebbe (Dio è ovunque, e
nella nuova creazione è tutte le cose, talché nulla può essere relegato da
qualche parte dove Dio non ci sia, perché appunto Dio è ovunque), ma dal fatto
che lo fa “nuovo”, dal fatto che lo salva; l’empio è distrutto nel senso che
non è più empio (è fatto nuovo, come tutte le cose nella nuova creazione che da
cattive diventano buone: faccio ogni cosa
nuova), si rigenera per il solo fatto che può constatare con i propri occhi
la nuova realtà, partendo dal suo
stesso essere spirituale, dalla sua perfetta coscienza che, per virtù divina,
genera il pianto e lo stridor dei denti, cioè la sofferenza morale, la
conversione e l’invocazione a Yahwèh.
Dio è l’Onnipotente, e perciò può convertire il male in bene.
Jac.: Ma allora
(insisto ancora) qual è la differenza tra chi ha creduto in Cristo e chi
invece, non soltanto non ha creduto in lui, ma si è comportato da empio e da
nemico dichiarato di Cristo, di Dio e dell’umanità? Dice Paolo: «Perché siamo ogni momento in pericolo? Ogni
giorno sono esposto alla morte... Se soltanto per fini umani ho lottato con le
fiere ad Efeso, che utile ne ho io?...» (1 Corinti 15,30-32). Insomma, il
cristiano si aspetta legittimamente una “remunerazione”, un premio, e sappiamo
che questo consiste nella vita eterna. Dice ancora Paolo: «...del rimanente mi è riservata la corona di giustizia [la vita
eterna] che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno; e non
solo a me, ma anche a tutti quelli che avranno amato la sua apparizione» (2
Timoteo 4,8); dunque agli altri no. La vita eterna non è per tutti, è per
quelli che avranno amato l’apparizione (la parusia) del Signore, cioè per i
credenti. Al di là delle metafore, dovrà esserci una differenza tra credenti ed
empi, riguardo alla loro sorte che li attende alla parusia.
Ser.: Di questo abbiamo già parlato; perciò dirò soltanto qualcosa
brevemente. Innanzitutto, è vero che l’espressione “corona di giustizia”
significa essenzialmente “vita eterna”, ma ciò non toglie che possa includere
una accezione (od anche più di una), un modo di essere nella nuova creazione
che riguardi proprio i fedeli di Cristo, perciò ad esclusione degli empi, che
pure beneficeranno anch’essi della vita eterna, ma non avranno la corona di
giustizia. Non so se sarà proprio così, ma potrebbe essere. Ed è anche vero che
è al credente (e non all’empio) che Cristo ha promesso la vita eterna, e perciò
il credente, anche se indegnamente, se l’aspetta, attende il premio della vita eterna; ma è altrettanto vero che se Dio
questa la vuole concedere, in qualche modo, anche agli empi, ancor più indegni,
pur non avendogliela promessa (non almeno esplicitamente), non ci dovrà certo
dar conto di questo; quel giorno non possiamo dire a Dio con tono di rimprovero
(tutt’al più ‘di meraviglia’) “non ci aspettavamo che tu dessi la
vita eterna anche agli empi”. La parabola degli operai delle diverse ore (Matt.
