domenica 27 maggio 2012

I MESSIA SONO DEI

I MESSIA SONO DÈI
Giovanni 10,34

di Matteo Manzella

Introduzione

Si discute da secoli, almeno a partire dal Concilio di Nicea, su un punto fondamentale per la dottrina cristiana: sul significato di “Figlio di Dio” quando questa espressione identifica Gesù di Nazareth. Per questo ci troviamo di fronte a una mole di studi e di libri che giunge fino ai nostri giorni. Studi dotti, spesso pregni di alta filosofia e di magnifica teologia, ma anche, e spesso, con errori concettuali che suscitano contestazioni. L’espressione “Figlio di Dio”, presa letteralmente, significa “Dio” così come “figlio d’uomo” significa “uomo”? Per molti teologi si, o quasi. Questa affermazione antropomorfica, così intesa, da dove deriva? Quale ne è la fonte? Dove la troviamo scritta? Da nessuna parte! Secoli di formulazioni dottrinali e di studi teologici sono basati su niente! Nella migliore delle accezioni si basano sulla fede pura e semplice di chi non si fa troppe domande. Gli altri, considerano l’espressione fuori dal suo ambiente storico e religioso (quello delle origini), in modo anacronistico. Il fatto è più eclatante nel mondo protestante, dove vige la regola luterana della Bibbia come base dottrinale e solo della Bibbia.
Se l’argomento è considerato a partire dalle fonti bibliche, che sono le più antiche per la storia della fondazione del Cristianesimo, è da “ciechi” non accorgersi che l’espressione significa semplicemente l’Eletto, il Re, l’Adottato, il Messia,l’Erede (il primogenito della cultura ebraica), il Profeta. Alla crocifissione di Cristo accadde un fatto che potrebbe risolvere il problema. Risulta che l’autorità religiosa ebraica non ha creduto alla “diceria” secondo la quale Gesù si voleva fare Dio; il Nazareno non fu condannato perché pretendeva di essere Dio. Questo fatto (di volersi fare Dio) è soltanto una falsa accusa, che le autorità religiose neppure presero in considerazione nel processo al Nazareno, inventata da gruppi di Giudei provocatori. La condanna per bestemmia, infatti, poteva essere comminata anche a chi, falsamente, si autoproclamasse “Messia”. L’accusa non fu “di farsi Dio”, ma un’altra (vera o falsa che fosse): quella di volersi fare Re, che per la cultura ebraica si diceva anche con l’espressione “Figlio di Dio”, che equivaleva, appunto, a “Messia”; la stessa che designava i Re del popolo ebraico e il Messia atteso da secoli. In Israele il Re era l’Unto (in greco il Cristo). Tutto questo si può ricavare da molti testi biblici. Qui ne sintetizziamo alcuni: «Pilato entrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: “Sei tu il Re dei Giudei?”… Gesù rispose: “Io sono re…”. Pilato disse ai Giudei: “Volete che vi liberi il Re dei Giudei?”… Pilato fece una iscrizione, e la pose sulla croce. Diceva: Gesù il Nazareno, il Re dei Giudei. I capi sacerdoti dissero a Pilato: “Non scrivere: Il Re dei Giudei; ma che egli ha detto: Io sono il Re dei Giudei”». Pertanto, i capi dei Giudei ammettevano semplicemente che Gesù aveva detto di essere Re, che tale si voleva fare (non “Dio”) secondo l‘accusa giudaica ufficiale, imprecisa ma non completamente inventata: «Io sono Re – aveva detto Gesù – [ma] il mio regno non è di questo mondo». E i giudei gridarono: «Chiunque si fa Re si oppone a Cesare» (Giovanni c. 18 e 19). Dunque, aveva detto di essere il Messia, il Re, non Dio. Ad accusare Gesù di farsi Dio erano, invece, alcuni gruppi di provocatori.
I sostenitori della dottrina trinitaria affermano che se Gesù non fosse Dio (“vero Dio e vero Uomo”), la religione cristiana non sarebbe molto diversa da quella pagana morta da quasi duemila anni. Di fatto è il contrario, se si ammette la Trinità. Sappiamo, infatti, che il politeismo sosteneva che la Divinità poteva incarnarsi, poteva farsi “uomo”. Nella seconda metà del II secolo d.C., Plotino lo affermava in una forma molto vicina a quella trinitaria, quasi uguale.1
Sarebbe pagana la religione israelitica di cui ancora oggi i suoi seguaci non accettano Gesù come Messia e non credono, a maggior ragione, che sia Dio? Io penso di no. Assolutamente no!
Il problema non è se una dottrina è o non è opportuna, gratificante e essenziale per il sistema che la sostiene, come qualcosa di cui non si possa fare a meno (da un punto di vista soggettivo, in questo caso), un tassello della “costruzione teologica”, tolto il quale crollerebbe l’intera impalcatura che la sostiene. La verità (o almeno, qui, la “logica interna” che sosterrebbe l’idea di Trinità) si dovrebbe accettare a prescindere da considerazioni di questo genere che porterebbero pressappoco ad affermare che dobbiamo dare credito soltanto alla religione che sia radicalmente diversa da quella pagana e più convincente; sicché se la dottrina trinitaria rende diverso il Cristianesimo dal paganesimo (ma comunque non lo renderebbe più convincente!) allora è bene sostenere la dottrina trinitaria per dare coerenza al Cristianesimo. Questo pregiudizio, se sia essenziale la dottrina trinitaria o no, non merita posto alcuno nella teologia biblica e nella teologia tout court; interessa unicamente, o quasi unicamente, gli storici della Teologia. Ora, si dà il caso che la Trinità (come concetto) è ignorata dal cristianesimo primitivo, quello che troviamo nel Nuovo Testamento, il più genuino.
Se la fonte deve essere soprattutto la Bibbia, e se prendiamo alla lettera (o in senso antropomorfico) l’espressione “Figlio di Dio”, sorgono almeno tre problemi. Ci domandiamo:
1) se la migliore concezione di Dio (filosofica o biblica, non importa) può ammettere ch’egli abbia un figlio;
2) se l’ammette, vogliamo sapere se questo figlio è Dio oppure no;
3) se risulta che è Dio, dobbiamo trovare il modo di conciliare questo fatto con il monoteismo (anche Zeus aveva dei figli: gli dèi).
Questi problemi ne suscitano altri, che concorrono a loro volta a creare il problema dei problemi: la dottrina trinitaria stessa.
Inizieremo con l’interrogare proprio Gesù, attraverso i testi biblici. Che cosa diceva il Nazareno di se stesso?
Dal Nuovo Testamento, sfrondato dalle interpretazioni ellenistiche e platoneggianti, deduciamo che agli inizi della formazione del primo gruppo di credenti Gesù di Nazareth (il figlio di Maria) non era Dio né tanto meno “uomo e Dio” in unità. La dottrina trinitaria, che è la logica conseguenza della credenza nella divinità di Cristo, appannaggio dei cosiddetti “padri della chiesa” e dei “filosofi cristiani”, è ancora di là da venire, è lontana oltre cento anni, per quell’epoca un tempo lunghissimo. Lo storico Marcel Simon dice che la cristologia dei primi seguaci di Gesù «non intacca lo stretto monoteismo israelita: perché, se professano per il loro Maestro una venerazione che lo innalza al di sopra della [comune] condizione umana, essi sono ancora lontani dall’identificarlo con Dio».2 Non voglio fare, qui, la storia del passaggio dal monoteismo puro al monoteismo trinitario che sfiora il politeismo, e delle lotte (anche cruente) che ne seguirono. Intendo rimanere il più possibile nell’ambito della teologia biblica. Tuttavia, il lettore facilmente noterà che tra i concetti, che in questo breve trattato sfiorano la problematica filosofica, aleggia il grande Aristotele. Non poteva essere altrimenti dal momento che Tommaso d’Aquino l’ha tirato in ballo; la Chiesa cattolica romana è ancora legata, almeno in parte, alla dottrina tomista.
Roma, 15 Maggio 2012 m. m.
1. L’accusa giudaica.
Nel cap. 10 di Giovanni troviamo che Gesù è accusato dai Giudei di farsi Dio: ti vogliamo lapidare «perché tu, che sei uomo, ti fai Dio» (v.33). Giovanni non dice mai che l’accusa dei Giudei, secondo la quale Gesù avrebbe detto di essere Dio, corrispondeva effettivamente a ciò che il Nazareno aveva affermato; non dice: I Giudei volevano lapidare Gesù perché aveva detto di essere Dio; oppure: Gesù svelò ai Giudei di essere Dio e perciò lo volevano lapidare; o altre simili affermazioni. Niente di ciò. Anzi, come vedremo, l’evangelista accomuna questa accusa all’altra di violare il Sabato (Giovanni 5,8; 9,24; 10,20 ecc.) che i Giudei muovevano a Gesù e che era palesemente ingiustificata; e con ciò implicitamente dice che anche l’accusa di farsi Dio era ingiustificata, che Gesù non aveva detto di essere Dio. E fondamentale stabilire, perciò, su che base si pretendeva di motivare l’accusa, e altresì con quale dichiarazione Gesù avrebbe detto, sempre secondo i Giudei, di essere Dio. E soprattutto è importante comprendere la risposta di Gesù, che evidentemente era intesa a confutare l’accusa per la quale era prevista la pena di morte, per-ché di questo si trattava, di una accusa dalla quale Gesù era implicitamente chiamato a difendersi.
2. Duplice accusa.
Giovanni riferisce implicitamente, già al cap. 5, che i Giudei equivocavano sui fatti e sulle parole di Gesù: «cercavano di ucciderlo; perché non soltanto violava il Sabato [è l’autore del Vangelo che lo dice!?], ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio» (5,18). Certamente si tratta di accuse, e dobbiamo intendere che fossero completamente false, altrimenti dovremmo concludere che Giovanni ammette che Gesù violava veramente il Sabato. E se sono false non è vero che Gesù abbia affermato di essere Dio, chiamando Yahwèh “mio Padre; non si è fatto uguale a Dio. Basterebbe questo per concludere il discorso.
Nel testo greco non c’è l’uso dei segni ortografici e di interpunzione; non ci sono, pertanto, quelli che oggi adoperiamo per riferire o citare parole e pensieri altrui; se quest’uso ci fosse stato, almeno la fine della proposizione, facendosi uguale a Dio”, la troveremmo sicura-mente racchiusa tra virgolette, perché evidentemente l’evangelista riferisce i pensieri iniqui di quei Giudei che volutamente ignoravano il significato ebraico della filiazione divina per equivocare, sconfinando nella cultura greca paganeggiante per attribuirla a Gesù. Anche questa riflessione, giusta in modo evidente, basterebbe a concludere il discorso: Gesù non si è fatto uguale a Dio. Infatti, certamente non è vero che Gesù violava il Sabato e perciò non è vero neppure che si facesse uguale a Dio, come alcuni Greci e alcuni Romani pretendevano di farsi e di essere, per esempio gli imperatori. Questa pretesa degli imperatori, era una importazione dall’oriente, usanza di cui i Giudei erano certamente al corrente (Paolo la conosceva: Cfr. 1 Corinti 8,5). In effetti accusavano Gesù di violare il Sabato perché in questo giorno il Nazareno, per fare del bene, aveva guarito il paralitico di Betesda e gli aveva detto: «Prendi il tuo lettuccio e cammina» (Giovanni cap. 5, la prima parte, e soprattutto il vers. 16 che conclude il brano); e equivocavano dicendo che Gesù si voleva uguagliare a Dio chiamandolo Padre suo (5,17). Poiché Giovanni riferisce unitamente le due “questioni”, cioè ambedue come accuse dei Giudei, senza preoccuparsi di distinguerle in qualche modo, vuol dire che il farsi Dio era appunto una ingiusta accusa così come lo era quella di violare il Sabato, e perciò né l’una né l’altra corrispondevano al vero, nel senso che Gesù così come non aveva violato il Sabato neppure si era fatto Dio. All’accusa di violare il Sabato Gesù risponde dicendo che è lecito fare del bene in giorno di Sabato (Cfr. Marco 3,1-5 e testi paralleli). Vedremo qui appresso come risponde all’accusa di farsi Dio. E’ certo che non dice che egli è veramente e propriamente Dio (come i trinitari gli vorrebbero far dire). Ed è altrettanto certo che non vuole sfuggire e non sfugge alla risposta dandone una ambigua. Vedremo che l’apologia di Gesù è chiara ed esplicita: egli non è, non dice e non ha detto di essere Dio.
3. La questione posta dai Giudei.
Effettivamente Gesù chiamava Dio mio Padre con riferimento implicito al Salmo 89,26 e ss (in quanto Messia, cioè adottato, e non in quanto Dio). E d’altra parte anche Giuseppe, presso il Faraone, parlando con i suoi fratelli, ai quali si era già rivelato (Io sono Giuseppe, vostro fratello, che voi vendeste: Genesi 45,4) adoperava l’aggettivo “mio”, dicendo del padre Giacobbe “mio padre” (quasi che fosse solo il suo) invece di dire “nostro padre” come avrebbe dovuto dire (Genesi 45,9,13). Gesù, ammesso che abbia pronunciato esplicitamente quel “mio” (e non abbiamo difficoltà ad ammetterlo, anche se è stato contestato da alcuni biblisti), voleva solo evidenziare che egli è il Messia e che in quanto tale ha, e solo lui ha (il Messia per eccellenza è uno solo; un solo Signore: 1 Corinti 8,6), un rapporto particolare, personale, di stretta comunione con Dio, perché appunto questa è la caratteristica ideale e fondamentale dei “messia” in generale (gli “unti” di Dio presso gli Ebrei, gli “eletti”) e perciò lo è tanto più (realmente e perfettamente) di Gesù, che è il Messia per eccellenza; ma egli sa, e lo dice (perché questo è il suo compito), che il Padre non è soltanto il Padre suo, ma di tutti. Il Risorto dice a Maria Maddalena: «Non trattenermi [non mi toccare], perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli [i credenti, i discepoli, ma anche i fratelli veri e propri], e di’ loro: “Io salgo al Padre mio e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro”» (Giovanni 20,17). Dunque, Dio è il Padre (nei vari sensi spirituali e per adozione) di Gesù e dei discepoli, così come Giacobbe era il padre (in senso proprio) di Giuseppe e dei suoi fratelli, anche se Giuseppe diceva “mio padre” invece di dire “nostro padre”. E si noti che, secondo molti commentatori, Giuseppe è considerato “tipo” del Messia. Egli, tra l’altro, era in comunione con Dio (interpretava sogni e rivelazioni: cc.40 e 41), fu spogliato e depredato della sua lunga veste (37,23) e venduto (da Giuda: v. 28) per denaro come Gesù, e “risuscitò” per la salvezza dei suoi stessi fratelli (45,4-5).
Yahwèh non è soltanto il Dio di Gesù; e Dio è Padre per natura, per essenza: è “persona-padre” in quanto è “essenza-padre”, è Padre di tutti perché è il Dio di tutti. D’altra parte, nel Salmo 89 Yahwèh, per bocca del salmista, parla del re Davide e dice: «Egli (Davide) m’invocherà, dicendo: Tu sei mio Padre, il mio Dio e la Rocca della mia salvezza» (vv.26ss). Dunque, secondo il Salmo 89, anche Davide dice (o può dire) di Dio “mio Padre”, ma non per questo Davide è l’unico “Figlio di Dio” in assoluto, né tanto meno è Dio.
Gesù non si fa o non si è fatto Dio, anche se si appella a Yahwèh come Padre suo (questa di farsi Dio è, appunto, l’accusa dei Giudei); anzi diceva che il Figlio di Dio, il Messia, «da se stesso non può fare cosa alcuna» (Giovanni 5,19,30), ma il Padre (che è maggiore di tutti, anche del Messia, cioè del Figlio: Giovanni 14,28 u.p.) gli ha dato ogni potestà (Matteo 28,18). Pertanto non è vero che Gesù violava il Sabato, e non è vero che dicendo “mio Padre” si facesse Dio.
Quando i Giudei, giustificando la loro accusa col prete-sto che Gesù chiamava Yahwèh “mio Padre”, lo volevano lapidare, è chiaro che commettevano un abuso e una tremenda ingiustizia. E’ evidente che l’accusa era un pretesto. Equivocavano allo scopo di far condannare il Nazareno. Mentre i trinitari, di ieri e di oggi – fatta salva la loro buona fede – dicono che Gesù si è veramente fatto Dio perché era ed è tale; credono alla divinità di Gesù, alla sua uguaglianza con Dio; partono da presupposti platonici e neoplatonici, che però sono quelli propri del panteismo politeista e mal si addicono al monoteismo ebraico e cristiano: da ciò il “problema” trinitario nel cristianesimo storico, considerato che Gesù non si è fatto Dio.
Finché Gesù ha detto, più o meno esplicitamente o velatamente, di essere “Figlio di Dio” (Unto), i Giudei sono stupiti e incuriositi: sembrava appunto che Gesù si volesse proclamare Messia (Re, Unto, Eletto), cioè colui che era atteso da secoli, annunciato da Mosè e dagli altri profeti, il Salvatore di Israele; perciò domandano, con una forte carica di ironia che sfiora lo scherno: «Fino a quando terrai sospeso l’animo nostro? Se tu sei il Cristo (l’Unto, il Messia, l’Adottato, il Re), diccelo apertamente» (10,24). Ecco la domanda delle domande! Subdola ma essenziale. Non chiedono “se sei Dio diccelo apertamente”, bensì “se sei il Messia...”. La loro astuta intenzione è di provocare Gesù, iniziando il discorso da lontano. Ed ecco, più avanti (al v.33) si scopre la loro intenzione: accusano Gesù di farsi Dio e decidono di lapidarlo.
Gesù dice spesso che il Padre (che è Padre di tutti) è colui che lo manda, che lo ha inviato per il mondo (ad annunciare il Regno, di contrada in contrada). Questo non significa letteralmente dal cielo in terra, dato che Dio è in cielo in senso metaforico3; significa semplicemente che Gesù, in quanto “messia”, è Apostolo (inviato, mandato); dice l’autore sacro: «Fratelli santi, che siete partecipi della celeste vocazione, considerate Gesù, l’apostolo e il sommo sacerdote della fede che professiamo» (Ebrei 3,1). Ecco, l’epistola agli Ebrei ci dice che la vocazione dei credenti è “celeste” come quella dell’apostolo Gesù. Tutti coloro che operano nel nome di Dio, perché mandati da Dio, provengono dal “cielo” (perché – in senso metaforico – sono “saliti in cielo e discesi”, sono in comunione con Dio), sono appunto “mandati” dal Padre nel mondo. Non si possono scambiare i sensi letterali delle metafore per il significato proprio che vogliono porgere. Cristo è mandato da Dio, o venuto dal cielo; però anche Giovanni Battista era “mandato” da Dio (Luca 3,2; Giovanni 1,6,33); e né Cri-sto né Giovanni provenivano dal cielo, né in senso proprio (ovviamente), né nel senso che fossero di “natura divina”; ed anche la manna nel deserto “discendeva” dal cielo (da Dio), ma non in senso proprio (non era di “natura” divina): Esodo 13,31; Salmo 78,24; Giovanni 6,49. Cristo però è “disceso” dal cielo come la manna (la quale, appunto, non scendeva propriamente dal cielo), ma per dare la vita, la vita che proviene dal Padre; il Messia è una realtà salvifica per volontà di Dio, in attuazione di un suo progetto che implica la natura umana del Salvatore, mentre non può implicare la natura divina. Gesù è soltanto “uomo” ed esiste a partire dalla sua nascita in Palestina, ovviamente. Del resto, egli stesso dice: «Come il Padre mi ha mandato [Cfr. Luca 4,18-19], anch’io mando voi» (Giovanni. 20,21); e questo fatto evidenzia che l’essere “mandato”, sia per Gesù che per i discepoli, non implica la natura dei “mandati”, che ovviamente è natura umana. Per essere “mandati” (apostoli) non è necessario essere di natura divina. Questo è evidentemente ovvio per i discepoli, ma è così anche per Gesù. L’essere mandato (evidentemente nel mondo: Marco 16,15) è una delle caratteristiche di tutti i “messia”, di tutti i Figli di Dio, gli “unti”; di Gesù, di quelli che lo hanno preceduto (i re, i sacerdoti, i giudici, i profeti) e di quelli che lo seguono (i credenti, i discepoli: 2 Corinti 1,21). Gesù non è Dio; è il santo servitore che Dio ha unto, che ha “scelto” adottandolo (Atti 4,27,30; Luca 9,35; Matteo 16,16).