20,1-16) lascia intravedere una possibilità di questo genere. Insomma i testi
che tu hai citato non sono tali da escludere necessariamente la salvezza
universale, anche degli empi che non si saranno pentiti prima della morte. La
Bibbia parla dei credenti che regneranno con Cristo (Apocalisse 5,10 [traduzione
Diodati]; 2 Tim. 2,12; Apocalisse 20,4; 22,5); dunque se regnano vorrà dire che
nella nuova creazione ci saranno dei sudditi sui quali i re eserciteranno il
loro potere, dato che non c’è re senza sudditi. Nella vita pneumatica, pertanto, ci sono “re” e “sudditi”. Quale sia la
differenza sostanziale (ammesso che la differenza sia sostanziale) fuori della
metafora, tra i re e i sudditi, degli uni rispetto agli altri, la Bibbia non ce
lo dice. Nella nuova creazione, ci saranno uomini di seconda categoria (gli
empi convertiti o che sono in procinto di convertirsi)? Certamente non proprio
di seconda categoria! Tuttavia una differenza importante ci deve essere degli
uni rispetto agli altri, per la quale valga la pena appartenere ai fedeli di
Cristo, ai “re” (agli eletti, agli adottati), piuttosto che ai “sudditi” (agli
empi divenienti o divenuti buoni). Certamente ci saranno due categorie di
salvati: i “primi” (quelli della prima risurrezione) che non hanno bisogno di
passare e non passeranno attraverso la “morte seconda” che è il pianto e lo stridor dei denti che porta alla conversione, e i “secondi”
(quelli della seconda risurrezione) che nella vita pneumatica sono gli empi convertiti o che sono sulla via della
conversione. È una differenza che durerà per “mille” anni o almeno per un
periodo più o meno lungo, oppure è eterna? Certamente è un altro motivo per il
quale Paolo, per la sua fedeltà a Cristo, si aspetta la “corona di giustizia”.
Infine c’è la grande soddisfazione morale (in questa vita prima di tutto, ma
anche in quella futura) di essere e di essere stati dalla parte di Cristo,
mediante la fede. Il bene gratifica di per sé, a prescindere dalla ricompensa;
ovvero, la ricompensa in parte è di già contenuta nell’operare il bene. Il buon
cristiano, nel suo intimo gode della vita della nuova creazione anticipatamente
compiendo il bene “oggi”, prima di goderla anche oggettivamente alla parusia;
la gode da subito, dal momento in cui crede in Cristo. E questo è un altro
punto a vantaggio del credente. D’altra parte, Cristo non ha mai chiesto e non
ci chiede di credere alla salvezza degli empi, ma di credere alla sua offerta
di salvezza per la fede, ci chiede di essere nel novero dei fedeli. Yahwèh, nella sua assoluta libertà
non è obbligato neppure a salvare gli uomini che credono in Cristo, né è tenuto
tanto meno a salvare gli empi; egli salva tutti gli uomini non perché deve farlo, ma in base ad una sua
decisione libera e insindacabile basata sul suo amore, sulla sua perfezione e
sulla sua onnipotenza che sono la sua essenza, cioè sulla base del fatto che
Dio è “Dio”. L’empio alla parusia non si presenta come colui che ha già goduto
della felicità spirituale che in questo mondo ha goduto il credente [Cfr. Marco
10,28-31], e neppure come colui che gioisce comunque da subito nella nuova
creazione, sin dalla risurrezione; dovrà prima passare “attraverso il fuoco”
della conversione, non di quella per la fede, ma di quella propria del suo
rimorso generato dalla realtà della nuova e perfetta creazione che risulta
dallo svelamento di Dio e dalla presenza
di Cristo. Ecco quali sono le molte differenze tra i credenti e gli empi!
Jac.: Stando
così le cose, come va intesa la candidatura
all’immortalità se c’è la grazia universale per tutti, per cui in un modo o in
un altro gli uomini raggiungeranno l’immortalità? La candidatura, in quanto
tale, non implica che alcuni raggiungeranno l’immortalità ed altri no?
Ser.: So benissimo che vi sono molti teologi che sostengono la
dottrina del “condizionalismo”,
secondo la quale la vita eterna, imperitura, viene concessa all’uomo a
determinate condizioni; sicché la “candidatura” si riferirebbe allo sforzo
umano (sia pur con l’aiuto dello Spirito) inteso a giungere al possesso di
certi requisiti, a seguito dei quali Dio conferirebbe l’immortalità; e in
questo caso evidentemente non tutti giungerebbero a possederli e dunque non
tutti raggiungerebbero l’immortalità. Ma io non condivido questa dottrina. Se
la salvezza (intesa però non come “scampare al fuoco della parusia”, ma come vita
eterna contrapposta a morte eterna)
fosse concessa da Dio in base a un certo atteggiamento dell’individuo, non
sarebbe più per grazia. Se l’immortalità è conferita in base alla fede dell’uomo, o in base alle opere, o in base a tutte e due in qualche modo legate,
non soltanto non sarebbe per grazia, ma verrebbe meno il superiore concetto di
“grazia universale” che la ragione (luce “divina”) richiede speranzosa, e che è
sintetizzato nelle parole di certezza dell’apostolo Paolo secondo le quali «Dio vuole che tutti gli uomini siano
salvati». Nel nostro caso “candidato” va inteso nel senso che, in un modo o
in un altro, otterrà la vita eterna (per
la grazia di Dio) che ovviamente non possiede ancora, là dove è anzi
sottoposto alla morte. La parola “candidato” nell’accezione della dottrina
della grazia universale (per tutti gli uomini), che cioè riguardi il
conseguimento della vita eterna, non va presa perciò in senso letterale, come
se fosse riferita a coloro che devono essere eletti in base a un criterio
discriminatorio, per il quale perciò potrebbero anche non essere eletti.
Infatti, gli uomini che raggiungeranno l’immortalità (qui non importa se tutti
o una parte) la raggiungeranno non per i loro meriti (fosse anche la sola fede, la più pura e genuina), ma
soltanto per grazia di Dio, il quale vuole che tutti siano salvati. C’è
comunque da percorrere una strada maestra indicata dall’esempio di Cristo, che
è quella della “nuova nascita” o nascita spirituale a cui porta la fede; ma
questa strada non aggiunge alcun merito a
coloro che la percorrono; serve ad avvicinare l’uomo, nello “stato”
personale (o modo di essere), a quella meta e a fargli pregustare il mondo
futuro imperituro (una anticipazione del Regno di Dio); per lui non sarà
necessario passare per il “fuoco” per conseguire l’immortalità, a differenza
degli empi che vi dovranno passare. Dunque, la candidatura che implica il
passare o il non-passare per la strada maestra, ma che non si esaurisce in
questo, permette al credente che vi passa di raggiungere la meta prima degli
empi (subito dopo la risurrezione) e di pregustarne la gioia sin da ora. E
questi sono gli eletti di cui parla il Nuovo Testamento. Mentre gli empi non
curandosi della candidatura che Dio indica a tutti gli uomini... eccetera, eccetera. In ogni caso
l’uomo riceve da Dio, in un modo o in un altro, ciò che non gli spetta (o che
non ha) per natura, appunto l’immortalità, o meglio il conseguimento di un
essere imperituro, che non perisce. Pertanto, che l’uomo è candidato all’immortalità,
vuol dire che Dio sconfigge (che ha già sconfitto) le ‘cosiddette conseguenze del peccato di Adamo’ di cui alla metafora della Genesi, donando all’uomo (a tutti gli
uomini) la vita eterna. Il “candidato” è l’uomo
e non soltanto il credente.
Jac.: Allora
possiamo concludere che, prescindendo da ogni considerazione sulla sorte
riservata agli empi, i cristiani sono chiamati ad essere conformi all’immagine
del Messia (meta che si raggiungerà del tutto alla parusia), e in quanto, nel
mondo attuale, sono su questa strada (che è quella della nuova nascita), sono
sin da ora figli di Dio (unti): Rom. 8,29; 1 Giov. 3,1-2;
2 Cor. 1,21. Un figlio di Dio (un “unto”) ha già il suo grande premio
nell’essere figlio del Padre; ha il privilegio di essere la luce del mondo
(Matteo 5,14). I cristiani sono stati chiamati dalle tenebre alla meravigliosa
luce di Dio (1 Pietro 2,9); a seguire l’esempio di Cristo (2,21) già in questa
vita; a dare il loro contributo per un mondo migliore, per una società più
giusta e più umana che preluda al Regno di Dio, a quel regno che sarà attuato
nell’eschaton. Se poi gli empi (tutti
gli empi) alla parusia, in qualche modo e per la grazia di Dio, entreranno
anch’essi nella nuova creazione, certamente questo avverrà sulla base della giustizia
divina.