Gesù dice e fa ciò che ha udito e visto fare dal Padre, come e meglio dei profeti che lo hanno preceduto (Giovanni. Cap. 5), nel senso che egli è Profeta per eccellenza (il Messia), interprete ed esecutore fedele della volontà di Dio: dice le parole di Dio (Cfr. Giovanni 8,26), è appunto il Messia atteso da secoli. Perciò afferma: «(Io) cerco non la mia propria volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Giovanni 5,30 u.p.); cioè di colui da cui sono stato “eletto” (scelto, adottato) e da cui prendo la mia autorità, per la quale sono Apostolo.
4. La paternità di Dio.
Che il Salvatore si proclamasse “Figlio di Dio” o che affermasse la paternità di Dio, su cui Gesù poneva l’accento, poteva risultare una nozione familiare per i Giudei. Nell’Antico Testamento i riferimenti a Dio con l’appellativo di Padre sono presenti, implicitamente o esplicitamente. In Isaia leggiamo: «Tu, o Eterno, sei nostro Padre» (63,16). Ugualmente nota era la nozione di “figlio” di Dio, sia in senso generico, come conseguenza della paternità universale di Dio Creatore riferita a tutti (Deuteronomio 14,1) e sia in senso adottivo-spirituale riferito a Israele come popolo, al re, ai giudici e a tutti coloro ai quali la parola di Dio era rivolta4.
Quindi, dalla paternità di Dio a cui Gesù si richiamava, i Giudei potevano dedurre o che parlasse della filiazione divina come creatura di Dio o che, più verosimilmente, si volesse proclamare Unto (Messia, Cristo) cioè Re; ma non potevano dedurre che si volesse proclamare Dio. Per i Giudei, l’espressione molto familiare di “Figlio di Dio” (Figlio del Padre ovviamente) non equivaleva e non equivale mai a “Dio”, ma sempre a “unto”, “messia”, “eletto”, “adottato”. Se dunque la nozione del rapporto Padre-Figlio (o Figlio-Padre) era nota ai Giudei anche nel senso tutto speciale di Messia, su quale affermazione di Gesù equivocano, soprattutto, e deducono il pretesto ch’egli si volesse fare Dio? Non certamente per quel “mio” espresso nei discorsi di Gesù (per esplicito o per sottinteso, non importa) con riferimento al Padre (al Dio), non sufficiente di per sé per trarre delle conclusioni se non rafforzato da qualche altro appiglio. Abbiamo visto che anche di Davide si diceva che si rivolgesse a Dio con l’appellativo di “mio Padre” (Salmo 89,26). Quindi tutt’al più Gesù si paragonava a Davide, si proclamava re, Messia; ma non Dio. E perciò, in altra circostanza, e questa volta giustamente, Gesù è chiamato Figliuolo (discendente) di Davide (Matt. 21,9; Cfr. Luca 1,32; Romani 1,3-4; Matteo 1,1; Luca 2,4), e dunque, in qualche modo, poteva aspirare al trono del gran re.
La risposta di Gesù è contenuta nel versetto 30 dello stesso cap. 10: «Io e il Padre siamo uno». Gesù, in aggiunta a quanto abbiamo già evidenziato riguardo alla paternità di Dio, precisa il rapporto di comunione che c’è tra Padre e Figlio, tra Dio e il Messia: «Io e il Padre siamo uno». E’ una espressione analoga a quella che si usa per evidenziare che due o più persone hanno lo stesso modo di pensare e lo stesso comportamento; una espressione del volgo dice: Aldo e Francesco sono tutta una cosa; hanno unità di intenti e d’azione. E si dice anche: agiscono come un sol uomo. E’ certo, comunque, che né Gesù, né i suoi ascoltatori erano filosofi greci o esponenti della filosofia scolastica. E’ impossibile che Gesù intendesse affermare una “identità di sostanza”. L’espressione «Io e il Padre siamo uno», non indica una identità di “natura”, bensì un rapporto di stretta comunione come mai ha avuto un profeta prima di Gesù. E soprattutto equivocando su questa affermazione che lo vogliono lapidare (v.31). Ma i Giudei non sono degli “antitrinitari” ante litteram, come vogliono farci intendere i trinitari di oggi; ovvero non sono agli occhi nostri (e dell’autore del vangelo) colpevoli di incredulità per il fatto che si sarebbero rifiutati di ammettere che Gesù voleva enunciare quel concetto che, come sappiamo (noi, ma non i Giudei, né i discepoli, né l’autore del vangelo), alcuni secoli più tardi costituirà la dottrina trinitaria dei filosofi cristiani. Vogliono solo giocare sull’equivoco scambiando la lettera della metafora con il suo significato. Il pretesto è buono: noi ti vogliamo lapidare perché tu che sei uomo ti fai Dio, ti identifichi con Dio. Ma noi non possiamo basare una dottrina evangelica sulla interpretazione che i Giudei hanno dato delle parole di Gesù!
Inizialmente, la precisa risposta di Gesù alla calunnia dei Giudei di farsi Dio non spiega direttamente il concetto di comunione Padre-Figlio, ma piuttosto quello della filiazione divina”; il Nazareno si rifà alla nozione ebraica di “Figlio di Dio”, nella quale è implicita quella di “comunione col Padre”. In altre parole, secondo Gesù stesso, l’affermazione precedente “io e il Padre siamo uno” è spiegata dall’affermazione di essere “Figlio di Dio”, cioè Messia. E’ come se Gesù avesse detto: Io non sono Dio, sono Messia, anzi il Messia; io sono uno col Padre (in comunione perfetta con Lui) perché sono il Messia per eccellenza, non sono uno dei profeti; sono colui che il Padre ha scelto per la salvezza del Mondo, il Profeta; non sono Dio. «Io sono nel Padre; il Padre è in me» (Giovanni 14,11); comunione perfetta. (I termini «nel» e «in» non si possono intendere come li intendono molti commentatori trinitari di oggi, con il senno di poi). La profezia annunciata da Mosè, da colui che parlava con Dio e che ricevette le tavole della Legge, è qui adempiuta: «L’Eterno, il tuo Dio, ti susciterà un profeta come me, in mezzo a te, d’infra i tuoi fratelli; a quello darete ascolto» (Deuteronomio 18,15). E l’Eterno dà la sua approvazione, dice: «Porrò le mie parole nella sua bocca, ed egli dirà tutto quello che io gli comanderò» (v. 18). Questa è la comunione tra Gesù e Dio. Ed è anche la comunione che Gesù auspica che ci sia tra lui, i discepoli e il Padre. Anche i discepoli, dunque, devono essere in comunione con il Padre, lo stesso genere di comunione che ha Cristo. Dice Gesù: «…che siano uno come noi… che siano tutti uno; [e precisa ulteriormente:] come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch’essi siano in noi» (Giovanni 17,11,21). La comunione col Padre non implica la “natura” (meglio: l’es-senza) divina, né di Gesù, né dei discepoli ovviamente. Poiché i discepoli non sarebbero (come non sono) di natura divina, anche avendo lo stesso genere di comunione auspicato da Gesù (…in lui…), vuol dire che neppure il Messia è di natura divina; non almeno per il fatto che è (o che sarebbe assieme ai discepoli) in comunione con Dio. Insomma, dall’affermazione di Gesù («Io e il Padre siamo uno») non si può dedurre nessun concetto in favore della “divinità” che si vorrebbe attribuire al Salvatore, e quindi neppure in favore della dottrina trinitaria. Quando Gesù esprime il concetto di «essere uno» con Dio e/o con i discepoli, sta parlando della «comunione» con Dio e con i discepoli; non sta parlando dell’unità consustanziale. Non si tratta qui di un ipotetico discorso del Medioevo, che si potrebbe svolgere tra i discepoli di Tommaso d’Aquino.
5. Cristo vero uomo e vero Dio?
Non tratterò qui il problema della cosiddetta “divinità” di Gesù Cristo dal punto di vista filosofico, l’ho già fatto in altra sede sostenendo, tra l’altro, l’impossibilità secondo ragione che si diano due nature (o essenze) in unità, ma qualcosa dovrò pur dirla; più avanti accennerò brevemente a qualcuna delle problematiche filoso-fiche che sono insite nella concezione trinitaria. Qui, invece, metterò in evidenza prevalentemente il fatto che nel Nuovo Testamento, e particolarmente negli Evangeli, Gesù implicitamente si presenta sempre nel suo essere uomo, come se fosse soltanto uomo (come è effettivamente); e a volte in modo tale da poter dedurre – quasi esplicitamente – che è da escludere la sua supposta divinità o meglio l’ipotetica unità delle due nature. In questi casi, quando si presuppone, nonostante l’evidenza contraria, che si tratta comunque di una persona in due nature (o di due nature in una persona), si evidenzia di fatto che Gesù Cristo sarebbe diviso in due, vale a dire due persone divise e separate, il che è impossibile da qualsiasi punto di vista. Nonostante i trinitari affermino che Gesù è vero Dio e vero uomo in unità, c’è fra i trinitari stessi la tendenza a considerare, in modo assurdo, alcuni aspetti della vita di Gesù ora come se fosse soltanto Dio e ora, soprattutto, come se fosse soltanto uomo, negando di fatto l’unità della persona Gesù Cristo. Questo perché sono sollecitati da coloro che evidenziano delle incongruenze (sul piano razionale) nel racconto della vita del Nazareno, beninteso se si ammette che è vero Dio e vero uomo in unità. I trinitari dicono spesso, riguardo a Gesù: è in questo “modo” come uomo; è in quest’altro “modo” come Dio. Cosicché dicono che Gesù come uomo non sa quando accadrà la parusia (il suo secondo avvento), vale a dire che a volte non si avvale della sua divinità; come se la persona si potesse dividere in due, una che fa uso (o che non fa uso) della sua umanità; e una che fa uso (o che non fa uso) della sua divinità. Il riferimento è all’episodio nel quale Gesù, agli apostoli che gli domandano quando si verificherebbe la parusia (cioè il suo “ritorno”), risponde: «Quant’è a quel giorno ed a quell’ora nessuno li sa, neppure gli angeli dei cieli, neppure il Figliuolo, ma il Padre solo» (Matteo 24,36)5. E ad un’altra simile domanda dei discepoli, dopo la risurrezione del Maestro, Gesù risponde: «Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità» (Atti 1,7). Dunque lo sa soltanto il Padre, i discepoli non lo devono sapere, ma non lo sa neppure il Figliuolo (il Messia). Ed ecco il punto: i trinitari dicono che Cristo non lo sa come uomo. E come Dio? Ma se Cristo ha detto di non saperlo è l’unità Cristo, evidentemente, che non lo sa! Non c’è (e non può esserci) “Cristo come uomo” e “Cristo come Dio”, così sarebbe diviso; c’è semplicemente la “Persona-Cristo”, una e indivisibile. E poiché Cristo è uomo in modo evidente, dobbiamo ammettere che è soltanto uomo; altrimenti se fosse stato Dio avrebbe saputo precisare “il giorno e l’ora” del suo ritorno. La scappatoia secondo la quale Cristo, qui, non avrebbe fatto uso della sua divinità (come? premendo un bottone?!), è semplicemente ridicola, per due motivi: a) Gesù avrebbe detto una bugia; b) l’essenza divina, come l’essenza tout court in ogni caso, non è una specie di arnese, una cosa che si può adoperare o no; negli esseri umani è la persona stessa, e se quella divina fosse in Gesù Cristo (se fosse possibile) sarebbe, appunto, la persona stessa Gesù Cristo una e indivisibile. In tal caso Gesù avrebbe potuto rispondere: «Non vi dico “quando”, perché non sta a voi di sapere i tempi e i momenti». Invece dice che non lo sa neppure il Figliuolo (neppure il Messia); lui stesso, Gesù Cristo, non lo sa. Se questo Figliuolo è, come dicono i trinitari, la seconda persona della Trinità, cioè Dio, come è possibile che non lo sappia? Se Gesù Cristo è una per-sona, vero Dio e vero uomo in unità (sempre ammesso che fosse possibile), ciò che pensa, dice, fa e sa, in una parola il suo essere, è uno; e a questo punto deve sape-re, perché se per assurdo il suo “essere-uomo” non sa, parli allora (si fa per dire) il suo “essere-Dio” che sa. Ma evidentemente non è così. Paolo dice che Dio ha mandato [a predicare] nel mondo [per il mondo] il suo Messia (il suo proprio Figliuolo Unigenito: il Messia) Colui che si è scelto, «in carne simile a carne di peccato», cioè “uomo” (Romani 8,3), e dunque Gesù Cristo è uomo, soltanto uomo. E dice ancora: «Vi è un solo Dio ed anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo» (1 Timoteo 2,5). Si noti anche che in quest’ultimo testo biblico Gesù è mediatore tra Dio e gli uomini; ne deduciamo che non può essere Dio (se lo fosse non sarebbe mediatore, sarebbe Dio stesso); e non può essere “uomo comune” come tutti gli altri uomini. Si deve ammettere che Gesù è uomo perfetto, ma comunque uomo, non Dio; perciò l’apostolo conclude precisando che Cristo è «uomo».
Ed ecco un altro esempio che evidenzia l’incongruenza trinitaria. Gesù è morente sulla croce. «Venuta l’ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all’ora nona. Ed all’ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Marco 15,33-34). Ecco, chi grida così? E’ soltanto l’uomo Gesù? Secondo la stessa dottrina trinitaria non sarebbe possibile; per due motivi: uno logico (la persona Gesù non può essere divisa) e uno della stessa teologia trinitaria che vuole che a soffrire sulla croce sia Dio o almeno anche Dio. Perciò a gridare in quel modo deve essere necessariamente anche Dio, ovvero anche l’uomo; il che significa che Gesù sarebbe diviso. E com’è possibile che Dio si rivolga a Dio stesso per dirgli “perché mi hai abbandonato”? Il testo dice, per di più, Dio mio, Dio mio... Chi pronuncia questa invocazione? Il Dio Cristo (una vera assurdità!), oppure l’Uomo Cristo? E′ evidente che è l’uomo, perché Cristo è soltanto “uomo”: è l’uomo che si rivolge a Dio. L’incongruenza è evidente. E qui è inutile fare le distinzioni trinitarie tra “essenza” e “persona” e tra “persona” e “persona”; sarebbero, come sono effettivamente, distinzioni che non convincono, che lasciano il tempo che trovano, perché sono contro ragione. La “persona” è tutto, tutto l’individuo, tutto l’uomo. Che cosa sarebbe l’essenza se fosse soltanto essenza e non fosse persona (tutta la persona)? E la persona che cosa sarebbe se non fosse quella determinata persona, cioè l’individuo (che relaziona col mondo e con se stesso), nel quale l’essenza è determinante? Le astrazioni dell’individuo in “parti”, diventano fuorvianti se sono scambiate per realtà fuori dell’unità individuale. Gesù è individuo, e l’individuo esige l’unità; l’individuo non è una astrazione, è la “sostanza” per eccellenza, che è l’unità per antonomasia, è l’essere tautologicamente reale composto tautologicamente dall’unità dell’essenza e della materia. Gesù (individuo) non può essere a volte come uomo, a volte come Dio, a seconda della convenienza per il nostro argomentare. L’unità del divino e dell’umano in Gesù Cristo (se fosse possibile) escluderebbe che Cristo si sia potuto rivolgere a Dio come ad altro Dio, come ad altro da sé! Tutto questo discorso mostra che ammettere l’umano e il divino in Gesù, significa ammettere che è diviso, il che sarebbe impossibile, come è di fatto. Insomma le due ipotetiche essenze (quella divina e quella umana) che sarebbero in Gesù si presenterebbero separate perché non possono costituire una “unità” (cioè non è vero che sono tutte e due in Gesù, sia pur in unità), perché tutte le volte che ci aspettiamo che siano unite, cioè di poter constatare che sono un solo essere, invece si presentano separate, si evidenziano come escludentesi a vicenda (talché, come nel caso precedente, l’umano non sa, men-tre il divino dovrebbe sapere), come due esseri diversi: uno che non conosce e uno che conosce (due individui); in effetti, uno reale e l’altro erroneamente ipotizzato. In altre parole, se veramente Gesù fosse determinato da due essenze in unità, non sarebbe propriamente uomo e non sarebbe propriamente Dio. Che cosa sarebbe?! La dottrina trinitaria esprime concetti impossibili!6
Gesù era soltanto uomo, e non anche uomo. Questo fatto appare evidente da molti testi biblici. L’autore dell’epistola agli Ebrei afferma: «Nessuno si prende da sé l’onore; ma lo prende quando sia chiamato da Dio… Così Cristo non si prese da sé la gloria d’esser fatto Sommo Sacerdote; ma l’ebbe da Colui [da Yahwèh] che gli disse: Tu sei il mio Figliuolo; oggi [σήμερον, adesso] t’ho generato[Salmo 2,7]… Il quale, nei giorni della sua carne [cioè prima di divenire corpo spirituale, da risorto], avendo con gran grida e con lagrime offerto preghiere e supplicazioni a Colui che lo poteva salvare dalla morte, ed avendo ottenuto d’essere liberato dal timore, imparò l’ubbidienza dalle cose che soffrì, benché fosse Figliuolo [Messia]; ed essendo stato reso perfetto [reso perfetto! da Yahwèh], divenne per tutti quelli che gli ubbidiscono, autore d’una salvezza eterna, essendo da Dio proclamato Sommo Sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec» (Ebrei 5,4-10). Qui non è necessario un lungo discorso; il significato del testo è incontrovertibile: Cristo era semplicemente uomo, un uomo che supplica Dio di aiutarlo. Gesù è l’Uomo che fu chiamato (eletto) da Dio (…oggi… adesso… al battesimo nel fiume Giordano, non in cielo). Reso perfetto, fu fatto Sommo Sacerdote, sicché divenne autore d’una salvezza eterna per tutti quelli che gli ubbidiscono.