Ser.: Sì, certamente.
3. La parabola del
figliuol prodigo.
Ma proseguiamo nel nostro discorso. Vi è un altro motivo a
favore della grazia universale che cercheremo di mettere in luce dalla lettura
della Parabola del Figliuol Prodigo. Abbiamo già detto che le parabole e le
metafore in genere non possono avere un significato “nascosto” in ogni parola;
ne hanno uno complessivo, che scaturisce dall’insieme del discorso a
prescindere dai particolari, i quali tuttavia a volte possono avere una loro
importanza. Così è anche per la parabola che ci accingiamo a leggere. Il testo
si trova in Luca 15,11-32 che qui trascriviamo nella traduzione riveduta da Giovanni Luzzi:
[Gesù]
disse ancora: Un uomo avea due figliuoli; e il più giovane
di loro disse al padre: Padre dammi la parte de’ beni che mi tocca. Ed egli spartì fra loro i beni. E di lì a poco, il figliuolo più giovane, messa insieme ogni cosa, se ne partì per un paese lontano, e quivi dissipò la sua sostanza, vivendo dissolutamente. E quand’ebbe speso ogni cosa, una gran carestia sopravvenne in quel paese, sicché egli cominciò ad essere nel bisogno. E andò, e si mise con uno degli abitanti di quel paese, il quale lo mandò nei suoi campi, a pasturare i porci. Ed egli avrebbe bramato empirsi il corpo de’ baccelli che i porci mangiavano, ma nessuno gliene dava. Ma rientrato in sé, disse: Quanti servi di mio padre hanno pane in abbondanza, ed io qui mi muoio di fame! Io mi leverò e me n’andrò a mio padre, e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro te: non son più degno d’esser chiamato tuo figliuolo; trattami come uno de’ tuoi servi. Egli dunque si levò e venne a suo padre; ma mentr’egli era ancora lontano, suo padre lo vide e fu mosso a compassione, e corse, e gli si gettò al collo, e lo baciò e ribaciò. E il figliuolo gli disse: Padre, ho peccato contro il cielo e contro te; non son più degno d’esser chiamato tuo figliuolo. Ma il padre disse ai suoi servitori: Presto, portate qua la veste più bella e rivestitelo, e mettetegli un anello al dito e de’ calzari a’ piedi; e menate fuori il vitello ingrassato, ammazzatelo, e mangiamo e rallegriamoci, perché questo mio figliuolo era morto [nekhròs], ed è tornato a vita [anézêsen]; era perduto, ed è stato ritrovato. E si misero a far gran festa.
di loro disse al padre: Padre dammi la parte de’ beni che mi tocca. Ed egli spartì fra loro i beni. E di lì a poco, il figliuolo più giovane, messa insieme ogni cosa, se ne partì per un paese lontano, e quivi dissipò la sua sostanza, vivendo dissolutamente. E quand’ebbe speso ogni cosa, una gran carestia sopravvenne in quel paese, sicché egli cominciò ad essere nel bisogno. E andò, e si mise con uno degli abitanti di quel paese, il quale lo mandò nei suoi campi, a pasturare i porci. Ed egli avrebbe bramato empirsi il corpo de’ baccelli che i porci mangiavano, ma nessuno gliene dava. Ma rientrato in sé, disse: Quanti servi di mio padre hanno pane in abbondanza, ed io qui mi muoio di fame! Io mi leverò e me n’andrò a mio padre, e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro te: non son più degno d’esser chiamato tuo figliuolo; trattami come uno de’ tuoi servi. Egli dunque si levò e venne a suo padre; ma mentr’egli era ancora lontano, suo padre lo vide e fu mosso a compassione, e corse, e gli si gettò al collo, e lo baciò e ribaciò. E il figliuolo gli disse: Padre, ho peccato contro il cielo e contro te; non son più degno d’esser chiamato tuo figliuolo. Ma il padre disse ai suoi servitori: Presto, portate qua la veste più bella e rivestitelo, e mettetegli un anello al dito e de’ calzari a’ piedi; e menate fuori il vitello ingrassato, ammazzatelo, e mangiamo e rallegriamoci, perché questo mio figliuolo era morto [nekhròs], ed è tornato a vita [anézêsen]; era perduto, ed è stato ritrovato. E si misero a far gran festa.
Or il
figliuolo maggiore era a’ campi; e
come tornando fu vicino alla casa, udì la musica e le danze. E chiamato a sé
uno dei servitori, gli domandò che cosa ciò volesse dire. Quello gli disse: È
giunto tuo fratello, e tuo padre ha ammazzato il vitello ingrassato, perché
l’ha riavuto sano e salvo. Ma egli si adirò e non volle entrare; onde suo padre
uscì fuori e lo pregava di entrare. Ma egli, rispondendo, disse al padre: Ecco
da tanti anni ti servo, e non ho mai trasgredito un tuo comando; a me però non
hai mai dato neppure un capretto da far festa con i miei amici; ma quando è venuto
questo tuo figliuolo che ha divorato i tuoi beni con le meretrici, tu hai
ammazzato per lui il vitello ingrassato. E il padre gli disse: Figliuolo, tu
sei sempre meco, ed ogni cosa mia è tua; ma bisognava far festa e rallegrarsi,
perché questo tuo fratello era morto [nekhròs], ed è tornato a vita [ézêsen];
era perduto ed è stato ritrovato.
Questa parabola si
potrebbe prestare più di ogni altra ad un simbolismo, o ad allegorie, ricavate
sin dai minimi particolari del testo, sia che la si interpreti alla maniera
tradizionale, sia che la si interpreti in modo nuovo nel senso della grazia
universale. Non lo faremo, ci limiteremo all’essenziale. Si è spesso dato il
significato più ovvio: è evidente che si parla di colui che si allontana dalla retta
via e che si comporta di conseguenza, e che ad un certo punto si rende conto
dell’errore commesso, si pente, e torna ad essere un buon figlio di Dio. Questa
interpretazione è esatta. Tuttavia il testo ha una particolarità che è comune a
poche altre parabole: implica una doppia interpretazione perché siamo di
fronte ad una profezia, alla predizione di avvenimenti universali che sono
propri dell’escatologia e che vanno interpretati sulla base dei testi che qui
appresso citiamo e sulle considerazioni che ne seguono: Dice Gesù: «Chi ascolta la mia parola e [di
conseguenza] crede a colui che mi ha mandato [cioè a Dio], ha vita eterna, e
non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita» (Giovanni 5,24).
Due concetti:
a) chi, in questa vita, ascolta e accetta la parola di Cristo
(del Messia) non è sottoposto al giudizio
nell’altra (che è il “fuoco” del rimorso alla parusia); forse Paolo allude a
questo, in 1 Corinti 3,15;
b) la voce di Cristo la può ascoltare e accettare anche
l’empio, alla risurrezione, passando
per il “fuoco” del pentimento.
Infatti, proseguendo il suo discorso Gesù dice: «...i morti udranno la voce del figlio di
Dio, e [perciò tutti] coloro che l’avranno udita [cioè tutti i morti]
vivranno... tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce [e perciò
vivranno; tutti vivranno, risusciteranno]...
quelli che hanno fatto il bene in risurrezione di vita [cioè godranno della
“nuova creazione” dal momento stesso della risurrezione: passeranno dalla morte
alla vita: v. 24], e quelli che hanno fatto il male in risurrezione di condanna
[cioè saranno sottoposti al “fuoco” del pentimento]» (Giovanni 5,25-29).
Tutto questo alla parusia, alla
risurrezione dell’ultimo giorno, ovvero nel primo giorno eterno.