6. La risposta testuale di Gesù.
Ecco, dice Gesù: «Non è scritto nella vostra legge [Salmo 82]: Io (l’Eterno) ho detto: Voi siete dèi? Se chiama dèi coloro ai quali la parola di Dio è stata diretta (e la Scrittura non può essere annullata), come mai dite voi a colui che il Padre ha santificato e mandato nel mondo, che bestemmia perché ho detto:” Sono Figlio di Dio”?» (Giovanni 10,34-36). Gesù, sostanzialmente, si considera tra i “messia” della tra-dizione ebraica; dice: Sono Figlio di Dio. A questo punto la sua apologia non è basata tanto sulla riaffermazione della “comunione” Padre-Figlio espressa precedentemente con le parole “Io e il Padre siamo uno”, ma piuttosto e comunque sul concetto di filiazione divina. In ogni caso, egli cita la Scrittura non per affermare o per dimostrare di essere Dio, ma al contrario per negare di averlo affermato; per dire che non è e che non ha detto di essere Dio, per difendersi dai Giudei che erano intenzionati a lapidarlo. Questa è l’evidenza che non può essere negata! Il testo, infatti, si riferisce a coloro che da Yahwèh erano chiamati “Figli dell’Altissimo”, e perfino dio, ma che non erano Dio (si veda Salmo 82). Gesù nega di essere Dio proprio per l’analogia stessa ch’egli fa nella sua risposta apologetica; perché gli antichi giudici, “Figli dell’Altissimo” (cioè “messia”), ai quali la parola di Dio era stata diretta, secondo il Salmo 82, erano chiamati “dio” (o dèi) ma non erano Dio, non erano di “natura” divina. E′ impossibile che Gesù per affermare la sua divinità nel modo concepito dai trinitari e com’essi vorrebbero, dica “io sono Dio come lo erano i giudici d’Israele”; impossibile! Questa non sarebbe una analogia di contenuto trinitario, non sarebbe una spiegazione adatta ad affermare la divinità di Cristo, bensì a negarla, perché afferma il contrario di ciò che i trinitari gli vorrebbero far dire! Gesù non sta pronunciando una contraddizione in termini (“sono Dio come gli antichi Giudici”!). Si deve dunque concludere che non vuole affermare di essere Dio, ma al contrario lo vuole negare, è come se avesse detto: Io sono il Messia, non sono Dio. Perciò si deve dedurre che “Figlio di Dio” (come afferma la cultura ebraica7) non vuol dire “Dio”, non implica la natura divina. “Figlio di Dio” significa semplicemente “Messia”. I Giudici (Salmo 82) erano Figli dell’Altissimo, cioè “messia”, “unti”, “eletti”, “adottati”; ed anche Gesù era “Figlio dell’Altissimo” secondo Luca 1,32. In sostanza Gesù dice: “Gli antichi giudici, Figli di Dio (Messia), erano chiamati dèi, e voi mi volete lapidare soltanto perché ho detto di essere Figlio di Dio, non Dio?” [Cfr. Luca 1,32 con Salmo 82,6]. Il discorso di Gesù – ancora in altre parole – non può significare che i giudici erano “dio” per modo di dire, mentre Gesù lo è in senso proprio; il Nazareno non dice questo. Dice invece, in altri termini, “mi volete lapidare solo perché ho detto di essere Messia? Non lo sapete che i Figli di Dio, cioè gli Unti, i Messia, si possono chiamare “dèi”? Ed infatti il Messia Gesù è chiamato “dio” da Tommaso, allorché gli appare, dopo la risurrezione: «Poi (Gesù) disse a Tom-maso: Porgi qua il tuo dito...Tommaso gli rispose: “signor (kýriós) mio e dio (theós) mio”» (Giovanni 20,27-28). E così pure l’autore dell’Epistola agli Ebrei – riecheggiando il Salmo 45,6-7 – chiama il Messia (il Figlio) con il termine “dio” (Ebrei 1,8) perché è “Figlio dell’Altissimo” (Luca 1,32; Salmo 82,6) come e più dei Giudici d’Israele (Cfr., in Hort, Westcott, Aland, o altri editori., Gv. 1,1,18 [...dio era... ...unico-nato dio...] con Gv. 20,28 [...il dio mio] e con Gv. 10,34 [...io ho detto: Dèi (dèi) voi siete.]). Tuttavia Gesù non si attribuisce il titolo di “dio”, ma semplicemente dice di essere Figlio di Dio, cioè Messia. Quand’anche si fosse chiamato implicitamente “dio”, ne avrebbe avuto il diritto come e più dei giudici, perché quelli erano giudici infedeli (Cfr. Salmo 82), mentre Cristo è giudice fedele: «Il Padre... ha affidato tutto il giudizio al Figlio [al Messia Gesù]» (Giovani. 5,22). Dante Alighieri, nell’opera Monarchia, dice che nella vita eterna gli uomini si potranno chiamare “dio”, anzi dice che saranno felici in quanto dii: «iam dixi-quia per ipsum hic felicitamur ut homines, per ipsum alibi felicitamur ut dii»; concetto che qui ci piace segnalare in italiano secondo la traduzione appropriata riportata nell’Edizione Newton: «imperocché per questo dono [della libertà] noi siamo qui felici come uomini; ed altrove, come dii»8. Lutero (sostenuto da Melantone) dice che i battezzati, nel momento stesso in cui ricevono il “sacramento”, diventano veri e propri Dii9. Noi diciamo più semplicemente, ma più precisamente, che i credenti sono “unti”, cioè Figli [fanciulli, τέκνα] di Dio (2 Corinti 1,21; 1 Giovanni 3,1-2); e così come Cristo (il Figlio) può essere chiamato “dio”, anche i credenti (i figli) potranno esserlo, da “adulti” cioè alla parusia di Cristo, dato che saranno stati fatti (alla risurrezione) «partecipi della natura divina» (2 Pietro 1,4): partecipi della natura divina! θείαϛ κοινωνοὶ φύσεως; perché sono generati da Dio (Giov. 1,12-13, gr. ἐγεννήθησαν=sono generati), hanno raggiunto la statura di Cristo (Efesini 4,13). E da ciò si evidenzia ancora una volta che “Figlio di Dio” vuol dire semplicemente e soltanto “Cristo”, cioè “Unto”. Se san Tommaso, apostolo di Cristo, dopo la risurrezione di Gesù, chiama l’Erede (Ebrei 1,2) con il termine “dio” (Giovanni 20,28), anche i credenti, i discepoli, i coeredi (Romani 8,17) potranno chiamarsi con lo stesso termine (e per gli stessi motivi) alla risurrezione, allorché l’immagine di Dio sarà perfettamente e totalmente restaurata in loro (1 Giov. 3,2). In questo senso, che ovviamente riguarda soprattutto il futuro escatologico, Lutero parla della “divinità” dei battezzati.
John M. Allegro, studioso dei manoscritti del Mar Morto, rileva la scoperta di alcuni testi biblici a Qumran nei quali si trova l’espressione «voi dèi veneratelo», che la versione dei LXX sostituisce con l’espressione «lo venerino tutti i figli di Dio» (es. da Deuteronomio 32,41-43), espressione che è del tutto assente nel testo del manoscritto base delle traduzioni moderne10. Rileviamo subito che i LXX consideravano equivalenti le espressioni “dèi” e “figli di Dio” (e quindi, probabilmente, anche “dio” e “figlio di Dio”, cioè “messia”; posi-zione a cui ci sentiamo molto vicini). Quanto poi alla scomparsa dell’espressione (sia nella prima che nella seconda forma) dal testo oggi conosciuto e quindi dalle nostre Bibbie, il fatto ci spinge a qualche interrogativo: quante altre espressioni nei quali si trovava il termine “dèi” (voi dèi veneratelo..., voi siete dèi...) sono scomparse dai successivi manoscritti? Probabilmente non lo sapremo mai.
Tra le chiese antitrinitarie di oggi, non c’è molta chiarezza sull’argomento “Trinità”. In particolare, la Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova non ammette la Trinità; ma tuttavia ammette la preesistenza (“in cielo”) del Figlio di Dio prima della sua “incarnazione”. Più precisamente, Cristo prima della sua nascita in Palestina sarebbe stato “preesistente” come Unigenito di Dio (Giovanni 1,18), essere spirituale creato da Dio. Questo Unigenito avrebbe, a sua volta, collaborato con il Padre alla creazione del Mondo. Una creatura creatore?! Gli antitrinitari che ammettono la preesistenza del Figlio, sono sostanzialmente dei trinitari, ma non se ne rendono conto. Di che natura sarebbe questa creatura-creatore? E perché il Padre (il Creatore) avrebbe avuto bisogno della collaborazione del Figlio? …di creare un figlio per avere la sua collaborazione! Dio non è l’Onnipotente? Non era capace di creare il Mondo da solo? Oppure avrebbe chiesto la collaborazione del Figlio così come a volte una mamma chiede al figlioletto di aiutarla nelle faccende domestiche per farlo sentire importante e per dargli modo di imparare? L’Unigenito di Dio che collabora col Padre alla creazione del Mondo non ci convince proprio: ci dà una visione troppo antropomorfica di Dio, ed inoltre non è affatto provata dal riscontro obiettivo dei testi biblici.
7. Non sono Dio, sono il Messia.
Lo storico Ernesto Renan scrive: «Tutta la teologia di Gesù sta nel concetto immediato di Dio come Padre... Gesù non dichiara mai l’idea sacrilega che egli sia Dio. Si crede in rapporto diretto con Dio, si crede figliuolo di Dio... Non esiste alcun indizio che Gesù si sia fatto credere un’incarnazione di Dio medesimo. Era questa un’idea profondamente estranea all’intelligenza giudaica; non se ne ha traccia nei Vangeli... [se non] come una calunnia giudaica»11. Così stanno effettivamente i fatti. Gesù non ha mai detto di essere Dio; né lo hanno affermato gli apostoli o gli autori del Nuovo Testamento. La dichiarazione di Gesù, di cui in Giovanni. 10.34-36, ha il valore di una negazione pressoché esplicita: non sono Dio; sono il Messia. Quei traduttori che intitolano liberamente il brano (vv. 22-42) “Gesù afferma la sua divinità” (come fa purtroppo la Nuova Riveduta, edita dalla S.B.B.& F., Ginevra 1994 - Roma 1995), sono tendenziosi. Inutilmente, in questa traduzione, con una nota (o chiamata) al titolo stesso, i traduttori citano altri testi per tentare di giustificare quel titolo; anzi questo tentativo (non riuscito) mostra ch’essi cercano appoggi che nel brano in questione non trovano. E’ incredibile che la Società biblica, nota per la sua obiettività e per la sua neutralità riguardo alle dottrine delle chiese (perciò le sue edizioni sono senza commento), prenda ora parte per una dottrina che è impossibile sostenere con la Bibbia. Va riconosciuta maggiore obiettività alla traduzione La Nuova Diodati (Edizione La Buona Novella, Brindisi 1991) che intitola il brano “Gesù si proclama il Messia”, come del resto va riconosciuta, e per lo stesso motivo, alle “vecchie” traduzioni Diodati e Luzzi pure della S.B.B.& F. più sopra citata.
Ci sono altri due elementi importanti, nel nostro testo, da evidenziare. Sono, la “santificazione” (o “consacra-zione”) e il “mandato”: «Come mai dite voi a colui che il Padre ha santificato e mandato nel mondo... eccetera». Questi due elementi rafforzano la nostra interpretazione, perché sono appunto caratteristici dei “messia” in generale e tanto più del Messia per eccellenza. Gesù sta dicendo che egli è il Messia; afferma la sua messianicità, non la divinità; è l’Unto: Dio lo ha “santificato” (reso santo, e quindi “consacrato”, “unto”: unto di Spirito, Luca 4,18, Atti 10,38) e lo ha fatto “Apostolo”. In altre parole, Gesù dice: Se Dio (=il Padre, il Creatore) mi ha consacrato Messia (mi ha unto, mi ha scelto, mi ha adottato, e mi ha mandato), talché potrei essere chiamato ‘dio’ come gli antichi giudici, come mai dite che bestemmio se affermo di essere Figlio di Dio? Quando dico di essere Figlio di Dio, dico semplicemente di essere il Messia. Potete non credere che io sia il Messia, ma non potete dire che bestemmio, perché non sto dicendo di essere Dio.
Cristo, a seguito della sua consacrazione avvenuta durante il battesimo impartito da Giovanni Battista, è inviato dal Padre (tramite lo “spirito” che è pienamente in lui: Luca 4,1) ad annunciare la buona novella della salvezza, del perdono di Dio. Come tale – come inviato – la parola di Dio gli fu rivolta in modo particolare, perché la facesse conoscere agli altri. Prima di lui, Dio aveva rivolto la sua parola ai profeti, ora l’ha rivolta al suo profeta per eccellenza, che è immagine di Dio (Ebrei 1,1-2; 2 Corinti 4,4; Colossesi 1,15).
In sostanza, da questo episodio evangelico, chiaro ed esplicito, abbiamo la conferma che Gesù non ha mai detto di essere Dio, come del resto risulta dagli altri tre Vangeli e da tutto il Nuovo Testamento; non ha detto Chiunque crede che sono Dio, io lo risusciterò, bensì chiunque crede in me (Cfr. Giovanni 11,26).
Credere in Cristo (vale a dire nel Messia, in colui che è in perfetta comunione con Dio, che riceve le divine parole dal Padre, da Yahwèh) significa accettare la sua parola, la parola del Messia, il suo insegnamento, e viverlo nel comportamento; significa nascere di nuovo (Giovanni 3,3; Romani 12,2). E a questo proposito Gesù usa una metafora (Giovanni cap. 6): dice che mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue(la carne e il sangue del Mediatore) si possiede lo spirito di Dio e si ha la vita eterna; e subito dopo ne dà il significato che, ovviamente, va oltre il senso letterale, dice: «E’ lo spirito quel che vivifica [che rende vivi]; la carne non giova nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita» (Giovanni 6,63); di esse dovete cibarvi; non dovete mangiare me, dovete “cibarvi” delle mie parole, vale a dire dovete metterle in pratica (le parole non si possono mangiare): non dovete mangiare propriamente la mia carne; io sono il Cristo, e il Cristo è Uomo; non vi sto chiedendo di mangiarmi.
Nulla di straordinario. Ai giudei la metafora del man-giare era nota. E ancor più nota era ai profeti. All’inizio del “libro” del sacerdote Ezechiele si racconta [c. 3] che Dio disse al profeta: «Mangia questo rotolo [questo “libro”] e va e parla alla casa d’Israele. Io – dice il profeta – aprii la bocca, ed egli (Dio) mi fece mangiare quel rotolo. E mi disse: “Figliuol d’uomo, nutriti il ventre e riempiti le viscere di questo rotolo che ti do. E io lo mangiai, e mi fu dolce in bocca, come del miele… Poi mi disse: “Figliuol d’uomo, ricevi nel cuor tuo tutte le parole che io ti dirò, e ascoltale con le tue orecchie…”». Il mangiare il libro è metafora dell’ascolto (e della messa in pratica) delle parole di Dio. Così il mangiare la carne e bere il sangue di Cristo, del Messia (simbolizzati dal pane e dal vino), non ha un senso proprio; è metafora dell’ascolto delle parole del Salvatore (che riferisce le parole di Dio) e della messa in pratica. Il vero valore non sta nel fatto che si mangia il pane propriamente, bensì nel mettere in pratica l’insegnamento di Cristo, ch’egli ha dato anche con il suo esempio, fino al sacrificio di sé. Non è come mangiare la manna nel deserto (Giovanni 6,49). E non è neppure come mangiare il rotolo di Ezechiele; è invece accogliere le sacre parole nel proprio cuore, affinché siano messe in pratica (Ezechiele 3,10). Questo significa “credere in Cristo”! Non significa credere ch’egli è Dio. Certamente Gesù dice (Giovanni 6,55) che la sua carne è vero cibo e il suo sangue vera bevanda, ma siamo ancora nella metafora. Gesù usa questa metafora anche riguardo a se stesso quando dice: «Il mio cibo è di far la volontà di Colui che mi ha mandato, e compiere l’opera sua» (Giovanni 4,34); anche lui (Gesù) mangia di quel “pane”. Qui, implicitamente, distingue se stesso da Dio. Cibarsi, in questo caso, significa accettare e adempiere; non significa cibarsi propriamente come gli israeliti si cibavano della manna nel deserto. Gesù dice: «I vostri padri mangiarono la manna nel deserto; e morirono». Non è il mangiar qualcosa che vi salverà, ma il far tesoro delle mie parole. «Io sono il pane della vita» (Giovanni 6,48-49); dovete cibarvi di me, cioè delle mie parole; dovete metterle in pratica. Esse sono (in senso metaforico) il pane che è disceso veramente dal cielo; non sono la manna (Giovanni 6,32), non sono cibo materiale bensì spirituale.
Se le espressioni “vero cibo” e “vera bevanda” avessero un senso letterale, potrebbe significare che Gesù ha invitato i suoi seguaci a cibarsi di carne umana, visto che Gesù era vero uomo. Ma quando si dovrebbe mangiare la carne e bere il sangue di Cristo? Dopo la sua morte? Gesù è risorto “corpo spirituale”. Si può mangiare lo Spirito!? Non si può ammettere che le parole si possano “mangiare” perché sono “spirito”; ma si possono mangiare in senso metaforico: si può accettare il concetto che esprimono e si possono adempiere. “Corpo”, nel testo greco in questione, è “soma”, e sta per “persona”. La persona non si può mangiare propriamente. Cibarsi della persona di Cristo significa accettare le sue parole e metterle in pratica. Non significa mangiare propria-mente il corpo di Gesù. Il pane e il vino sono il cibo che simboleggia ed esprime la persona di Cristo, cioè le sue parole, il suo insegnamento. Perciò Gesù dice: «La carne non giova nulla. Le parole che vi ho dette sono spirito e vita» (Giovanni 6,63). Riecheggiando le parole che più sopra ho citato dal libro di Ezechiele, Gesù avrebbe potuto dire: “Ricevete nel cuor vostro tutte le parole che io vi dirò, e ascoltatele con le vostre orecchie. E aggiungere: «Come il vivente Padre [Yahwèh] mi ha mandato [mi ha eletto apostolo] e io vivo a cagione [grazie al] Padre, così chi mi mangia [chi si ciba delle mie parole] vivrà anch’egli, a cagion di [grazie a] me [che sono il mediatore]» (Giovanni 6,57).
8. Problematiche trinitarie.
Vediamo ora, in breve, quali sono le contraddizioni più evidenti della dottrina trinitaria dal punto di vista filosofico.
1) Secondo la Bibbia è Dio stesso che, parlando a Mosè, spiega il significato [o uno dei significati?] del suo nome (Jhwh). «Dirai così ai figli d’Israele: ”l’Io Sono mi ha mandato da voi”» (Esodo 3,14). Questo significato non implica in nessun modo il concetto di Trinità. Ma i trinitari non si rassegnano; affermano: alla creazione del mondo, in Genesi 1,26, là dove Dio si accinge a creare il capostipite dell’umanità, è detto: «Dio [‘elóhîm] disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine…». Il plurale espresso nelle parole “facciamo” e “nostra” implica che Dio è trino.
Non è così! Una prima considerazione, spicciola ma significativa, è la seguente: se dal plurale di Genesi 1,26 dovessimo dedurre che Dio è trino, allora dovremmo (come infatti possiamo) dedurre dal singolare di Esodo 3,14 che Dio è Uno, e che se fosse trino dovremmo trovare “Noi Siamo” e non “Io Sono”. Il termine “Dio” è generico, e nel suo significato non si opporrebbe al concetto di Trinità (sarebbe valido anche per esprimere il politeismo); ma JHWH vi si oppone perché significa “Io Sono”, è l’ESSERE, e l’essere divino è semplice, uno solo, e indivisibile. Non è possibile scegliere l’uomo (come invece fanno i trinitari) per l’analogia intesa a spiegare che la dottrina trinitaria non si opporrebbe alla ragione. Se l’uomo è creato a immagine di Dio (come infatti afferma la Bibbia) e fosse vero che Dio è tre persone, allora anche l’uomo dovrebbe essere costituito da tre persone (attenzione: “persone”, non “parti”; l’analogia riguarda la persona nella sua unità indivisibile), ma non è così: l’uomo è una persona, non tre! Francesco è uno perché la persona è una e non è mai in unità sostanziale con altra o altre persone. E questo è assolutamente vero anche riguardo a Dio. Il Creatore è semplice (non composto); l’uomo è una unità tautologicamente composta di parti, ma non di più persone; la persona è una sola perché è l’unità. Dire “persona”, dire “sostanza”, dire “unità”, riguardo all’uomo, significa dire la stessa cosa. Se dunque l’uomo è una sola persona, si potrebbe dedurre che Dio non è trino, dato che l’uomo fu fatto a immagine di Dio.
In realtà l’immagine di Dio è l’uomo nella sua natura perfetta, non è Dio. In generale, l’immagine di una cosa non è la cosa stessa di cui è immagine. Certamente, qui, non si tratta di “immagine” analoga alla natura di Dio. Di sicuro non c’è nessuna propria analogia tra l’uomo e Dio, neppure nella concezione trinitaria; e non c’è nessuna analogia neppure con qualsiasi altra cosa antropomorfica e mondana. L’affermazione della Trinità è certa-mente una forzatura della ragione con la quale si vorrebbe giustificare (prescindendo dalla fede) la credenza nella divinità di Gesù Cristo.
Vi è poi una spiegazione che riguarda l’uso della lingua semitica nell’ambito della concezione politeista, che con il termine ‘elóhîm (divinità, l’insieme di tutto il divino) esprimeva Dio al plurale. Evidentemente, in quel momento storico, il termine non poteva essere che il plurale della lingua semitica, perché esprimeva bene l’idea di divinità nella sua pienezza, perciò fu usato anche per il monoteismo. Per questo le parole plurali “facciamo” e “nostra” era necessario che si accordassero con il ter-mine plurale che indicava la divinità. Il singolare El (dio) indicava uno degli dèi, non esprimeva la pienezza della Divinità; così è per esempio quando il testo biblico si riferisce a Dagon, dio dei filistei (Giudici 16,23); il dio del popolo ebraico non era uno degli dèi ma Il Dio, unico. In sostanza elóhîm è un termine obbligato per necessità linguistica a cui si accorda “facciamo”, e non implica una concezione trinitaria di Dio. Isaac Asimov, uomo di scienza, scrittore e saggista, nella sua opera che ha per argomento il primo libro della Bibbia, cioè Gene-si, intitolata In principio (Oscar Mondadori, Milano 19995) ci ricorda che «gli Israeliti e tutti i popoli circostanti… parlavano di “dèi” anziché di “Dio”: ossia, in ebraico, di Elohim anziché di El. Elohim diventò una espressione tanto familiare da essere inseparabile dalla divinità… Ciò spiegherebbe anche l’uso del “facciamo” e del “nostra”…»12.