Ciò premesso vediamo nelle linee essenziali qual è la
seconda interpretazione di questa parabola che ha come protagonista il figliuol
prodigo (d’ora in poi diremo f. p.) che, come abbiamo già detto, riguarda la
salvezza universale, empi compresi. Chi è il f. p. ? È un empio, non è un
semplice peccatore. Nessuno diventa veramente “cattivo” (o “ingiusto”, come
dice il Nuovo Testamento) se non compie il male coscientemente, e dunque in
questo caso è, appunto, empio; pecca contro lo Spirito Santo, contro la voce
della coscienza bene informata. Infatti, la parabola ci dice che il f. p. è in
famiglia, è col padre, e questo significa che conosce il bene; eppure lo
rifiuta, vuole allontanarsi e si allontana dal padre. È certo che l’empio incallito non può essere
perdonato in questa vita se non è in grado di pentirsi; in questo caso non sarà
perdonato neppure alla parusia, eppure sarà accolto nella “casa paterna”, nella
nuova creazione. Infatti, a differenza dei peccatori che hanno creduto in
Cristo e sono stati perdonati già in questa vita ed hanno iniziato l’itinerario
della nuova nascita, i quali alla risurrezione saranno introdotti pienamente
nella nuova creazione da subito, gli empi dovranno prima passare attraverso il
“fuoco” del rimorso, perché non saranno perdonati (vedi più sopra). Dunque,
poiché il f. p., che rappresenta la categoria degli empi, secondo la lettera
del racconto è stato accolto nella casa paterna, questo momento può essere
interpretato come collocato alla parusia, allorché gli empi (risorti ma
non-perdonati) saranno appunto e nonostante la loro indegnità accolti anch’essi
nella nuova creazione.
Perché Gesù aggiunge il racconto dell’atteggiamento del
secondo figlio? Secondo noi lo fa in vista del fatto che coloro i quali
appartengono alla categoria dei credenti, ma oggi ancora di sentimenti
“terreni”, si stupirebbero (come infatti si stupiscono) riguardo a ciò che Gesù
afferma implicitamente nella parabola. Come!? anche gli empi si salveranno!??
Il testo ribadisce letteralmente per ben due volte cadenzate (al v. 24 e al 32)
che il f. p. era morto; l’originale
greco ha un termine inequivocabile, nekròs
(cadavere), e subito dopo ribadisce che era perduto
(non era tra i perdonati). La morte, infatti, senza la risurrezione sarebbe
quel fatto definitivo che annulla l’essere. Ma il f. p. torna a vita (o torna a
vivere), vale a dire risorge. Qui, infatti, il termine italiano risorto, risorgere, che nel greco è anézêsen
(v. 24) e ézêsen (v. 32), è
comunemente tradotto con l’espressione “tornato in vita”, che è equivalente a
“risorto”. Perciò preferiremmo che fosse tradotto esplicitamente con il
termine “risorto”, perché nel Nuovo Testamento questo è generalmente il termine
in uso nelle traduzioni moderne. Vero è che Apocalisse 20,5 dice «il rimanente dei morti non tornò in
vita prima che fosse... eccetera»;
però Gesù non dice (tradotto in italiano) «...lo
farò tornare in vita nell’ultimo giorno»; dice «lo risusciterò nell’ultimo giorno». Anche se il f. p. nel racconto
letterale era morto certamente in senso metaforico, non propriamente, ed anche
se vogliamo rimanere in questi termini, bisogna osservare che un morto (nekròs)
che è “ritrovato”, che torna a casa da sé, implica che è risorto, sia pur e
ugualmente in senso metaforico. Insomma, così come è morto in senso metaforico (per modo di dire), allo stesso modo è risorto in senso metaforico. Ma con il
termine “risorto” la metafora che concerne il tempo della parusia dispone di un
vocabolo più appropriato. Il Padre non accoglie in casa un morto, un cadavere,
ma un figlio risorto che ha invocato
il nome di Yahwèh: «Padre, ho peccato...» (v. 18). Se paragoniamo la parabola a una
medaglia, la lettera deve stare tutta, senza mezzi termini, da una parte della
medaglia (“morto” e “risorto”, pur essendo qui termini metaforici, appartengono