2) Si potrebbe argomentare con le stesse parole della Bibbia: il Deuteronomio afferma: «Ascolta, Israele: Il nostro Signore Yahwèh è l’unico Signore» (Deut. 6,4). Esortazione che troviamo ripetuta nel Vangelo di Marco: Uno degli scribi chiese a Gesù: «Qual è il primo coman-damento fra tutti? E Gesù gli rispose: Il primo di tutti i comandamenti è: Ascolta Israele: Il Signore nostro Yahwèh è l’unico Signore» (Marco 12,28-29). In questi testi il termine “unico” potrebbe avere due significati: a) che è senza uguali; b) che è il solo Signore esistente. Nel primo caso potrebbe implicare che ci siano altri dii (o dèi), ma inferiori per natura, e dunque non è questo che il testo ci vuol dire. Rimane il secondo caso (Dio è solo!), dove il termine “unico” ha il suo più preciso e più adatto significato: unico viene dal latino unĭcu(m), che deriva da ūnus «uno solo», e quest’ultimo è l’esatto significato, che implica la natura di Dio; non dunque il numero, né il confronto con altri dèi, ma la sua essenza, che è racchiusa nel suo nome (Yahwèh: «Io sono»); questa essenza è “persona” (ineffabile, Padre), una persona. Ed è, né più e né meno, il significato che aveva (ed ha) nella lingua originale del testo citato. Ad un certo punto del vangelo di Giovanni, Gesù afferma: «Padreio ho fatto conoscere loro [ai discepoli] il tuo nome, e lo farò conoscere [ancora]…» (Giovanni 17,26). Di che nome si tratta? Del nome di Dio che Dio stesso rivelò a Mosè, e che “tradotto” nella rivelazione di Cristo significa “Padre”. Il “Padre” è “Tutto il Dio”, soltanto Lui è Dio (Giovanni 17,3) perché è Yahwèh: è il Creatore; non è una delle tre [?] persone della Trinità: è unico e solo. Tra i significati dell’ambito filosofico troviamo che “unico” indica ciò che non è la specie di un genere; è una determinazione che non può essere partecipata. Dio non appartiene a nessun genere e a nessuna specie, neppure a un genere o ad una specie costituita da un solo individuo. Dio è solo! Ecco cosa dice in proposito Filone d’Alessandria: La Scrittura dice che «è bene che l’esser solo spetti a chi è solo, nulla v’è che sia simile a Lui… Dio è solo ed è uno: la sua natura non è composta, ma semplice, mentre ciascuno di noi uomini, nonché tutte quante le altre creature, siamo di natura molteplice Dio, invece, la cui natura non comporta la composizione di molteplici elementi, non è neppure mescolato ad altroDio, dunque, si determina alla luce dell’Uno e della monade, anzi è la Monade che si determina alla luce del Dio uno. Ogni numero, infatti, come del resto il tempo, viene dopo il mondo e Dio è più vecchio del cosmo e ne è il creatore»13. Dio è solo; “solo” per natura, e in quanto “solo” è anche “uno”; uno vuol dire pure – in questo caso – che per natura non è in compagnia. Il termine uno e il termine solo, vanno a braccetto: Dio non è la “compagnia di tre persone”, sia pur tutte e tre della stessa identica natura; è una persona, ineffabile. L’apostolo Paolo dice sostanzialmente la stessa cosa, ma in maniera più sintetica e in una forma a noi più familiare. Dice: «Per noi [discepoli di Cristo] c’è un Dio solo, il Padre, dal quale sono tutte le cose... e un solo Signore, Gesù Cristo...» (1 Corinti 8,6). Dio è “Dio”; il Signore Gesù è “Gesù”: questa è certamente una tautologia, ed esprime un concetto chiarissimo: Dio e Gesù Cristo sono due persone diverse e separate; Paolo li distingue sostanzialmente ed esplicitamente. Dio non è “unità”, è “uno”. I termini unità e uno non esprimono la stessa cosa. “Unità” indica la natura della cosa, e questa natura non è di Dio; è propria delle cose mondane. Unità è anche l’uomo; unità è anche un albero; unità sono tutte le cose; e Filone dice che nulla v’è che sia simile a Lui (a Dio). Anche “uno” indica la “natura”; ma soltanto la natura14 di Dio: il Semplice fuori di ogni composto; i semplici mondani sono nei composti, nelle sostanze (negli individui, nelle cose), mai in sé; il Semplice (Dio) è fuori del Mondo, trascendente, non è nessuna cosa dell’immanente, neppure per analogia; nulla del Mondo è analogo a Dio. Più precisamente “Uno-Solo” significa che soltanto Dio è Uno. Perciò è detto, appunto, “uno solo”. E in quanto tale (in quanto “solo”) è incomparabile, incomprensibile e senza la rivelazione sarebbe anche inconoscibile. Ovviamente non conosciamo propriamente Dio neppure con la Rivelazione, ma conosciamo «che Egli è» (Galati 4,9; Ebrei 11,6). In quel testo che spesso citiamo, Yahwèh dice: «A chi mi vorreste assomigliare?» (Isaia 40,18,25).
3) Il discorso della filosofia trinitaria inizia considerando due concetti contrapposti come se fossero concordi: afferma che Dio non è “composto” (è semplice) e nel contempo che è “Unità”. A nostro parere, il “composto” è certamente un tutto, ma ovviamente un tutto formato (o composto, appunto) da parti che costituiscono quella sostanza o “composto” (quel tutto). Le “parti” di quel tutto (o “composto”) sono sostanziali ancorché diverse (la forma di una statua non è il bronzo della statua…); le parti sono proprie di quel tutto (non sono “aggiunte”), per questo viene definito Unità: ciascuna delle parti è inseparabile dalle altre e dal tutto. Ma resta il fatto che il Tutto (o “unità”) è composto da “parti” (parti, non sostanze prime; per la dottrina trinitaria l’Unità [Dio] è costituita da persone; ma le persone sono “sostanza” [sostanza prima], in questo caso sarebbero tre sostanze: tre dii). Quando si precisa che Dio è “semplice”, si pretende che questa affermazione non sia in contraddizione con la precedente (che afferma che Dio è Unità). Ammesso che Dio sia Unità, domandiamoci: che cosa sono più precisamente le “parti” (o realtàin Dio) che necessariamente la compongono, dato che una “unità” priva di parti non è niente?! Aristotele insegna: «Parti sono quelle in cui il tutto… si compone»; «Tutto si chiama… ciò che contiene le cose in maniera tale che esse costituiscano una unità… quando vi sia una unità costituita da una molteplicità di parti»15. Non siamo d’accordo con Aristotele quando chiama “unità” indifferentemente quella costituita da una molteplicità di parti e quella che è formata da una sola “parte” o meglio da una sola realtà immateriale (semplice). Tuttavia condividiamo il pensiero di Aristotele quando afferma che l’unità può essere costituita da una molteplicità di parti, anche se, secondo noi, deve essere costituita da una molteplicità di parti, altrimenti piuttosto che una unità sarebbe un semplice.
4) Secondo i trinitari Dio sarebbe sia Unità e sia Semplice, il che è impossibile. Il Catechismo dice: «Il Padre è tutto ciò che è il Figlio, il Figlio tutto ciò che è il Padre, lo Spirito Santo tutto ciò che è il Padre e il Figlio, cioè un unico Dio quanto alla natura»16 [ma in Dio c’è qualcos’altro oltre alla sua propria natura?!]. Questa è un’affermazione doverosa del Catechismo che, giustamente, è stata fatta per evitare che si possa concludere facilmente che ci sono tre dii. Ma facendo questa precisazione i trinitari affermano implicitamente che non c’è distinzione delle tre persone, vale a dire che non è vero che ci siano tre persone perché sarebbero identiche. Perciò si è cercato di correre ai ripari, affermando: «Il Figlio non è il Padre, il Padre non è il Figlio, e lo Spirito Santo non è il Padre o il Figlio»17. Questa affermazione contraddice la precedente. Secondo me, la proposizione «il Padre è…» (oppure: «il Padre non è…») implica l’essere, la sostanza; “essere qualcosa” (o “non essere qualcosa”), riguarda l’essenza, perché l’essenza è la risposta alla domanda «che cosa?»; che cosa è questo? che cosa non è? Se si dice che ognuna delle tre persone è ciò che sono le altre due, e che ciascuna delle tre non è nessuna delle altre due, si esprime una contraddizione in termini che poggia sul presupposto erroneo che in Dio vi possa essere distinzione tra “essenza” e “persona”, talché Dio come essenza sarebbe “così” e come persona (o persone) sarebbe “cosà”, dove “così” e “cosà” esprimerebbero appunto (come infatti esprimono) una contraddizione in termini. Questi concetti sono bene o male mutuati dall’essere umano, definiti per astrazione, e applicati a Dio. Ma l’Eterno per bocca del profeta Isaia dice ancora: «A chi mi vorreste assomigliare?» (40,25). Non è possibile applicare a Dio concetti necessariamente antropomorfici e mondani. La concezione trinitaria da una parte ci dà un’idea di Dio troppo complicata e impossibile, dall’altra paradossalmente l’idea è troppo antropomorfica, eccessivamente semplificata. Allora si è fatta una ulteriore precisazione; dice ancora il Catechismo: «La distinzione reale delle Persone divine tra loro, poiché non divide [?] l’unità divina, risiede esclusivamente nelle relazioni che le mettono in riferimento le une alle altre»18. Osserviamo: a) la preposizione tra non implica almeno due realtà distinte, cioè almeno due sostanze tra le quali “corre” la relazione? Se non ci sono almeno due realtà distinte (realmente distinte!), in questo caso almeno due “dii”, non può esserci distinzione reale e quindi non può esserci relazione alcuna. b) Chi o che cosa sono “le une” e “le altre” (le “persone”) di cui si parla nel Catechismo? Sono qualcosa o sono niente? Se sono qualcosa, sono qualcosa di sostanziale, perciò tre “dii”, dato che se in Dio c’è qualcosa non è nulla di accidentale: tutto ciò che è in Dio è “Dio”. Se invece “le une” e “le altre” sono niente, allora non c’è distinzione e non c’è una pluralità di persone. Insomma se c’è distinzione, questa non può che essere reale, perché in Dio è tutto “reale-sostanziale”. Cartesio diceva che «la “distinzione reale” in ogni caso si riferisce a due o più sostanze»19, e il Catechismo romano parla di «distinzione reale delle Persone» in Dio; dunque, sono tre sostanze uguali [!?]. E poiché è inammissibile considerare l’essenza e la persona come se fossero cose diverse [in definitiva ipostasi e prosopon indicano la stessa cosa]20, dobbiamo concludere che la dottrina trinitaria ci porta ad affermare che ci sono tre dii, visto che le Persone divine (tre persone!) sono realmente distinte, cioè: sostanzialmente distinte, che in Dio è la stessa cosa se si ammette, come ammettono i trinitari, che Dio è Sostanza (sostanza spirituale [!!?], così dicono). Si è cercato di spostare la distinzione reale dalle persone alle relazioni. Ma se la relazione è reale in sé, essendo in Dio, questa realtà coinciderebbe con la sostanza divina e la divi-derebbe (o la replicherebbe), perché se non la divide bisognerebbe ammettere che non c’è “relazione tra” (e se non c’è “relazione tra”, non ci sono persone); se invece c’è “relazione tra”, allora la sostanza divina è divisa (o replicata), ci sarebbero più “sostanze-relazioni” distinte (sostanzialmente distinte!) in Dio che relazionerebbero tra loro... eccetera, eccetera. Si dirà: non è la sostanza a relazionare, ma la persona (non la relazione in sé?!!!). Questo è vero e non è vero perché, a maggior ragione in Dio, la persona non è accidente della sostanza (se si ammette che Dio è Sostanza). Se in Dio c’è qualcosa, deve essere sostanziale. In lui la persona è la sostanza stessa!!! Insomma, ipotizzare delle “relazioni” in Dio allo scopo di spostare il problema dalle supposte persone alle relazioni (salvo poi a ritornare sulla “persona”) non è una soluzione; significa ripetere la stessa problematica; la quale deriva da un fatto semplicissimo dal quale non si esce: che tre non possono essere uno, anche se il termine “uno” non lo consideriamo un numero indicante la quantità o la molteplicità della cosa bensì la “natura” della cosa. Questo è, tuttavia, il problema! Ed è un problema creato dai trinitari e mai risolto. Se una è l’essenza divina, una è la persona divina; perché non c’è distinzione tra essenza divina e persona divina (sono la stessa cosa), anche se i trinitari fanno uso di due termini diversi (ipostasi e prosopon) per indicare di fatto una stessa cosa, dandoci quasi a intendere che sarebbero due cose, due concetti diversi. Dio è soltanto Essenza (una Essenza); ovvero, è soltanto Persona (una Persona). Dire «Dio è soltanto essenza» equivale a dire «Dio è soltanto Persona» e viceversa, perché le due proposizioni esprimono la stessa identica cosa. Non che persona ed essenza, in Dio, sarebbero per così dire le “parti” che formerebbero l’unità divina, talché per questo Dio sarebbe Unità (non ci sono “parti” in Dio), ma perché in Dio i termini (essenza e persona) esprimono l’identico concetto, sono sinonimi perfetti che hanno lo stesso identico significato, prescindendo da interpretazioni capziose. Non c’è Trinità! Se poi si dice che ci sarebbe vera distinzione tra essenza divina e persona divina (incredibile!), avremmo una sola essenza divina e tre persone, ma come si ha per il genere umano: molti individui di essenza umana; così ogni “Persona-Dio” (Padre, Figlio, Spirito) possiederebbe l’essenza divina (divisa o replicata, non importa), e questo significherebbe propriamente politeismo, perché in questo caso le persone sarebbero composte; Dio stesso sarebbe composto e non semplice. Cosicché su questa base (sulla logica trinitaria) il politeismo, se fosse ancora una religione attuale, potrebbe affinare la sua concezione filosofica del divino e affermare che, pur ammettendo l’esistenza degli dèi, si potrebbe qualificare come monoteismo.
Certamente i trinitari nel formulare la loro dottrina intendono affermare il monoteismo; ne prendiamo atto. Ma ci sembra che insistendo sulla divinità di Cristo e sulla fede trinitaria che ne è la diretta conseguenza, rischiano di dimostrare il contrario di ciò che intendono dimostrare. Quando la filosofia greca (e più in generale, pagana) penetrò nel Cristianesimo, ad opera dei filosofi cristiani provenienti dal mondo pagano, sorse il problema di salvaguardare la concezione monoteistica di Dio, perché quei filosofi avevano preso un abbaglio pensando (alla loro maniera) che “Figlio di Dio” volesse dire “Dio”; mentre, come sappiamo dalla cultura ebraica e dal cristianesimo primitivo, significava (e significa) “Messia”. Fu così che “inventarono” la concezione trinitaria di Dio. In realtà la Trinità è impossibile; è contro ragione. E poiché la dottrina trinitaria è assente nella Bibbia (non c’è neppure per implicito: nel Nuovo Testamento Cristo non è Dio, è il Messia), ancora una volta dobbiamo concludere che è destituita di ogni fondamento. Gesù, riferendosi al Padre (al Dio = Yahwèh), in presenza dei discepoli dice: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo» (Giovanni 17,3).
Qui possiamo aggiungere che, per i filosofi cristiani, non è stato troppo difficile il passaggio dal monoteismo puro a quello trinitario. Nel III secolo il platonismo ebbe un rifiorire con la scuola di Plotino, il quale insegnò e scrisse molto intorno all’Uno e alle Ipostasi, il che è come dire intorno alla Trinità politeista21.
9. L’episodio di Paolo a Listra.
La “sostanza”, concetto di aristotelica memoria, (detto in sintesi) è l’essenza determinata. Pertanto l’essenza di una cosa è la cosa stessa. L’essenza (una certa essenza) considerata in sé, che diviene un’altra e diversa essenza, ammesso che fosse possibile, non sarebbe più quell’essenza che era. E′ assurdo pensare che qualcosa o qualcuno possa divenire “qualcos’altro” continuando ad essere anche ciò che era prima: se diviene non è più il precedente; se diviene “altro” e diverso, o se si fa “altro”, non è più la stessa cosa che lo ha preceduto né in tutto né in parte, è un altro essere. Il divenire è proprio delle cose mondane; ma nessuna cosa (nessuna “sostanza”, nessun “individuo”) divenendo continua ad essere ciò che era prima. Aristotele dice che la sostanza è «ciò che l’essere era» (nel greco: τὸ τί ἦν εἶναι) dove l’imperfetto «era» indica la stabilità o continuità dell’essere. Se un albero viene tagliato e del suo legno si crea un tavolo, non significa, ovviamente, che l’idea (o concetto) di albero viene distrutta, significa che quell’albero essendo divenuto tavolo non è più “albero”, è “tavolo”. L’Idea di albero, come ogni Idea, non diviene, non nasce e non muore, ma neppure precede realmente l’albero. E′, per così dire, “astratta” dall’albero reale, perché è nell’albero e dell’albero; è l’albero stesso. Se un albero (essenza albero) diviene tavolo (essenza tavolo) non è più albero, non è più essenza albero.
Dio (il Semplice) non diviene; in lui «non c’è variazione, né ombra di mutamento» (Giacomo 1,17), ma precede tutto, precede il Mondo perché è eterno: non ha avuto inizio e non avrà mai fine. Secondo ragione, Dio non può farsi uomo; il Semplice fuori di ogni cosa (fuori del Mondo, trascendente) non può divenire, e dunque non diviene cosa mondana. Se ammettiamo per assurdo che “diviene”, non è più ciò che era prima (non è più Dio), e perciò è impossibile che divenga; Dio non può cessare di essere Dio; non può annullare la sua natura (cioè se stesso).
L’impossibile “possibilità” di divenire rimanendo ciò che si era (contraddizione in termini) ci ricorda da vicino le religioni pagane, per le quali gli dèi prendevano forma umana, divenivano “uomo-dio” o “dio-uomo”; e ci ricorda anche certe fiabe dove un essere umano diviene rospo rimanendo essere umano. Ma queste sono cose che avvengono soltanto nelle fiabe, dove Aristotele non è presente.
Il grande filosofo afferma: ««Se la sostanza [prima] è una unità [come è effettivamente], non potrà essere costituita da sostanze [prime] presenti in essa», cioè da più essenze22. Vale a dire, in una sostanza (come in ogni sostanza) non possono esserci più “unità” (o meglio ancora: nessuna sostanza può essere più di una unità) perché la sostanza è già unità e in quanto unità non può che essere una, senza l’apporto di altra unità che concorra a formarla. E, poiché la sostanza, essendo ovviamente reale, è “principio” (meglio: principio principiato: tautologicamente principiato), vuol dire anche che nessun “principio” può essere costituito da più “principi” presenti in esso23; o ancora: due o più principi non possono essere “parti” essenziali di un “principio” o sostanza, cioè di un individuo; e nessun individuo può essere costituito da due essenze (o nature) e da una materia; o da due materie (“differenze”) e da una essenza, senza che la logica diventi assurdità; anche perché non ci sono “materie”, c’è la materia; la differenza la determina l’essenza, o secondo un altro punto di vista la materia produce o determina l’essenza: forma e materia costituiscono l’unità individuale, una e indivisibile. Pertanto Gesù Cristo non può essere l’unità di due essenze o nature, quella umana e quella divina.
Si dice, a proposito della “divinità di Cristo”, che in lui l’essenza è una (non due), perché l’essenza umana e l’essenza divina sarebbero in unità (quindi una sola!), unità che sul piano logico precederebbe la persona Gesù; l’unità delle due essenze – a sua volta – in unità con la materia formerebbe il “vero Dio-vero uomo” Gesù. Così il Nazareno sarebbe comunque composto da due unità: la prima sarebbe l’unità delle due essenze in un tutto, la seconda sarebbe composta dall’unità delle due essenze e dalla materia. Ora, l’unità delle due essenze (se fosse possibile!) sarebbe un composto; infatti, per fare un composto ci vogliono almeno due elementi, ma nella realtà almeno uno dei due elementi deve essere “materia”. Mentre il composto di due essenze sarebbe un composto semplice (contraddizione in termini!). Il “composto” per essere tale deve essere tautologicamente composto; composto esclusivamente da una essenza tautologicamente semplice (non da una unità di essenze) e dalla materia. Nella realtà, l’essenza (l’essenza pura) non è nulla se non è in unità con la materia, se non è “essenza necessaria”, cioè “sostanza”. Essa è la determinazione della materia; non ci sono essenze “fuori” della materia, né ci possono essere “unità” di due essenze, si ché potrebbero essere per proprio conto e per di più senza la materia; e anche se l’unità delle due essenze e della materia le consideriamo realmente simultanee nell’unità, cioè a priori (l’essenza considerata in sé è, giustamente, a posteriori), che cosa sarebbe l’individuo che ne risulterebbe? La materia non può essere determinata da due essenze; e l’essenza non può essere l’unità di due essenze. Un individuo che fosse il risultato dell’unità dell’essenza “pesce” e dell’essenza albero”, ovviamente oltre che della materia (se fosse possibile), sarebbe un albero-pesce o un pesce-albero? Ma un albero-pesce non sarebbe un “vero albero e un vero pesce”; sarebbe: “né albero né pesce”, perché il vero albero è soltanto “essenza albero” e il vero pesce è soltanto “essenza pesce”.
Non si possono dare due essenze reali (a priori) in unità; e neppure in astratto (a posteriori). L’essenza è la risposta alla domanda “che cosa? Che cosa è?”. Questa domanda serve a stabilire a che genere (ma anche a che specie) assegnare quel determinato individuo per il quale abbiamo posto la domanda, l’individuo nella sua completezza. Dunque, si parte dalla realtà per giungere all’astrazione. Gesù Cristo è uomo (questo è fuori dubbio); la sua essenza (quella che lo determina, ovviamente) è l’essenza umana, altrimenti non sarebbe uomo, non sarebbe uomo affatto! e non che non sarebbe vero Dio-vero uomo; l’essenza divina rimane fuori da questo discorso; o se vogliamo comunque inserirla in questo discorso, possiamo ammettere soltanto che è questione propria della fede, ma non della ragione. L’essenza umana (quella che costituisce veramente l’uomo) è tautologicamente “umana”; se per assurdo è in unità con l’essenza divina, il soggetto non è vero uomo: il “vero uomo” deve essere “uomo” e basta, soltanto uomo.
In questo paragrafo forse ho sintetizzato troppo l’argomento, che certamente meriterebbe uno spazio più ampio; ma il lettore saprà ugualmente collegare i vari argomenti aristotelici, qui sintetizzati, al tema che stiamo trattando. In ogni caso si può riassumere dicendo che Dio non può divenire uomo; se potesse, il risultato sarebbe: “uomo”, soltanto uomo, perché ciò che diviene non è più ciò che era precedentemente; l’individuo diveniente non ha una realtà in qualche modo connessa all’individuo divenuto. Se il precedente è “persona”, e se nell’assurda ipotesi testé fatta la “persona” è anche ciò che lo segue, quest’ultima è ugualmente “persona”, ma è altra persona. Si dice, giustamente, che Dio non è individuo. Però non entro nel merito (è un discorso che ci porterebbe troppo lontano); se non è individuo, a maggior ragione non può divenire, in unità, “individuo-uomo” senza annullare la sua natura, senza decadere. Dio non può essere in una unità [?] composta, composta dall’individuo-uomo (Gesù) e dal Semplice e Infinito (→se stesso, Dio).
A questo proposito, l’autore degli Atti riporta un episodio emblematico: A Listra, Paolo (assieme a Barnaba) guarisce un paralitico. «Le turbe, avendo veduto ciò che Paolo aveva fatto, alzarono la voce, dicendo in lingua licaonica: Gli dèi hanno preso forma umana, e sono discesi fino a noi. E chiamavano Barnaba, Giove e Paolo, Mercurio, perché era il primo a parlare. E il sacerdote di Giove, il cui tempio era all’entrata della città, menò dinanzi alle porte tori e ghirlande, e voleva sacrificare con le turbe. Ma gli apostoli Barnaba e Paolo, udito ciò, si stracciarono i vestimenti, e saltarono in mezzo alla moltitudine, gridando: Uomini, perché fate queste cose? Anche noi siamo esseri umani come voi [uomini: ἄνθρωποι, quindi della stessa natura]; e vi predichiamo che da queste cose vane [gr. ματαíων: prive di fondamento] vi convertiate all’Iddio vivente...» (Atti 14,8-15). Le parole «gli dèi hanno preso forma umana» nell’originale greco sono Οἱ θεοὶ ὁμοιωθέντεϛ ἀνθρώποιϛ, dove il termine ὁμοιωθέντεϛ significa letteralmente: «di uguale forma, della stessa essenza»; vale a dire che gli abitanti di Listra attribuivano a Paolo e a Barnaba l’essenza divina e umana: uomini in forma di Dio, ovvero: Dio in forma umana.
Perché l’autore degli Atti riferisce questo episodio ponendo l’accento sul fatto che gli abitanti di Listra credevano che la divinità potesse assumere sembianze umane, anzi essenza umana? C’è una sola spiegazione: per mettere in evidenza le false credenze dei pagani; per far capire ai lettori degli Atti che credere alla incarnazione degli dèi (alla incarnazione in quanto tale) significa (secondo ragione) credere all’impossibile, e che questa credenza non è dottrina cristiana. Insomma, il racconto così com’è ha un valore didattico: esprime, implicitamente, la condanna della credenza secondo la quale un dio potrebbe prendere forma umana, o come dicono altri “incarnarsi”. Certamente Dio (il vero Dio) può fare tutto (ma proprio tutto? Anche cose irrazionali?); ma la concezione monoteistica (che è propria delle religioni israelita, cristiana e islamica) per coerenza ci impedisce di credere ad una simile possibilità. Secondo me, l’autore degli Atti intendeva suggerire al lettore questa idea: vale a dire, che non c’è “incarnazione” della divinità; negazione che certamente è secondo ragione. Ciò che è “carne” è creatura. La ragione nega che il Creatore possa essere creatura o anche creatura. L’affermazione secondo la quale Dio può fare tutto, è accettabile. Però Dio fa ciò che è razionale, ciò che è secondo ragione; o meglio, noi giustamente definiamo “razionale”, “secondo ragione”, ciò che Dio fa. La Ragione è divina, è propria di Dio; è la sua natura. Nell’uomo c’è una scintilla della Ragione divina: è ciò che lo fa “simile a Dio” (Genesi 1,27; 2,19-20); ed è ciò che gli permette di distinguere le cose razionali da quelle irrazionali, le cose possibili da quelle impossibili. Altrimenti su quale base, se non quella della Ragione, potremmo distinguere le une dalle altre? La fede non è di Dio. Yahwèh non fa le cose per fede, ma secondo la Ragione, che è Dio stesso (quindi secondo se stesso); la fede è propria dell’uomo, e si unisce alla razionalità senza contraddirla. In ogni caso, la fede nell’incarnazione, propria degli “sviluppi” del Cristianesimo, non è presente nel Nuovo Testamento, dove l’espressione “venuto in carne” o il termine “incarnazione” e i suoi sinonimi usati dai teologi, non avevano il significato che comunemente hanno oggi. Non è ammissibile che Paolo intendesse respingere la possibilità che un Dio si possa incarnare, e ammettere poi [?] che Yahwèh si era incarnato come Seconda Persona della Trinità.
La questione tra Paolo e gli abitanti di Listra era implicitamente, “sulla possibilità dell’incarnazione”. E tra le righe del testo biblico che abbiamo citato possiamo vedere che Paolo, appunto implicitamente, nega questa possibilità; la considera una assurdità (stando almeno al modo in cui l’autore degli Atti riporta l’episodio), gli dèi sono falsi perché, secondo la credenza pagana, pretendono di incarnarsi, di presentarsi in forma umana. Paolo non dice neppure che Dio si è incarnato in Gesù Cristo e soltanto in Gesù Cristo. Fa un discorso diverso: da buon ebreo e da buon cristiano dice che lui e Barnaba “sono uomini”, non dèi; e che tutti gli uomini sono della stessa natura, natura umana; non ci sono uomini-dèi: «Noi siamo uomini, della stessa vostra natura»: un’ovvietà che non era tale per il paganesimo. Paolo, perciò, in sostanza invita gli abitanti di Listra a ricusare la pretesa dell’incarnazione divina; tutti gli uomini sono soltanto “uomini”, nessuno è Dio incarnato. Certamente non lo dice proprio con queste parole, ma il concetto è implicito nel discorso che Paolo «grida» agli abitanti di Listra esortandoli a convertirsi all’Iddio [a Yahwèh] e ad abbandonare le «cose prive di fondamento (ματαíων)». Qual è dunque il vero significato del termine “incarnazione”?
L’Enciclopedia Garzanti di Filosofia dice: «Termine del linguaggio religioso che, in senso generale, indica la discesa, permanente o momentanea, di una potenza divina in un corpo umano o animale. In particolare è ricorrente nell’antichità la convinzione che il re sia la manifestazione, o la filiazione, del dio nazionale supremo []. Nel cristianesimo, l’incarnazione è la credenza centrale e costitutiva, e indica il fatto misterioso che Dio si è reso presente nell’uomo Gesù di Nazareth per offrire all’umanità la salvezza».24 Ciò che segue, nell’enciclopedia citata (o che potrebbe seguire qui, nel mio discorso), riguarda le interpretazioni che i teologi cristiani, a partire dai primi tempi, hanno dato del termine “incarnazione”. I “padri” cristiani (che erano più filosofi che teologi) sono partiti dal significato che ne davano le religioni pagane per cercare di adattarlo al cristianesimo. Una strada sbagliata – a mio parere – che ha portato alle concezioni trinitarie e alle lotte intestine. Mentre bisognava partire almeno dalla constatazione che «è ricorrente nell’antichità la convinzione che il re sia la manifestazione, o la filiazione, del dio nazionale supremo». Quindi controllare quale fosse il particolare significato che aveva nella cultura ebraica, dalla quale proviene il cristianesimo. Lo abbiamo già visto, e qui lo ribadisco, che presso gli israeliti il titolo di “Figlio di Dio” era attribuito al Re, cioè all’Unto, al Messia (=Cristo), all’Eletto, per esempio a Davide; e altresì ai profeti, ai giudici, ai sacerdoti, e al popolo ebraico nel suo insieme. Nessuna di queste persone però era creduta Dio, neppure lontanamente, neppure il Re. Basta considerare che Figlio di Dio era anche il popolo di Israele: un insieme di persone.
Il Messia annunciato da Mosè (uno come me: Deuteronomio 18,15) e dai profeti, è considerato il “Figlio di Dio” per eccellenza: il Re in assoluto, il Perfetto. Gesù infatti è condannato per aver detto di essere il Re. In effetti egli è discendente del re Davide. Ma anche se presso gli Ebrei la monarchia non si basava esclusivamente sul diritto dinastico, ma soprattutto sull’elezione (il re era l’Eletto da Dio e dal popolo), pur tuttavia, come dice il Prof. Giulio Busi, «l’inserimento (nei Vangeli) di Gesù nella linea dei discendenti dei sovrani d’Israele è infatti una esplicita affermazione della legittimità di un suo ruolo regale…»25. Concordo con questa affermazione. Tuttavia, Gesù non ha aspirato al trono di Davide. Anzi ha detto: : Io sono re; [ma] il mio regno non è di questo mondo (Giov. 18,36). Ora, la parola “re” pronunciata da Gesù nel corrispondente aramaico, era molto probabilmente il termine che in italiano diciamo “messia” o “cristo”. Gesù ha detto, più o meno esplicitamente, di essere il Messia (non Dio). E come tale lo riconoscono gli apostoli: «Tu sei il Cristo, il Figlio (il Messia) del Dio vivente» (Matteo 16,16).
Per essere precisi dobbiamo ricordare che nella Bibbia non esiste il termine “incarnazione”. In pochi casi troviamo l’espressione “venuto in carne”, ma è contestabile che il significato possa identificarsi con quello di “incarnazione”. In ogni caso, nessuno degli autori del sacro libro si è espresso esplicitamente in proposito; l’espressione “venuto in carne” non è mai spiegata; è sempre usata come se il significato fosse ovvio per i destinatari dei sacri scritti.
Qual è la differenza tra Gesù e i profeti che lo hanno preceduto? Si riassume nel fatto che in Gesù (cioè tramite Gesù Mediatore) Dio si è manifestato in modo particolare: così come di un essere umano dal bellissimo aspetto si dice che manifesta la bellezza, la bellezza fatta persona, allo stesso modo di Gesù si dice che è la Sapienza di Dio, la Parola di Dio, la Ragione (il Logos di Dio); egli è, appunto, il Messia per eccellenza, il Cristo. Ma non si tratta soltanto di un modo di dire, bensì di una espressione che – soprattutto in Gesù – ha senso proprio e reale, perché con la Ragione o Logos (per suo mezzo) Dio ha creato l’Universo e ora, sempre per mezzo del Logos, salva il Mondo, proprio mediante Gesù. Il Logos opera in modo particolare in e tramite Gesù di Nazareth, l’uomo che Dio si è scelto come Figlio, il suo “unigenito”: c’è un solo Signore, Gesù (Salmo 2,7; Ebrei 5,5 ecc.; 1Corinti 8,6). Anche i credenti sono generati (adottati) come Gesù: «A tutti quelli che l’hanno ricevuto (che hanno accettato Gesù come Logos-Cristo) egli ha dato il diritto di diventare figliuoli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome; i quali non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà d’uomo, ma sono nati da Dio» (Giovanni 1,12-13; cfr. Giacomo 1,18). L’apostolo Paolo dice che Dio ha mandato il suo Messia, che è uguale ai suoi simili, agli altri uomini (suoi fratelli: Romani 8,29; Ebrei 2,11), per insegnare a tutti la via della salvezza, come si può vincere la tentazione a cui sono sottoposti tutti gli esseri umani. Talché ogni credente deve eguagliare il proprio maestro, il Cristo (Luca 6,40). Precisamente Paolo dice: «Quel che era impossibile alla legge, perché la carne [l’indole umana] la rendeva debole, Iddio l’ha fatto; mandando il suo proprio Figliuolo [il suo proprio Messia] in carne simile a carne di peccato e a motivo del peccato; ha condannato il peccato nella carne, affinché il comandamento della legge fosse adempiuto in noi che camminiamo non secondo la carne ma secondo lo spirito» (Romani 8,3-4).
Nel Nuovo Testamento l’incarnazione (o meglio: il venire in carne) ha a che vedere con il fatto che in Gesù Figlio di Dio (cioè nel Re, nel Messia) «nel suo parlare e predicare, nel suo intero comportamento e destino, nella sua intera persona… non ha operato affatto come il “concorrente” di Dio (“secondo Dio”). Egli ha piuttosto annunciato, manifestato, rivelato la parola e la volontà dell’unico Dio»26. Così scrive il teologo Hans Küng. E′ ciò per il quale Paolo può dire di Gesù che è «nato dal seme di Davide secondo la carne [essendone discendente naturale], dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo spirito di santità mediante la sua risurrezione dai morti» (Romani 1,4). Gesù, pertanto, è nato “secondo la carne”; mentre è “dichiarato Figlio di Dio” per la sua santità che lo ha portato alla risurrezione, secondo il volere di Dio.
Queste riflessioni suscitate dalla lettura dell’episodio della predicazione di Paolo a Listra, concorrono fortemente a farci concludere che Gesù non è Dio, bensì «il Santo di Dio» vero uomo (Giovanni 6,69; 1 Timoteo 2,5). L’apostolo certamente e ovviamente non crede all’esistenza di Giove e di Mercurio, ma in questa circostanza non contesta la loro esistenza; contesta l’incarnazione, e non dice che c’è soltanto l’incarnazione di Cristo; dice che questa idea (dell’incarnazione appunto) significa credere a cose vane prive di fondamento (ματαíων).
Insomma, è vero che nel N.T. qualche volta si parla di Gesù “venuto in carne”; ed è vero altresì che Paolo, di conseguenza, parla nelle sue epistole di riscatto (mai di capro espiatorio), ma si tratta di una metafora. E non parla soltanto di riscatto. «Per spiegarci il significato della crocifissione di Gesù – nota lo storico Michael Grant – Paolo si è servito [nelle sue epistole] di tutte queste idee: sacrificio, espiazione, unione, riconciliazione, condivisione, redenzione, riscatto, adozione. Poiché la Crocifissione ci ha dato tutti questi doni di Dio, non fu un’umiliazione e un fallimento. Al contrario: è un grande trionfo, un trionfo per l’umanità nel suo complesso, e per ciascuno di noi come individui. Essa offusca completamente l’attesa della gloria mondana del Messia. E′ la nostra salvezza»27. Dio non si è incarnato per morire crocifisso al posto del peccatore; non si è incarnato affatto. Del resto anche dopo la crocifissione di Gesù e la sua risurrezione i peccatori (cioè tutti gli uomini) continuano a morire, senza eccezioni. La risurrezione promessa da Cristo per il giorno del suo “ritorno” non ha un “nesso obbligato” con la sua morte; se l’avesse, dovremmo pensare che se Cristo non fosse stato crocifisso non ci sarebbe risurrezione e non ci sarebbe salvezza. Dovremmo quindi essere riconoscenti a chi ha voluto la condanna e la morte di Gesù (una vera assurdità!). Non è la morte di Cristo che salva, ma il suo comportamento, la sua parola, il suo esempio di vita coerente. Dio si è scelto il suo Messia in Gesù di Nazareth, affidandogli il compito della riconciliazione dell’umanità con Dio, sicché ciascuno, per questa riconciliazione e adozione, diviene “figlio”: Figlio di Dio, Unto, Cristo; ogni vero cristiano è un “cristo”. Dio ha unto i credenti: 2 Corinti 1,21. «A tutti quelli che l’hanno ricevuto [che hanno accolto il Logos, tramite Gesù] egli ha dato il diritto di diventare Figliuoli di Dio»; e questa è la salvezza! (Giovanni 1,12).
Gesù ha operato senza chiedere nulla in cambio, se non il dovere di vedere negli altri il Cristo; per primi i “prossimi” (o il “prossimo”), quelli che ci sono vicini; anzi, per primi i più vicini, coloro che hanno accettato il Logos divenendo veri cristiani. Poi anche gli altri.
Cristo dice: «Ebbi fame, e mi deste da mangiare; ebbi sete, e mi deste da bere; fui forestiere, e m’accoglieste…» (Matteo 25,35…). «In quanto avete fatto ciò [agli altri], ad uno dei miei minimi fratelli, l’avete fatto a me» (v. 40). Questo significa credere in Cristo!
10. Cristo in forma di Dio?
Nell’epistola ai Corinzi, Paolo distingue sostanzialmente Dio da Signore(8,6). Ora possiamo vedere che, ai Filippesi, precisa (implicitamente) il senso del termine in questione. Al cap. 2 esorta i credenti ad avere «lo stesso sentimento che è stato in Cristo Gesù» (v. 5). Quindi prosegue scrivendo uno dei brani più celebri, definito inno liturgico dagli esegeti; è il brano che, più di ogni altro nel N.T., ha dato filo da torcere ai traduttori, ai biblisti, ai commentatori e ai filologi. Ma è allo stesso tempo quello che più di ogni altro ci fa comprendere il senso e l’importanza del titolo di Signore inteso come proprio ed esclusivo di Gesù Cristo. Dice Paolo:
«Abbiate anche in voi lo stesso sentimento che è stato in Cristo Gesù, il quale, pur essendo in forma di Dio [ἐν μορϕῇ θεοῦ], non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma spogliò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini [ἐν ὁμοιώματι ἀνθρώπων γενόμενος]; trovato esteriormente come un uomo [ὡς ἄνθρωπος], umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato [ὑπερύψωσεν] e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre [θεοῦ πατρόϛ: di Dio, il Padre]» (Filippesi 2,5-11). Traduzione Nuova Riveduta.
Questo testo di Filippesi indica meglio di ogni altro il significato del termine Signore e il motivo per il quale è attribuito a Gesù Cristo; è un testo eccellente perché spiega il concetto in modo chiaro ed esplicito. Allo stesso tempo, per altro verso, è un testo molto problematico, a tal punto che si è avuto il sospetto che, almeno in parte, potrebbe non essere autentico; si è pensato a un’aggiunta apocrifa o a una o più glosse entrate nel testo. Esprime qualcosa di inaspettato, in parte estraneo nei confronti della teologia di Paolo e del Nuovo Testamento; il significato, per certi aspetti, è oscuro (per lo meno nelle traduzioni che si fanno di solito), il sapore è mitologico e tipico del politeismo. Di certo si può almeno rilevare quanto ha scritto Oscar Cullmann, il quale dice che qui Paolo «rompe un po’ il filo dell’epistola e ricorre a un vocabolario diverso»28; e questo ci potrebbe far pensare a una interpolazione. Resta comunque chiara e valida l’idea che attribuisce a Cristo il titolo di Signore, e ad un tempo la motivazione che la giustifica. A parte l’esortazione a seguire l’esempio di Gesù, che ovviamente è presente in tutto il Nuovo Testamento, questa di «Gesù Signore», come la motivazione che l’accompagna (l’umiltà e la fedeltà fino al sacrificio), è in questo testo l’unica affermazione che si accorda perfettamente con la teologia neotestamentaria, perché è corroborata da altri testi che direttamente o indirettamente confermano il significato di Signore nella stessa accezione cristologica propria di Filippesi 2.5-11.