prima di tutto alla lettera del discorso), e la metafora (cioè il senso
nascosto e traslato) deve stare tutta nel rovescio. Insomma, questa parabola
nella sua apparente semplicità e per il fatto che è forse la più lunga delle
parabole, non si può giustificare come un esempio di perdono fra tanti, né come
la dimostrazione della gioia di colui o di coloro che accolgono in “casa” colui
che ha peccato anche gravemente; deve esprimere qualcosa di particolare, fuori
del comune. Il significato è preannunciato dalla breve parabola della pecora
smarrita del testo appena precedente (15,1-7), dove il senso più profondo
(quello dell’altra faccia della medaglia, il secondo significato che sfugge a
un primo esame) è che Dio e il suo Mediatore non perderanno neppure una
“pecora” su cento, e le pecore fuori
della metafora sono gli uomini, senza alcuna distinzione. Non sono soltanto
i credenti; intanto perché tutti, potenzialmente, sono o possono essere
credenti, ma anche e soprattutto perché Dio
vuole che tutti gli uomini siano
salvati (1 Timoteo 2,4), quindi tutti sono “pecore”, e d’altra parte la
pecora smarrita non era un credente, semmai un apostata, dal momento che era
“smarrita”. Dio salva anche quella. E si badi bene: nella parabola non è la
pecora che ritorna all’ovile, spontaneamente, che si è pentita, non è
l’apostata che si riconverte, è il pastore che va a cercarla, la trova, la prende di peso e la porta all’ovile,
ma è comunque destinata al ravvedimento, nel giorno in cui anche gli empi
invocheranno il nome di Yahwèh,
alla parusia. Qui è evidente il significato che Dio darà la vita eterna anche a
chi, in questa vita, non ha voluto credere in Cristo e si è comportato da empio
(ma, tuttavia, non senza passare per il “fuoco”, alla parusia). L’ovile è la
“nuova terra”, e il pastore vi porta la pecora prendendola di peso e non perché
si è convertita (la conversione verrà dopo).
Torniamo, dunque, alla nostra parabola, usciamo dalla
metafora e domandiamoci: perché il testo di Luca
insiste sul morto che risorge? Perché
Cristo sceglie questi termini metaforici piuttosto che altri? Avrebbe
potuto far dire al padre del f. p.
soltanto che suo figlio “era perduto ed è stato ritrovato”, limitandosi al
senso letterale o quasi; invece parla di “morte” e di “risur-rezione”. Per il
fatto che evidentemente il riferimento è alla parusia (che è l’altra faccia
della medaglia, il significato più nascosto), allorché tutti i morti (qui in
senso proprio) risusciteranno. Se il significato fosse soltanto quello che si
dà per primo (che il f. p. era moralmente perduto e che ritrovò la sua dignità
di figlio attraverso il pentimento) non ci discosteremmo di molto dal semplice
senso letterale (guarderemmo solo una faccia della medaglia); mentre qui è
necessario uscire completamente dalla metafora. Se il “morto” empio risuscita,
significa che Dio gli apre la strada della salvezza universale, lo vuole tra i
salvati (è la pecora smarrita che è presa di peso e portata nell’ovile), non lo
risuscita per farlo morire nuova-mente; e ciò avviane soltanto alla parusia
perché l’empio, nella sua accezione più precisa di colui che ha peccato contro
lo Spirito Santo, certamente non sarà perdonato in questa vita (vedi più
sopra). Il dilemma è se sarà perdonato o no, o se sarà salvato o no, alla
parusia; ma almeno qui, sulla base di questa parabola, si deve comunque
concludere che sarà salvato (ma non perdonato), dato che il testo ci dice che
quel “morto” risuscita ed è accolto nella
casa del Padre, cioè fuori della metafora nella nuova creazione; più
precisa-mente: sarà perdonato soltanto a seguito del “fuoco” del rimorso e del
pentimento generato dalla presenza
del Signore. Se la metafora dell’accoglienza si riferisse soltanto al fatto che
il f. p. riacquista la sua dignità di figlio (e di uomo), dovremmo domandarci:
alla letterale “casa paterna” che cosa corrisponderebbe nella metafora
svelata, cioè nella realtà? Non certamente la Chiesa; qui non si parla di
chiesa, siamo in un ambito in cui l’idea di chiesa è del tutto estranea. È
evidente che fuori della metafora l’empio f. p. (come tutti coloro ch’esso
rappresenta) è accolto nella nuova creazione dopo essere passato attraverso la
sofferenza del rimorso (mi leverò e me ne
andrò a mio padre... non sono più degno...); la “casa del padre” è il nuovo
cielo e la nuova terra (Apocalisse 21,1-5). Ad evidenziare questo fatto c’è
l’atteggiamento dell’altro figlio. È quello che molti cristiani molto
probabilmente oggi assumerebbero se sapessero con certezza che gli empi, cioè
coloro dai quali forse hanno subito terribili torti, saranno salvati, accolti
nella nuova creazione assieme a loro. Perché Gesù fa questa contrapposizione
tra l’atteggiamento accogliente del padre, e l’atteggia-mento del figlio
“fedele” che si sente menomato per quella accoglienza? Per il motivo che qui
non si parla soltanto del perdono generico, quello cristiano che si deve
attuare “fino a settanta volte sette” (cioè sempre) nei rapporti umani in
questo mondo. La struttura esoterica della parabola ci lascia comprendere che
qui si parla della grazia divina
universale, quella per la quale perfino gli empi saranno salvati. Fuori
della metafora ad accogliere è il Padre, cioè Dio: Colui che decide e agisce
secondo giustizia, la quale in Lui è l’amore puro e incondizionato. «I miei pensieri – dice Yahwèh – non sono i vostri pensieri né le vostre vie sono le mie vie» (Isaia
55,8). L’empio f. p. è già passato attraverso il “fuoco” della sofferenza
morale (simbolizzata dalla carestia e dal vivere con i porci), mentre l’altro
figlio che pensa di aver sofferto (perché il padre non gli aveva mai dato un
capretto perché facesse festa con i suoi amici: v, 29) in effetti aveva avuto
il grande conforto di essere stato (e di essere) fedelmente nella casa paterna.
E questa è già una ricompensa, che corrisponde al dono della fede che gli empi
non potranno mai avere, perché non possono tornare indietro nel tempo per
vivere con fedeltà l’esperienza della fede. Anche nella nuova creazione, tra i
salvati, gli empi non avranno (o non avranno avuto), e per sempre, la gioia della
fede; ma godranno tuttavia, e con tutti gli altri, quella della realtà della
vita eterna. L’altro figlio, dunque,
può rappresentare ad ogni modo una parte dei “giusti”: l’altra parte è rappresentata,
nel racconto letterale, da coloro che sono in casa a festeggiare, che gioiscono
per il f. p. ritrovato. Ma la categoria del figlio “brontolone”, di fatto,
esiste soltanto nel mondo attuale; non esiste effettivamente nel “giorno”
eterno inaugurato dalla presenza del Signore. Il racconto del figlio fedele che
protesta ha un valore didattico soltanto per quei cristiani attuali che
dubitano della grazia universale, e
non riguarda effettivamente l’atteggiamento dei salvati alla parusia.
All’arrivo del f. p. il “brontolone” non era in casa, era ai campi; siamo in un
altro ambito. I campi rappresentano il mondo attuale; la casa nella quale si
festeggia rappresenta la nuova creazione. Tutti gli uomini (“tutti” in
assoluto) saranno nella Casa Paterna. Quale padre sarebbe disposto a perdere
anche un solo figlio, sia pur indegno? E Dio è Padre perfetto e onnipotente; Egli può trovare e trova la “via” della
salvezza per tutti, là dove un padre
“terreno” sarebbe incapace di fare alcunché di giusto e di efficace. Nel testo
di Apocalisse citato più sopra è
detto che nel “nuovo cielo e nella nuova terra” Dio «abiterà con gli uomini [senza distinzione], ed essi saranno suoi popoli» (v. 3).
Matteo Manzella
Note
1. Dizionario biblico, a cura di Giovanni Miegge, alla voce “Domenica”,
Feltrinelli Editore, Milano 1968.
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