Per comprendere questo testo, nel suo insieme, è necessario soffermarsi prima di tutto sul termine morphȇ (forma), là dove dice «pur essendo in forma di Dio…». Il significato del termine, nel comune linguaggio sia delle lingue antiche e sia specialmente di quelle moderne è ovvio, ed è a tutti noto. È l’aspetto esteriore di qualcosa o di qualcuno; ma anche il modo di essere, di apparire La filosofia ha precisato ulteriormente questo termine sin dall’antichità nelle sue varie sfaccettature, via via fino all’epoca moderna. Platone e Aristotele ne hanno fatto grande uso nei loro scritti, facendone un termine tecnico assieme al pressoché gemello εἶδος (eídos, forma). Con quest’ultimo termine Platone intendeva le essenze delle cose come realtà trascendenti, cioè l’universale (l’Idea); Aristotele intendeva l’essenza reale e immanente delle cose, di ciascuna cosa, cioè le cose stesse (la “forma” come sostanza necessaria). Sintetizzando, la forma per la filosofia greca era l’essenza (trascendente o immanente: o le Idee, o le cose reali immanenti). Questo fatto ha influenzato l’interpretazione del testo che stiamo esaminando. Si è detto: Cristo era (ed è) di “natura” divina: Dio fatto uomo; perché è detto che era «in forma di Dio», di essenza divina. Intanto la prima obiezione che si può fare è che sia Platone che Aristotele, quando parlano dell’essenza reale (trascendente o immanente, non importa) usano più propriamente eídos e non morphē; quest’ultimo riguarda piuttosto la forma intesa come aspetto esteriore fatto di linee di contorno e disposizione degli elementi costituenti. Nel testo di Filippesi troviamo appunto morphē, per cui l’implicazione della filosofia greca è per lo meno incerta. Sembra quasi che in questo brano vi abbia messo mano qualcuno che aveva una certa infarinatura della filosofia greca, senza esserne esperto. Che cosa vuol dire che Cristo è in forma (morphē) di Dio? Che forma ha Dio? Inoltre, non è alla filosofia greca che dobbiamo guardare quando si vuol comprendere il Nuovo Testamento. Profondi studiosi della Bibbia, già nel passato più o meno lontano, come Flacius, Lutero, Erasmo, Spinoza e Locke per citarne solo alcuni, ci hanno insegnato che dobbiamo comprendere il Nuovo Testamento con il Nuovo Testamento; metodo sostenuto dal protestantesimo, secondo il quale la Bibbia deve spiegare la Bibbia.
Vediamo allora quali testi biblici possono aiutarci in questo compito. Osserviamo subito che il termine morphē, in tutto il Nuovo Testamento, applicato alla persona Gesù di Nazareth, lo troviamo una sola volta, appunto nel testo di Filippesi 2,6 che stiamo trattando e dove, secondo noi, almeno questo termine (μορϕῇ) deve considerarsi dubbio. E′ questo uno dei motivi (forse l’unico vero motivo) per il quale Cullmann ha scritto che l’autore dell’epistola ricorre improvvisamente a un vocabolario diverso [è una glossa?]: Paolo ha sempre usato il termine “immagine”, e non “forma”. Nel N.T. troviamo abbastanza spesso il termine εἰκών (immagine). Paolo stesso, in 2 Corinti 4,4 (u.p.), parla di Cristo «che è l’immagine [εἰκών] di Dio». Questa è la definizione precisa ed esplicita (in questo senso anche l’unica!) della “natura” di Cristo; e questa è la natura umana nella sua perfezione divina, vale a dire la natura di Adamo prima che peccasse, secondo la metafora della Genesi: «Dio creò l’uomo [Adamo] a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina» (1,27). Perciò Cristo nel N.T. è definito il Secondo Adamo, ovvero l’Ultimo (1 Cor. cap. 15; Rom. 5,14). Egli è l’Uomo Nuovo, creato a immagine di Dio (Efesini 4,24; Rom. 13,14), là dove invece l’Adamo caduto in peccato è l’uomo vecchio, di cui il cristiano è invitato a spogliarsi: Col. 3,9-10. L’uomo vecchio è la condizione naturale di tutti gli uomini, è l’umanità che deve marciare verso la perfezione, verso l’Eden, che è la meta di cui il racconto della Genesi è metafora pressoché esplicita.
Nella Bibbia non è detto mai – in alcun modo – che il Figlio (il Messia per eccellenza) è di essenza divina, con il significato che molti danno a questa espressione, se non nella misura e nella maniera implicitamente contenuta nell’affermazione che l’Uomo (l’uomo perfetto) è appunto “immagine di Dio”. Ma l’immagine di Dio è l’essenza “uomo”, non è Dio. Gesù è, in modo perfetto, l’immagine di Dio, cioè l’Uomo. L’espressione indica la sua umanità, non indica la divinità. Lo ribadisco ancora: Gesù di Nazareth è il Messia per eccellenza, ed è altresì l’Uomo perfetto. Questo è il fondamento, il vero fondamento, della teologia biblica. Se Cristo non fosse uomo (semplicemente uomo, soltanto uomo, “uomo” e basta) crollerebbe la teologia dell’apostolo Paolo, il quale dice: «Se per il fallo di quell’uno [di Adamo = uomo] i molti [tutti] sono morti, molto più la grazia di Dio e il dono fattoci dalla grazia dell’unico uomo Gesù Cristo hanno abbondato verso i molti [verso tutti]» (Romani 5,15). «Poiché v’è un solo Dio ed anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo» (1 Timoteo 2,5). «Per mezzo di un uomo [Adamo] è venuta la morte, così anche per mezzo d’un uomo [Cristo] è venuta la risurrezione dei morti» (1 Cor. 15,21).
Immaginiamo per un attimo che Cristo sia Dio; “Dio”, non “Dio fatto uomo”; non dovremmo neppure prendere in considerazione quest’ultima affermazione del Dio fatto uomo perché abbiamo già visto che è contro ragione, è impossibile! E perché è concezione politeista per eccellenza, secondo la quale gli dèi si facevano uomini; e non perché vogliamo mettere dei limiti a Dio, bensì perché è, appunto, contro la Ragione [contro il logos] che è di Dio stesso. Tuttavia il discorso che stiamo per fare sarebbe ugualmente valido anche se Cristo fosse, per ipotesi, Dio e uomo ad un tempo.
Questo Dio (in base a questa ipotesi) che predica per le contrade della Palestina aveva certamente coscienza di sé e del suo essere divino. E questo significa che, per la sua onniscienza e preveggenza (proprie di Dio), era sicurissimo di assolvere il suo compito fino in fondo, da vittorioso, e che avrebbe continuato eternamente la sua vita divina: aveva la vita eterna assicurata dalla sua propria natura; Dio è immortale (la sua natura comprende innanzitutto l’immortalità); e lo è in assoluto, al punto che si potrebbe affermare che se, per assurdo, Dio volesse morire, non potrebbe: rimarrebbe comunque vivo; Yahwèh è il «Dio vivente» eterno (1 Timoteo 1,17; Geremia 10,10). Qui si prescinde da “Padre”, “Figlio”, “Spirito” perché, secondo la dottrina trinitaria, sarebbero tutti e tre la stessa natura: cioè Dio (non della stessa natura, bensì la stessa natura). Gesù, perciò, in questa ipotesi, era grandemente fortificato e sostenuto da questa autocoscienza, tale da sopportare qualsiasi difficoltà e la sofferenza più terribile, anche il martirio, sapendo che avrebbe comunque vinto (Dio è infallibile, oltre che eterno) e che sarebbe “ritornato in cielo”. Pertanto, tenendo conto di ciò, ci domandiamo: che cosa avrebbe fatto “Gesù-Dio” più di quanto hanno fatto tanti martiri semplicemente umani consapevoli che la morte (e non la vita divina) li attendeva alla fine della loro sofferenza? Per questo, Paolo (in accordo con tutto il N.T.), insiste nell’affermare che Cristo è uomo; non è dunque un dio travestito da uomo. Certamente Gesù ovviamente credeva alla vita eterna che Dio può largire e largisce ai suoi figli fedeli (era l’argomento principale della sua predicazione), ma da uomo [perciò è detto ch’egli è esempio di fede: Ebrei 12,2]; se fosse stato Dio non avrebbe avuto bisogno di credere perché lo avrebbe saputo, essendo in questo caso egli stesso autore della vita (autore, non soltanto dispensatore).
Anche sulla base di queste considerazioni i trinitari ammettono che Gesù era vero uomo, ma poi contraddicono se stessi quando aggiungono “vero Dio”. Anche in quest’ultima accezione il nostro discorso sarebbe valido, potremmo fare le stesse considerazioni perché anche così Gesù sarebbe Dio comunque. Noi invece affermiamo, sulla documentazione neotestamentaria, che Gesù Cristo (uomo senza peccato, innocente in assoluto) era soltanto uomo, e che in quanto tale affrontava la possibilità di essere sconfitto nel suo compito assegnatogli da Dio, e di perire come perì il primo Adamo della metafora nel Genesi, perché era, come tutti gli uomini, «carne simile a carne di peccato» (Romani 8,3), cioè mortale. I vangeli presentano Gesù come Vincitore; Cristo ha vinto là dove Adamo ha fallito; vinse come Uomo, come Secondo Adamo, non come Dio (se fosse stato Dio, per lui sarebbe stato relativamente facile (anzi sicuramente facile) sopportare il martirio e vincere; ma Dio non compete, non gareggia, con niente e con nessuno: è al di sopra di tutto e di tutti), vinse grazie al fatto che per la potenza della fede era in comunione con il Padre, con Dio, perciò “ripieno di spirito”; così come tutti possono divenire, mutare, secondo l’esortazione di Gesù Cristo stesso e dell’apostolo Paolo (Giovanni 3,3; Romani 12,2). Questa verità della fede e della vittoria di Gesù sul male è presentata dai Vangeli, sinteticamente, sotto la metafora della triplice tentazione di Cristo (del Messia) che corrisponde alla triplice tentazione della metafora di Adamo (e di Eva) nel giardino dell’Eden29.
L’apostolo Pietro scrive: «A questo siete stati chiamati: poiché anche Cristo ha patito per voi, lasciandovi un esempio, onde seguiate le sue orme» (1 Pietro 2,21). Dovremmo seguire l’esempio di un Dio? E` impossibile seguire, con fedeltà, l’esempio di un Dio. L’uomo non può aspirare ad un comportamento pari a quello di Dio; non può eguagliare Dio neppure in questo, se non dopo e nel modo della risurrezione, solo quando riceverà da Dio stesso l’essere umano perfetto, spirituale, cioè quello di Cristo risorto, della stessa natura (1 Cor. 15,47-49,53; 1 Giovanni 3,2); ma può seguire l’esempio dell’Uomo per eccellenza che è Gesù di Nazareth, in quanto uomo come tutti. Allora i trinitari ribadiscono che Cristo è anche uomo (Dio e uomo in unità). Ammesso che ciò fosse possibile, resterebbe comunque il fatto che era anche Dio, e ciò lo poneva ugualmente nella condizione di vantaggio che abbiamo descritto qui sopra. Invece Paolo dice: «come per un uomo…[come per Adamo, che non era Dio] così per un uomo… [così per Cristo, che non era Dio…»; se fosse stato e fosse Dio, il paragone posto da Paolo non avrebbe senso. Perciò l’autore dell’epistola agli Ebrei scrive: «Non abbiamo un Sommo Sacerdote che non possa simpatizzare con noi nelle nostre infermità; ma ne abbiamo uno che in ogni cosa è stato tentato come noi, però senza peccare» (Ebrei 4,15).
Ma torniamo all’essenza, anzi all’immagine di Dio. Ecco altri testi che confermano quanto stiamo dicendo:
Colossesi 1,13-15: «Egli (Dio) ci ha riscossi dalla potestà delle tenebre e ci ha trasportati nel regno del suo amato Figliuolo [il Cristo], nel quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati; il quale è l’immagine (εἰκὼν) dell’invisibile Iddio [Yahwèh], il primogenito d’ogni creatura…».
Romani 8,29: Dio ha predestinato i salvati «ad essere conformi all’immagine (εἰκόνος) del suo Figliuolo [il Cristo], ond’egli sia il primogenito fra molti fratelli…». Come Cristo è l’immagine di Dio in quanto uomo perfetto, così i salvati saranno l’immagine di Cristo essendo divenuti, alla risurrezione, immagine di Dio, cioè uomini perfetti (fratelli di Cristo).
1 Corinti 15,49: «Come abbiamo portato l’immagine (εἰκόνα) del terreno [di Adamo peccatore], così porteremo anche l’immagine (εἰκόνα) del Celeste [del se-condo Adamo (v.47) santo e perfetto, Gesù Cristo, che è l’immagine di Dio]».
Colossesi 3,10: «Avete svestito l’uomo vecchio coi suoi atti e rivestito il nuovo, che si va rinnovando in conoscenza ad immagine (εἰκόνα) di Colui che l’ha crea-to». Il cristiano deve progredire verso il raggiungimento della “statura” di Cristo (Efesini 4,13) che è immagine di Dio (2 Corinti 4,4).
Questi testi, come altri che potremmo citare, mostrano in modo evidente tre concetti fondamentali: a) Cristo è perfettamente l’immagine di Dio (Cfr. Genesi 1,27), perché è Uomo per eccellenza; b) I credenti diventeranno uomini a immagine di Dio (cioè veri uomini), perché alla risurrezione saranno conformi all’immagine di Cristo, ma non saranno Dio perché Cristo non è Dio; c) Cristo è il primo dei “fratelli” (il Primogenito) perché è, appunto, il primo uomo perfettamente a immagine di Dio (essendo decaduto Adamo) ed è il primo a risorgere dai morti come corpo (soma, persona) spirituale. In Giovanni cap. 1 è detto che i credenti sono generati da Dio. Cristo è il primo ad essere generato da Dio: il Primogenito. Ed è anche il primo dei Risorti.
Il comportamento di Gesù, che è quello di lasciarsi guidare dallo Spirito, si evidenzia nel testo di Filippesi nell’accezione di umiltà; è il centro del discorso dell’apostolo Paolo, la motivazione per la quale Cristo è sovranamente innalzato al rango di Signore.
Gesù di Nazareth è il Messia (il Re) atteso, quello annunciato da Mosè e dai profeti; è l’Eletto da Dio, l’Unto, appunto il Re. Come nella metafora di Adamo nel giardino dell’Eden, Cristo è a immagine di Dio: signore della creazione, il Re. Ma a differenza del primo Uomo non è vinto [Genesi 3,5] dal desiderio di diventare come Dio. Anzi, annulla se stesso, rinuncia alla dignità regale che gli spetta (in quanto Messia, Re) e sceglie di vivere come un uomo qualsiasi, come un servo («il mio regno non è di questo mondo»: Giovanni 18,36). Tale fu trovato nell’aspetto dai suoi contemporanei: uomo comune tra gli uomini, ma ubbidiente a Dio fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo motivo, per questo grande sentimento di umiltà e delle opere che ne conseguono (grazie alle quali realizza la sua missione), Gesù è premiato: «Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al disopra di ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio [ovunque], e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio, il Padre».
Questo è il senso del testo di Filippesi, purgato dagli elementi estranei e mitologici; e qui non c’è nulla che ci induca a pensare che, pressappoco, Gesù era Dio in cielo, che poi si è fatto uomo… ecc. Nulla di tutto questo! Anzi, è il Risorto (il figlio di Maria) che, per l’umiltà che lo ha portato a rinunciare alla gloria propria del Messia terreno atteso, viene innalzato. Ad innalzarlo al rango di Signore è Dio! Ci domandiamo: è Dio che innalza se stesso? D’altra parte, un Dio non può essere innalzato al di sopra di se stesso (al di sopra di Dio!), almeno che non si voglia ammettere che prima era un dio minore, ma in tal caso saremmo in pieno politeismo. E, se è veramente Dio, non può farsene e disfarsene (vestirsi e spogliarsi) dell’umanità e della “divinità”, come se si trattasse realmente di un vestito.
Per le altre cose che si potrebbero dire su questo brano di Filippesi (le assurdità letterali che contiene, ecc.) rimando il lettore alla nota 30, presa da un’altra mia pubblicazione.
E′ chiaro che qui, in questo brano di Filippesi, ma anche in tutto il Nuovo Testamento, non c’è nulla che si potrebbe definire come una “dottrina dell’incarnazione” in senso tradizionale o come una “dottrina della trinità”.
11. Le “ragioni” della controversia.
Se la dottrina trinitaria è il frutto di un abbaglio, quali potrebbero essere i motivi per i quali non si è fatto quel passo indietro che ogni cristiano si sarebbe aspettato? Perché la credenza nella Trinità si rafforzò e ancora oggi è accettata e sostenuta con forza nonostante i tentativi, sia pur sporadici, di ieri e di oggi, di riportare il Cristianesimo alle origini? Nessuno può dirlo con certezza. Si possono fare quattro ipotesi:
1) Motivi di opportunità: non si voleva dare l’impressione che la Chiesa, soprattutto nella sua espressione più “rappresentativa”, si fosse sbagliata su un punto di fondamentale importanza, quale è la concezione di Dio, sia pur del Dio biblico. Questo motivo vale anche e soprattutto per il Cristianesimo di oggi.
Accadde che chiunque avesse osato mettere in dubbio la dottrina trinitaria, doveva essere combattuto in tutti i modi (leciti o illeciti, anche con l’aiuto del “braccio secolare”) come un nemico del Cristianesimo. Così avvenne.
2) I fondatori della dottrina trinitaria, di cultura greca, provenivano dalla filosofia politeista, e per di più non avevano una chiara idea dell’uso ebraico dell’espressione “Figlio di Dio”. Perciò si preoccupavano di conciliare l’idea di un “Unico e Solo Dio” con l’idea del “Figlio di Dio” inteso come “Dio”. E non è da escludere che in ciò ci fosse un pizzico di atteggiamento antigiudaico per l’affermazione di una dottrina che è in stridente contrasto con il monoteismo della tradizione ebraica. Un modo del Cristianesimo storico di prendere le distanze dal Giudaismo, di distinguersi.
3) I vari avversari della dottrina trinitaria fecero l’errore di non negare la “preesistenza” di Gesù Cristo (del “Figlio di Dio”); l’ammisero come un fatto proprio e personale riguardante Gesù Salvatore. Perciò la loro dottrina, pur essendo fortemente antitrinitaria, si imbatteva in una contraddizione logica simile a quella trinitaria; anche per questo non furono in grado di attuare un ritorno al cristianesimo primitivo, non riuscirono a sostituire alla “nuova dottrina” (trinitaria) la “vecchia dottrina” (biblica), perché in effetti ciò che proponevano non era né “nuovo” né “vecchio”: non era convincente. Anch’essi non avevano una chiara idea della concezione propriamente ebraica di Dio.
Non bisogna dimenticare che il Cristianesimo proviene direttamente dall’ebraismo.
4) La dottrina trinitaria fu imposta con la forza, con l’aiuto militare e legislativo dell’imperatore Costantino (più pagano che cristiano): il Concilio di Nicea (325) si svolse sotto la sua ipoteca. Ormai la strada era aperta alla identica affermazione teologica dei concili successivi: di Costantinopoli (381), di Efeso (431), di Calcedonia (451) e altri.
Ma queste quattro ipotesi possono interessare soprattutto gli storici del Cristianesimo.
Torniamo perciò alle dottrine bibliche. Ecco il motivo teologico più importate per il quale i trinitari rifiutano le tesi antitrinitarie. Affermano che l’opera di Gesù Cristo non potrebbe avere alcun valore per la salvezza dell’uomo se il Salvatore non fosse stato e non fosse Dio, o anche Dio oltre che uomo. Perché?
Per comprendere questo passaggio bisogna partire da lontano, dal concetto di “sacrificio” che troviamo negli antichi popoli, l’ebraico compreso. Concetto che era strettamente legato alla concezione di Dio, talché è difficile stabilire se fu la concezione di “Dio” a determinare quella di “sacrificio” o non piuttosto quest’ultima a determinare, implicitamente, quella di “Dio”. Comunque sia rimane il fatto che la Divinità era concepita, soprattutto tra i politeisti, come un essere onnipotente e onnisciente che – detto in maniera cruda – era lì, con un bastone in mano, sempre pronto a inquisire il comportamento degli esseri umani, per punirli senza misericordia se il loro agire non risultava conforme al suo volere; una specie di “re celeste” a immagine di quelli terreni, invincibile, potente, spietato e facile all’ira: un tiranno. Perciò bisognava calmare l’ira di Dio, ingraziarselo, con il dono di un sacrificio. Se ne ha un’eco, attenuata, nel primo “libro” della Bibbia, il Genesi: «Caino fece un’offerta di frutti della terra al Signore [a Dio], e Abele offrì dei primogeniti del suo gregge» (4,3-4).
I popoli pagani praticavano anche sacrifici umani; esplicitamente condannati dall’ebraismo, come appare da precise motivazioni della Bibbia, e come si può chiaramente dedurre dal racconto del cosiddetto “sacrificio di Isacco” (Gen. cap. 22) che, probabilmente, è messo lì per il suo valore fortemente didattico: Dio non vuole sacrifici umani.
Nella Bibbia si nota un costante progresso nella pratica dei sacrifici del bestiame domestico, una sorta di spostamento verso una migliore concezione, relativa-mente simbolica; ed anche una condanna dei sacrifici umani che erano nell’usanza dei popoli che abitavano nei territori vicini al popolo ebraico. Ma la pratica del sacrificio dell’agnello, dal significato simbolico o no, rimase in vigore almeno fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme. Già i profeti avevano posto l’accento sul fatto che il “sacrificio” non era necessariamente gradito a Dio: il Signore gradisce sacrifici di giustizia (cioè un comportamento giusto), non un vero e proprio sacrificio dell’agnello o d’altro genere (Salmo 4,5; 51,19). «Io amo la pietà e non i sacrifici» (Osea 6,6). «I vostri sacrifici non mi piacciono» (Geremia 6,20). E′ il comportamento che ha valore (1 Samuele 15,22); perciò Gesù afferma: «Imparate che cosa significhi: “voglio misericordia e non sacrificio”; poiché io non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori. [Si può fare del bene (=misericordia) in ogni caso; anche di sabato]» (Matteo 9.13; 12,7; Marco 12,33).
Se il sacrificio dell’agnello, per i vari motivi di ordine storico e di ordine dottrinale, non si pratica più nel tempio ebraico, si pratica però sotto altra forma nel Cristianesimo antico (ma non in quello primitivo) e fino ad oggi, soprattutto nella Chiesa cattolica romana, tramite il rito della Santa Messa dove (sempre secondo la teologia romana) Cristo è “sacrificato” realmente (con distinzioni più o meno aristoteliche) nel momento della benedizione del pane (dell’ostia) e del vino che il sacerdote fa sull’altare. Perché questo sacrificio? Eccoci al punto cruciale del discorso, ma non tanto riguardo alla Messa ma piuttosto e comunque riguardo al “sacrificio”.
LA MORTE ESPIATORIA. In Genesi, nei cap. 2 e 3, troviamo la metafora di Adamo ed Eva, i quali, avendo disubbidito all’ordine di Dio, persero l’originaria natura divina che li faceva simili al Creatore e divennero esseri umani “decaduti” non più candidati all’immortalità. Su questo concetto, che ho qui riassunto in breve, i teologi, a partire dai padri della chiesa, hanno costruito una teoria della “perdizione” e della “salvezza” e dedotta la necessità che qualcuno (un capro espiatorio) “pagasse” il prezzo per ottenere quest’ultima per tutti. Secondo questa teoria, infatti, appoggiata da interpretazioni sui generis di alcuni testi biblici dell’Antico Testamento e soprattutto del Nuovo, qualcuno doveva pagare quel prezzo; qualcuno che fosse innocente (senza peccato), come simbolicamente innocente (senza macchia) era l’agnello del rito ebraico, nel “sacrificio” che si attuava nel tempio israelita. Ora – sempre secondo questa dottrina – poiché tutti gli uomini, nessuno escluso, sono discendenti dei peccatori Adamo ed Eva, sono tutti colpevoli per nascita: ereditano il peccato di Adamo; il quale peccato è perciò detto “originale”. Pertanto nessuno può pagare quel prezzo, perché tutti gli uomini sono peccatori ereditieri. In sostanza, la salvezza sarebbe impossibile: tutti sono condannati a pagare il “salario del peccato” che è la morte (Romani 6,23). «Nel giorno che tu ne mangerai [del frutto proibito] certa-mente morrai» (Genesi 2,17). Cristo Gesù (il Messia Gesù), essendo senza peccato, diviene – sempre secondo questa teologia – quel capro espiatorio atto a salvare l’umanità dalla morte. Perché è adatto a questo scopo? Perché è innocente (senza peccato). E perché è senza peccato? Perché è Dio. Ma è anche uomo. Sicché in quanto uomo può soffrire, vale a dire “espiare”, a vantaggio dell’umanità; in quanto Dio, è senza peccato, vale a dire innocente in assoluto, e perciò può morire al posto del peccatore.
Questa dottrina è inspiegabile, e non trova riscontro esplicito nel N.T. Là dove è in qualche modo accennata, si tratta di una metafora che deve essere interpretata. Perché si dovrebbe “riparare” una colpa (la trasgressione della Legge) con un’altra trasgressione (della Legge)? Per di più, con la morte di un innocente?! L’ingiustizia può “creare” la giustizia? A mio parere, la condanna a morte di Cristo è stata una enorme ingiustizia non voluta da Dio; il prodotto della gigantesca ingiustizia umana, contro la quale Cristo ha predicato e operato fino al sacrificio di sé. In questo senso egli ha dato la vita per offrire all’umanità un esempio di comportamento conforme al Bene, di enorme valore; esempio eccellente che non è soltanto il modo con il quale ha affrontato l’ingiusta morte, ma anche il modo come ha vissuto la sua intera vita. Non c’è “morte vicaria”. Si può concludere che ci sia stata morte al posto di…” se si ammette che debba esistere una pena di morte per i malfattori per la quale avrebbero dovuto morire, appunto, coloro che hanno condannato Cristo alla morte di croce da innocente: Gesù è morto al loro posto. Solo in questo senso si può parlare di morte vicaria. Al loro posto, dunque, ma non a loro beneficio, bensì a loro condanna; i responsabili della crocifissione di Cristo si sono condannati da se stessi emanando l’ingiusta sentenza.
Secondo questa dottrina della morte espiatoria, che è propria del Cristianesimo storico (non primitivo), la giustizia divina è soddisfatta, un innocente (uomo e Dio in unità) ha pagato per tutti, e l’umanità (ogni uomo) riacquista (o può riacquistare) la vita eterna persa da Adamo nell’Eden. Questa, perciò, considerate le premesse, è una dottrina valida soltanto se Gesù Cristo è Dio (e per questo sicuramente senza peccato). Ecco la dottrina trinitaria che afferma la divinità di Gesù Cristo come essenziale per la salvezza, mentre porta a implicazioni e conseguenze assurde e ingiuste. Vi ha una parte importante la credenza del peccato originale ereditario. Che cos’è il peccato originale?
■ IL PECCATO ORIGINALE. Il peccato originale, inteso secondo la teologia cattolica romana, non esiste. La metafora del Genesi ci parla del primo peccato (quello delle origini, appunto); il quale non è un “oggetto” o una “malattia infettiva” ereditaria; è la trasgressione della legge divina compiuta da Adamo ed Eva, che non si trasmette. Una trasgressione, specialmente nella metafora di cui stiamo parlando, implica un’azione personale che coinvolge la responsabilità individuale; perciò il profeta scrive : «L’anima [l’individuo] che pecca è quella che morrà, il figliuolo non porterà l’iniquità del padre» (Ezechiele 18,20).
Il battesimo non toglie nessun peccato, tanto meno quello cosiddetto “originale” che fu (e rimane) dei progenitori dell’umanità, che non si eredita. Secondo la Bibbia, il peccato (o meglio le conseguenze morali, soprattutto, del peccato) è tolto (cancellato) grazie alla conversione, è eliminato per la grazia di Dio, per la fede in Cristo che porta alla metanoia, al cambiamento della mente, del modo di pensare (Romani 12,2). Così ne deriva il fatto che battezzare i bambini31 non ha significato. I testi biblici che sfiorano l’argomento peccato originale (espressione che non esiste nella Bibbia) sono spesso interpretati in maniera capziosa da coloro che lo considerano come ereditabile ed ereditato. Ma c’è un versetto che è chiarissimo (Romani 5,14): registra, praticamente, che tutti gli uomini sono peccatori, anche se non hanno trasgredito la legge esterna di Dio consapevolmente, i quali sono ugualmente peccatori per la trasgressione di quella legge che è scritta nel cuore: la legge dell’Umanità. Ma tutti sono peccatori non in modo ineluttabile (o per ereditarietà), bensì per un dato di fatto: tutti gli uomini trasgrediscono in maniera simile a quella di Adamo, vale a dire in maniera personale, consapevole e individuale. Nessuno nasce peccatore (o col peccato incorporato) perché il peccato non è una cosa); ma tutti lo diventano: ogni uomo commette il peccato delle origini, lo stesso peccato di Adamo (cioè la trasgressione della Legge), che non si eredita. Perciò «la Scrittura ha racchiuso ogni cosa sotto peccato» (Galati 3,22). Quando il testo di Romani 5,14 afferma che tutti peccano in modo simile al peccare di Adamo, esclude che gli uomini ereditino il peccato (il peccato!) del primo uomo: è evidente che l’aggettivo simile si riferisce ad una azione personale e individuale consapevole, perché tale fu quella di Adamo, che perciò non è “ereditata”; Adamo, infatti, non ereditò il peccato, bensì lo commise; similmente (consapeolmente e individualmente) lo commettono tutti gli uomini; non lo ereditano.
Ma Cristo non è diventato un peccatore (come sono diventati, e come diventano, tutti gli altri uomini), anzi è stato fedele e vittorioso anche di fronte alla peggiore provocazione, fino al martirio di sé (1 Pietro 2,21-23), divenendo Colui che può condurre e conduce tutta l’umanità verso l’immortalità: il Condottiero; duce e perfetto esempio di fede (Ebrei 12,2). E′ «il Santo di Dio» (Giovanni 6,69).
Secondo il racconto della Genesi soltanto un punto può essere considerato “ereditario”, quello di non poter conseguire l’immortalità; possibilità che Adamo ed Eva persero anche per i loro discendenti, perché «il salario del peccato è la morte» (Romani 6,23), che nella metafora non è una punizione, ma una conseguenza naturale a cui Cristo stesso era sottoposto: i figli dei mortali Adamo ed Eva (che a loro volta sono peccatori per propria personale responsabilità) sono necessariamente mortali; così è, appunto, la metafora. E tuttavia non in modo assoluto, perché Dio può rendere immortale anzitempo chi vuole, secondo la sua insindacabile volontà. La Bibbia, infatti, ci racconta di profeti “rapiti in cielo”, resi immortali. Il ritorno alla possibilità (divenuta certezza) di acquisire l’immortalità si ha mediante Gesù Cristo, il secondo Adamo (l’Ultimo), il quale «ha distrutto la morte [con la risurrezione] e ha prodotto in luce la vita e l’immortalità mediante l’Evangelo» (2 Timoteo 1,10; cfr.: 1 Corinti 15,41-49; Apocalisse 1,18).
La dottrina secondo la quale qualcuno (un innocente, senza peccato) deve “pagare” per soddisfare la giustizia di Dio, sostiene la necessità del “sacrificio” di Gesù, e perciò se ne può dedurre una specie di predestinazione che non prevede altra soluzione; una specie di Fato al quale sarebbe sottoposto Dio stesso, un Dio con “le mani legate”. Si tratta di una dottrina inammissibile, perché rende Dio sottoposto agli avvenimenti del Mondo, che lui stesso ha creato.
■ LE INCONGRUENZE. Riprendendo il discorso del “mezzo di salvezza”, riscontriamo diverse incongruenze, la prima delle quali balza subito all’attenzione di tutti. Come è possibile che il Dio che non ama i “sacrifici”, considerati per il fatto in sé (e intesi, altresì, in senso teologico e dottrinale), ami o almeno accetti quello di Cristo, che oltretutto è un sacrificio umano se si ammette che Gesù è vero uomo? Rispondere che qui si tratta del sacrificio di se stesso (dell’uomo-Dio) non ci convince. Se non altro per il fatto che Dio non può soffrire, perché è Essere Perfetto. La sofferenza è propria dell’uomo. D’altra parte, c’è distinzione (o no?) delle persone in Dio? Il Catechismo romano dice: «La Chiesa adopera… il termine “persona”… per designare il Padre, il Figlio, e lo Spirito Santo nella loro reale distinzione reciproca…». E successivamente precisa ulteriormente: «il Figlio non è il Padre, il Padre non è il Figlio, e lo Spirito Santo non è il Padre o il Figlio»32. Si tratta, perciò, di una distinzione reale (è detto anche per esplicito) senza la quale non ci sarebbero tre persone in Dio. Perciò a soffrire è la “Persona-Figlio”, il figlio “incarnato”, l’Uomo-Dio Gesù; non sono le altre due persone. E se non sono anche le altre due persone, non è Dio a soffrire perché la dottrina trinitaria ci dice che Dio è tre Persone e che queste tre persone sono una sola cosa che non può essere divisa. Per questo i trinitari sono costretti a contraddirsi, ad affermare qualcosa opposta a quella che abbiamo già rilevato. Aggiungono: «Il Padre è tutto ciò che è il Figlio, il Figlio è tutto ciò che è il Padre, lo Spirito Santo tutto ciò che è il Padre e il Figlio…»33. Si tratta, insomma, di una logica che spesso si sposta dalla persona all’essenza e dall’essenza alla persona, senza procedere sul concreto e dimenticando che l’essere è “uno”, persona o no. In concreto Gesù è essere umano, e pertanto c’è stato un sacrificio umano, una pratica che Dio disapprova e condanna. Il sacrificio in genere, e in particolare quello umano, non soddisfa la giustizia di Dio, anzi la offende. Il comandamento di Dio è chiaro: «Non uccidere» (Esodo 20,13). Per secoli l’ebraismo, come per ordine divino, ha combattuto contro i sacrifici umani, e adesso è Dio stesso ad esigerne uno nella persona dell’Uomo-Dio Gesù di Nazareth? Vero è che l’evangelista Giovanni ci riferisce quelle parole di Gesù che dicono che «Iddio ha tanto amato il mondo che ha dato [come mezzo o strumento di salvezza] il suo unigenito figlio [il Messia], affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna» (Giovanni 3,16); ma non dice che lo ha dato perché morisse come l’agnello che veniva portato al Tempio per essere sacrificato. Se così fosse, il tradimento di Giuda, la condanna giudaica di Cristo e la sua morte di croce eseguita dall’autorità romana, sarebbero avvenimenti voluti da Dio e attuati per sua volontà. Ma non è così! E’ impossibile che Dio, tramite un angelo, fermi la mano di Abramo che sta per sacrificare Isacco, e arma quella dei capi del popolo ebraico e dei romani perché attuino (inconsapevolmente) lo stesso proposito di Abramo. E non è possibile anche perché, se fosse vero, ne verrebbe fuori che Giuda, i capi del popolo Ebraico e il governatore Ponzio Pilato, sarebbero stati artefici (o strumenti) dell’opera di salvezza, anche se automi, e Dio sarebbe il vero autore del sacrificio di Cristo: una specie di Abramo-Dio che sacrifica il proprio figlio “Isacco-Gesù”. Non è così! Il Messia Gesù è stato condannato contro il volere di Dio!
Pietro conclude il suo discorso alla Pentecoste con queste parole: «Sappia con certezza tutta la casa d’Israele che quel Gesù che voi avete crocifisso, Dio lo ha fatto Signore e Messia» (Atti 2,36).
Se per la salvezza dell’umanità Gesù doveva necessariamente morire di morte violenta, crocifisso da innocente, allora Giuda, Caiafa e Pilato risulterebbero anch’essi agnelli sacrificali in favore dell’umanità per l’unanime ludibrio ed eterna condanna morale a cui sono ancora esposti, per i quali dovremmo avere, invece, riconoscenza se si ammette la necessità del sacrificio voluto da quel Dio che esige giustizia ad ogni costo. Una vera assurdità.
Ma, per fortuna, o grazie a Dio, le cose non stanno così. Vediamo, perciò, che cosa dice più precisamente il Nuovo Testamento a proposito del “sacrificio”.
■ IL SACRIFICIO ESPIATORIO NEL NUOVO TESTAMENTO. Partiamo da un dato di fatto. Il “sacrificio” c’è stato. Questo è ammesso da tutti i teologi e anche da quasi tutti gli storici; ma non propriamente nel senso teologico veterotestamentario, bensì nel senso che Gesù di Nazareth storicamente è stato condannato ingiustamente, da innocente. Lo stesso Pilato non ha trovato in lui alcuna colpa. La sentenza è stata eseguita con crudeltà e nella maniera più ingiusta. Coloro che vollero la morte di Cristo sono responsabili di ciò che fecero, perché agirono liberamente; la salvezza dell’umanità non dipendeva e non dipende dalla morte dell’Innocente che hanno condannato. Il problema è un altro! Questo sacrificio fu voluto da Dio allo scopo di salvare l’Umanità?! Cosa afferma in proposito la Bibbia?
Intanto dobbiamo definire con più precisine che cosa è (o era) il “sacrificio” in generale, anche se in qualche modo lo abbiamo già detto. La citata Enciclopedia Garzanti di Filosofia dice che è: «un’offerta a una divinità, a un’entità extra-umana, a un defunto o a un vivente divinizzato, di doni, spesso di animali e talvolta di esseri umani. La forma e le concezioni del sacrificio variano naturalmente col variare dei contesti culturali, delle mitologie, delle teologie, così che è difficile elaborare una teoria unitaria del sacrificio»34.
Abbiamo già visto Caino (che coltivava la terra) offrire a Dio dei frutti della terra; mentre Abele (che era pastore) offriva dei primogeniti del suo gregge. Certamente la religione ebraica, così come la troviamo nella Bibbia, era la più progredita nell’antichità, per lo meno nell’area mediterranea e mediorientale, tuttavia l’usanza del sacrificio era ereditata dalle religioni primitive che concepivano la divinità come qualcosa o qualcuno esigente e severo da temere, che bisognava ingraziarsi. Furono le teologie extra-bibliche posteriori, prima quella ebraica e poi quella cristiana, che diedero, del “sacrificio”, una interpretazione elaborata col senno di poi. I cristiani attribuirono al “sacrificio” ebraico, praticato nell’Antico Testamento, un valore in qualche modo precisato alla luce dell’insegnamento di Cristo. Abbiamo visto che già all’epoca del profeta Osea (in pieno ebraismo) si cominciava a guardare l’usanza del “sacrificio” con un occhio diverso. Gesù si rifà al profeta Osea per affermare che il “sacrificio” (se così si può ancora definire) consiste nel comportamento del credente, perché Dio questo richiede, mentre non ama i sacrifici. Questo è un ulteriore passo verso l’eliminazione del sacrificio dell’agnello, e temporalmente coincide con l’idea che il sacrificio dell’agnello praticato nel tempio ebraico era un simbolo che prefigurava il sacrificio del Messia: una vera e propria costruzione del “senno di poi”, che ha pieno e vero significato per la fede. Tuttavia, se da un lato si abolì l’usanza del sacrificio dell’agnello (almeno nel Cristianesimo), dall’altra, nel Cristianesimo stesso, ne subentrò un’altra simile: il sacrificio cruento ripetuto di Cristo, che è il rito della Santa Messa. Nel Protestantesimo non si ammette la teologia che afferma la ripetizione cruenta del sacrificio di Cristo, ma è ricordato come fatto fondamentale della teologia cristiana e della fede, come sacrificio irripetibile compiuto da Cristo sulla croce una volta per tutte. Idea che ha la sua forza nell’Epistola agli Ebrei. Però c’è da dire che questa epistola non può essere presa sempre nel suo significato letterale. In una parola, il problema fondamentale insito in questa teologia del sacrificio non è ancora risolto, neanche con l’affermazione della irripetibilità del sacrificio che pure ha un suo preciso riscontro nel Nuovo Testamento. Per la soluzione del problema si vuol sapere se il “sacrificio”, così come si è consumato di fatto, era necessario per la salvezza voluta da Dio. Siamo forse di fronte a un Moloch o a un Minosse, che esige una vittima sacrificale? Ovvero: Dio è costretto in qualche modo [?] a sacrificare il suo Messia unigenito, o a lasciare che lo sacrificassero? Nulla di tutto questo!
Questo dilemma rientra nel “mistero cristiano” e non abbiamo elementi perentori che ci permettano o che ci impongano di adottare una soluzione piuttosto che un’altra. E′ più facile dire che cosa “non è” il sacrificio di Cristo (nel suo significato e nelle sue conseguenze teologiche) piuttosto che dire che “cosa è”. Certamente non è il prezzo di riscatto pagato per la salvezza dell’uomo! Pagato a chi?! Qualcuno ha detto: pagato al Diavolo. Ma il Diavolo esiste, come persona vera e propria, nonostante l’esistenza di Dio?! E se esiste, perché dare questa soddisfazione al Diavolo? Il Diavolo che cosa se ne farebbe di questa soddisfazione? Dov’è la sovranità di Dio? Il Diavolo esigeva una soddisfazione?! Quella di vedere punito l’uomo peccatore, e Dio gliela dà con il sacrificio del suo Messia che muore al posto del peccatore? Assurdità che non vale la pena confutare.
La risposta la dà Gesù stesso, quando dice che la vita si ha seguendo il suo insegnamento spirituale: «E´lo spirito quel che vivificale parole che vi ho detto sono spirito e vita» (Giovanni 6,63). Non è dunque il sacrificio in senso teologico che salva l’umanità, ma piuttosto la decisione sovrana di Dio, «il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati…» (1 Timoteo 2,4) con la mediazione del suo Messia.
Paolo, nelle sue epistole, ha in mente il sacrificio dell’agnello del rituale del tempio ebraico; implicitamente si serve di questa immagine per affermare che l’esempio che Gesù ha lasciato per i credenti e per tutta l’umanità (fino al sacrificio di sé) porta alla liberazione, alla salvezza. Esempio che troviamo indicato anche nella Prima epistola di Pietro, che sceglie la stessa metafora scelta da Paolo, quella dell’agnello sacrificale, grazie al quale si è salvati, ma si è salvati (qui è la chiave del discorso) non per un baratto, ma seguendo l’esempio di Cristo, perché questo è il significato del sacrificio di Gesù; dice: «A questo siete stati chiamati: poiché anche Cristo ha patito per voi, lasciandovi un esempio, onde seguiate le sue orme» (1 Pietro 2,21). Seguendo le sue orme, è esaudita la preghiera insegnata da Gesù: «Non esporci alla tentazione; liberaci dal male»; liberaci dal pericolo di commettere il male (Matteo 6,13) che degrada l’uomo. Questa è la libertà che Cristo ha dato all’umanità con l’esempio del suo sacrificio: essere liberati dal male degradante.
In sostanza il ricorso, degli autori del N.T., a metafore che fanno capo a realtà della religione ebraica e in parte dello stesso Cristianesimo, diventa fuorviante se il lettore non tiene conto unicamente e esclusivamente del loro significato spogliato dagli elementi che costituiscono l’impalcatura metaforica. L’intero N.T. può essere riassunto con la citazione di un solo versetto biblico. Lo possiamo ricavare dall’episodio del carceriere di Filippi, il quale chiede agli apostoli Paolo e Sila che cosa egli debba fare per essere salvato. La risposta è, appunto, la sintesi di tutto il Nuovo Testamento: «Credi nel Signor Gesù» (Atti 16,31). Credere vuol dire, non soltanto accettare che Gesù è il Messia, ma anche accettare il suo insegnamento, le sue parole (che sono parole di Dio, suggerite dal Padre, dal Creatore); e accettare il suo insegnamento significa metterle in pratica. Gesù, nel Nuovo Testamento, è il Maestro. I seguaci di Gesù sono i discepoli. Dice il Nazareno: «Un discepolo non è da più del maestro; ma ogni discepolo perfetto sarà come il suo maestro» (Luca 6,40). Ecco che ritorna il concetto dell’esempio di coerenza, fino al sacrificio di sé, al quale ogni discepolo, ogni cristiano, deve guardare.
Gesù di Nazareth non ha mai detto di essere Dio, anzi lo ha negato quasi esplicitamente: «Questa è la vita eterna, dice Gesù rivolto al Padre, che conoscano te, il solo vero Dio, e Gesù Cristo che tu hai mandato [che hai fatto apostolo]» (Giovanni 17,3).
Qui devo necessariamente spiegare ancora un’espressione che troviamo nel Nuovo Testamento, Figliuol dell’uomo, e aggiungere qualcosa riguardo al Logos. Senza addentrarmi troppo nella complessità del loro significato, devo almeno considerare le accezioni che riguardano il tema di questo libro35.
■ Osservo subito che “Figliuolo dell’uomo” si identifica con “Messia”(=cristo). Questo fatto si evidenzia anche dal racconto [Matteo 16] che culmina nella famosa “confessione di Pietro” (e degli altri apostoli)36. Pietro riconosce in Gesù il Messia; ma lo riconosce in risposta ad una precisa domanda del Maestro: «Chi dice la gente che sia il Figliuol dell’uomo?». Simon Pietro risponde: «Il Cristo [il Messia], il Figliuolo del Dio vivente». E′ come se avesse detto «tu sei il Re»; perché “Figlio di Dio” (Unto, Messia) in Israele indicava il Re. Gesù elogia Pietro per questa risposta; ma se il Nazareno è il Re, come è effettivamente, la prudenza è necessaria: Gesù «vietò ai suoi discepoli di dire ad alcuno ch’egli era il Cristo [il Re]». Domanda: chi è il Figliuol dell’uomo? Risposta: il Messia, il Re. E a quale persona si riferisce la risposta? A Gesù di Nazareth. Né Pietro, né gli altri apostoli, né Gesù stesso, hanno mai detto che il Nazareno, il Figliuol dell’uomo, fosse Dio; né esplicitamente, né con una perifrasi equivalente.
■ Il termine logos aveva vari significati nella filosofia greca, e vari significati ha pure nel Nuovo Testamento. Dirò soprattutto che cosa non è il logos nel N.T. Non è Dio! e non è “persona”! Giovanni nel suo Vangelo dice che era (ed è) presso Iddio πρὸς τὸν θεόν ; era (ed è) divino. Alfred Loisy (storico del Cristianesimo e grande esegeta) traduce: «In principio era il Logos, e il Logos era presso Iddio, e il Logos era dio»; e commenta: «Gli antichi osservavano che il Logos è chiamato Θεός, e non ὁ Θεός; esso è divino, è di Dio, ma non Dio nel senso assoluto»37. Se il logos è presso il Dio non può essere il Dio stesso, anche se consideriamo il termine πρὸς (vicino) una metafora; il significato sarebbe comunque “altro da Dio”, come infatti è. Dio è il Dio, il LOGOS è il suo agente (l’azione di Dio), la dýnamis, il a (in greco: pneûma): SPIRITO. Il Logos (di Dio) è lo Spirito (di Dio), la Manifestazione di Dio.
Leggendo l’intero brano non è chiara l’identità (se c’è) tra il logose Cristo-Persona”. Anzi spogliandoci dai preconcetti ci appare più chiaro che non c’è questa identità, non almeno l’identità di “natura”. L’autore di questo brano, cambia con facilità il soggetto (il soggetto grammaticale), talché a volte è chiaro che sta parlando del logos, a volte è meno chiaro che sta parlando di Cristo, o viceversa. Sembra quasi che il brano sia mancante di alcune parti. E se questo dubbio ha un fondamento, ci piacerebbe conoscere cosa dicevano le parti mancanti. Come abbiamo già osservato (qualche pagina più su), il testo dice che «a tutti quelli che l’hanno ricevuto [che hanno ricevuto il logos! non Gesù; qui si parla del logos] egli [il logos!] ha dato il diritto di diventar figliuoli di Dio» (v. 12). Gesù ha ricevuto il Logos, e pertanto è diventato Figlio di Dio. Infatti, coloro che hanno ricevuto il logos (Gesù per primo), vale a dire, che si lasciano guidare dal logos, «non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà d’uomo, ma sono nati [gr. ἐγεννήθησαν=sono generati] da Dio»; sono figli di Dio, generati da Dio (v. 13). Gesù è generato da Dio, come tutti i veri credenti, i veri cristiani! Per il resto lascio l’interpretazione a coloro che sono capaci di spaccare il capello e di immaginare, a loro modo, il contenuto delle “parti mancanti” che, secondo me, mancano davvero. Concordo con Rudolf Bultman, il quale dice: «Gesù è la parola [il logos] e lo è in quanto ha ricevuto dal Padre [da Dio] l’incarico, che esegue, di annunziare al mondo ciò che il Padre lo ha incaricato di dire (Giov. 8,26 ecc.)»38;è il Profeta: colui che parla al posto di un altro; in questo caso al posto di Dio. Il Nazareno è spiritualmente o interiormente perfetto, sicché può “sentire” e sente l’interiore voce di Dio, del Padre suo e di tutti (cfr. Giovanni 20,17). Il logos esprime il Padre (il Dio, Yahwèh), e questa espressione (che è, appunto, il logos) è dentro l’uomo («il regno di Dio è dentro di voi»: Luca 17,21) , e lo è tanto più nel Cristo. «Chi vede me, dice Gesù, vede Colui che mi ha mandato»; perché in me vede l’Apostolo di Dio; io esprimo il Padre, sono il suo Profeta e Sacerdote (Giovanni 12,45 – cfr. Ebrei 3,1).
Dunque, per tutti questi motivi non è vero che Gesù non essendo Dio non può perciò essere il Salvatore. Anzi, è proprio l’uomo Gesù di Nazareth che, pieno di spirito santo (il logos), è scelto da Dio come Messia («oggi ti ho generato»), è fatto Maestro, esempio di fede, e Signore; ed è innalzato alla destra di Yahwèh mediante la risurrezione. Questo vuol dire che egli è il Salvatore.
12. Conclusione
Nel Cristianesimo, sintetizzando il discorso, ci sono due modi di concepire la “natura” di Gesù di Nazareth, che ho descritto in questo libro.
Un primo modo (il più diffuso) è quello che ho illustrato brevemente partendo dalla falsa accusa di alcuni gruppi di giudei; accusa secondo la quale Gesù avrebbe detto di essere Dio. Ma si trattava di una calunnia a scopo provocatorio.
Un secondo modo è quello che afferma che il Nazareno è il Messia, vero uomo a immagine di Dio, il quale, scelto da Yahwèh, è proclamato “Figlio di Dio” secondo l’antico rito ebraico della intronizzazione del re (l’Eletto); quindi subisce l’ingiusta morte di croce e risorge come Signore alla destra di Dio.
Una ulteriore sintesi del concetto si può trovare in un breve testo dell’apostolo Paolo: «…[Gesù Cristo nostro Signore] nato secondo la carne, dalla stirpe di Davide; dichiarato Figlio di Dio mediante la risurrezione dai morti, per la potenza dello spirito di santità» (Romani 1,3-4; cfr. Atti 5,30-31).
Gesù di Nazareth è accusato dai Giudei di farsi Dio. Il Nazareno risponde a questa accusa rifacendosi agli antichi governanti (i “giudici”) che erano chiamati “dio”, “Figli dell’Altissimo”, così come erano chiamati tutti coloro ai quali la parola di Yahwèh era diretta. «Voi siete dèi, siete figli dell’Altissimo» (Salmo 82,6).
Su questo tema ho cercato di evidenziare quale fosse la fede dei primi cristiani, di coloro che ci hanno tramandato gli scritti del Nuovo Testamento; anzi, andando più indietro, dei credenti contemporanei di Cristo e degli Apostoli. Con la speranza che i filologi che hanno ricostruito il testo del Nuovo Testamento abbiano colto nel segno; non disponiamo di altri documenti.
Roma, 20 Maggio 2012 m. m.
NOTE
1. Giuseppe Faggin, nella sua Introduzione alle Enneadi plotiniane edito da Rusconi, dice che non vi sono affinità della dottrina di Plotino con quella cristiana. Ma dice pure che «i primi Padri della chiesa non tardarono ad attingere dalle Enneadi i motivi essenziali della Trascendenza e la natura spirituale dell’anima, e persino i fondamenti speculativi del Logos eterno»; e che le tre ipostasi (l’Uno, l’Intelletto e l’Anima) «costituiscono la trinità plotiniana» (Giuseppe Faggin, Introduzione alle Enneadi edito da Rusconi – Milano 1992). Ad un certo punto delle Enneadi Plotino dice qual-cosa che possiamo considerare come il preludio della formulazione della sua concezione “trinitaria” (che illustreremo in una nota più avanti). Dice: «Il Grande Re degli esseri intelligibili [l’Uno, Dio]manifesta la sua grandezza attraverso la molteplicità degli dèi ciascuno dei quali è nunzio dell’Uno agli uomini e con oracoli dice quello che a Lui è caro» (En. II 9, 9). Vedi anche la nota n. 21.
2. Marcel Simon, Les premiers chrétiens [traduzione dal francese, I primi cristiani, di Roberto Ortolani, Garzanti Editore, Milano 1958, pag. 33].
3. Dio è in cielo? Gesù è salito e disceso dal cielo?
Da un mio saggio pubblicato nel 2009 (qui nel testo integrale, così come è stato pubblicato):
Salire e scendere.
Lo studio del Nuovo Testamento ci porta a concludere che Gesù Cristo è vero uomo; non è Dio (Giovanni 17,4; 1 Timoteo 2,5). E lUomo adottato da Dio ed “assunto in cielo” mediante la risurrezione. Di là “ha da venire a giudicare i vivi e i morti” e a instaurare il suo Regno per tutti. Nella Bibbia non c’è la dottrina trinitaria, neppure per implicito.
Il testo biblico controverso che ci accingiamo a esaminare si trova in Giovanni 3,13. Sostanzialmente riguarda il tema “Gesù mandato da Dio”. Alcuni sostenitori della dottrina trinitaria dicono che qui si affermerebbe che Cristo (il “Figlio di Dio”) è mandato dal Padre; letteralmente dal cielo in terra, nel senso che sarebbe Dio incarnato: la seconda persona della Trinità fatta uomo.
Sgomberiamo subito l’equivoco che la frase «mandato da Dio» potrebbe generare, come se si trattasse letteralmente (o quasi) di una venuta dal cielo in terra. L’espressione è usata spesso riguardo a Gesù (ma non soltanto per Gesù): egli è mandato da Dio; mandato ad annunciare la Buona Notizia della salvezza, il perdono di Dio; è l’Apostolo dell’Evangelo (Ebr. 3,1). Dio, prima di mandare il Nazareno a svolgere il suo proprio compito, lo santifica, cioè lo sceglie (lo apparta, lo adotta) per un compito sacro (Gv. 10,36), appunto per annunciare l’Evangelo. Allo stesso modo, anche Giovanni il Battezzatore è «mandato da Dio» (Giovanni 1,6), è mandato a esortare il popolo al pentimento e a impartire il battesimo. Mandati sono anche i profeti (Isaia 6,8). Anche i dodici discepoli che seguivano costantemente Gesù erano mandati. Nel Nuovo Testamento il termine “mandato” (apόstolos, apostéllô) si riferisce a tutti i discepoli e in modo particolare ai Dodici, che erano detti appunto “apostoli” (mandati). Anche Gesù – come abbiamo già accennato – era “apostolo”. Il fatto che Cristo sarebbe “mandato” dal cielo in terra non potrebbe determinare un significato particolare, diverso dall’uso che ha quando si riferisce, per esempio, ai Dodici. Dante Alighieri adopera la stessa espressione per la sua donna ideale, ovviamente in senso metaforico che è l’unica accezione che l’espressione può avere quando coinvolge il cielo: dice che par che sia venuta dal cielo in terra a miracol mostrare. Nessuno proviene letteralmente dal cielo. Né l’espressione può alludere alla nascita “miracolosa” di Gesù. La Bibbia ha diversi esempi di nascite miracolose: nessuna è “incarnazione di Dio”. D’altra parte, abbiamo il racconto evangelico della nascita “miracolosa” di Giovanni il Battezzatore che in qualche modo ci ricorda quello della nascita di Gesù (Luca 1,5-25).
Gesù Cristo, nel brano del Vangelo di Giovanni che stiamo esaminando, parla con Nicodemo della “nuova nascita”, della nascita spirituale (o “nascita da alto, dal cielo”) e dà forza al suo discorso dicendo, in altre parole (con nostre parole), che coloro che ragionano seriamente di qualcosa ne parlano con cognizione di causa, come se fossero dei testimoni che hanno visto e udito, e che questo è il suo caso. Al v.11, infatti, Gesù dice: «Noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo visto». Poi pronuncia le parole del testo controverso: «Nessuno è salito in cielo, se non colui che è disceso dal cielo: il Figliuol dell’uomo che è nel cielo» (3,13). In sintesi dice che nessuno è salito in cielo; però dato che egli (il Cristo) vi è disceso, vuol dire che prima vi è salito (lo dice egli stesso, esplicitamente).
Non si può scendere dal cielo se prima non vi si è saliti. Nessuno ha visto Dio (Gv. 1,18), perché nessuno è salito in cielo (tranne Colui che vi è disceso). Appunto, se c’è qualcuno che discende dal cielo, vuol dire che vi è salito; prima di scendere ovviamente. E questo Qualcuno è l’Unico, il Messia. Questa del “salire e scendere” è la metafora. Qual è il significato fuori metafora?
Il cielo è il luogo metaforico di Dio. Questo luogo non può essere letteralmente un “luogo”, né tanto meno in cielo; non può essere un determinato luogo nello spazio, come per esempio Gerusalemme in Palestina. Inteso in questo senso il “luogo” implicherebbe che Dio ha un corpo e per di più di dimensioni finite, dato che se è collocato esclusivamente in quel luogo non è negli altri luoghi. Anche se la Bibbia dice esplicitamente che il cielo è la dimora di Dio (Gn. 11,5; 28,12-13; Es. 24,10; Sal. 18,6-9; Matt. 6,9,26; 23,22) si tratta comunque di una metafora; perciò dice anche che Dio i cieli non lo possono contenere (1 Re 8,27). È evidente che quando si dice “Dio è in cielo”, non si può con ciò dedurre che c’è un luogo fisico in cielo nel quale Dio “abita”; ma è altrettanto evidente che è pressoché impossibile uscire da questa metafora per tradurla in un significato sicuro e proprio. E’ più facile dire che cosa esclude, anziché che cosa includa; che cosa non è, anziché che cosa sarebbe. Un vecchio catechismo cattolico tentava di uscirne fuori dicendo che Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo. Ed Eckhart, accogliendo la metafora del cielo, mostra ch’essa include la terra ed ogni luogo; dice: «La terra non può fuggire tanto verso il basso, che il cielo non fluisca in essa ed imprima in essa la sua potenza e la renda feconda, le piaccia o no. Così avviene anche all’uomo, che immagina di sfuggire a Dio, e non può; tutti i luoghi lo manifestano»(Maister J. Eckart, Ave, gratia plena, in Sermoni tedeschi, a cura di Marco Vannini, Adelphi Edizioni, Milano 19913, pag. 51-52).
Certamente qui c’è un’eco dell’antica credenza secondo la quale il cielo feconda la terra in senso proprio, ma Eckhart se ne serve identificando questa credenza con la metafora evangelica del cielo, che implica la presenza, e quindi la conoscenza, di Dio. Questa presenza è ovunque, non c’è un luogo dove Dio non ci sia (…dove potrei fuggire lontano dalla tua presenza?...); è perfino nelle ossa e negli organi del nostro corpo, nel soggiorno dei morti (nella tomba), nelle profondità del mare… (v. Salmo 139). Inoltre, l’espressione letterale “Dio è in cielo”, che è in uso nella Bibbia, è presa in prestito dalla credenza degli antichi, secondo la quale Dio è in un luogo inaccessibile (che tale era per loro il cielo) come Zèus sul monte Olimpo, appunto. Paolo dice che Dio «abita una luce inaccessibile» (2 Tim. 6,16). Chiarito questo, anche se non ce n’era bisogno, dobbiamo accogliere l’espressione letterale nel nostro linguaggio; accoglierla come la più idonea per il nostro ragionare pratico: “Dio è in cielo”. Il cielo, perciò, è il luogo perfetto, perché è di Dio.
Il luogo di Dio, vale a dire dell’Essere Perfetto, non può che essere il cielo: è il luogo di Jehôvâh, di Colui che è: dell’Essere (Esodo 3,14). Ora, il testo che stiamo esaminando va considerato tenendo conto della dinamica propria e temporale che esprime, dato che in esso si parla di “salire” e di “scendere”. Nel discorso di Gesù ci sono tre momenti: 1) nessuno è salito in cielo: vale a dire nessuno è andato nel luogo di Dio per parlare con lui “faccia a faccia”; fuori della metafora: nessuno è in qualche modo, sia pur inspiegabile, in diretto contatto con Dio, e questo concetto è espresso con il termine “salire”; 2) è salito in cielo colui che è disceso dal cielo e nessun altro. Se Cristo è disceso dal cielo, questa è la prova che vi è salito, come Mosè che discende dal Monte Sinai (se scende è perché vi è salito). Vale a dire, c’è una persona che è salita in cielo prima di scendere, prima di rivelare ciò che ha “visto” e “udito”; fuori della metafora, questa persona è in contatto diretto con Dio perché ovviamente ha prima stabilito il contatto (è salita), perché non potrebbe scendere dal cielo, cioè rivelare ciò che ha “visto” e “udito”, se non è prima salita: «nessuno è salito in cielo, dice Gesù, se non colui che è disceso dal cielo», soltanto lui vi è salito, colui che è disceso vi è salito, evidentemente è “salito” prima di “scendere”; è in contatto diretto con Dio colui che ha stabilito questo contatto. Infatti, 3) l’unico a stabilire il contatto in modo perfetto è stato Gesù Cristo, il Figliuol dell’uomo, cioè il Messia; l’Unto dice le parole di Dio (Gv. 8,26-28): è colui che è “salito” in cielo e dopo ne è “disceso”. E’ colui che ha udito la “voce” di Dio che diceva «Questo è il mio diletto figliuolo, nel quale mi sono compiaciuto» (Matt. 3,17): parole identiche a quelle che si adoperavano tra gli israeliti in occasione della cerimonia di incoronazione del re (Cfr. Giulio Busi, Simboli del pensiero ebraico, Giulio Einaudi editore, Torino 1999). Tutto questo significa che là dove si parla di “salire” e “scendere” non si sostiene la preesistenza “celeste” (presso Dio) di Gesù (o del “Figlio di Dio”, il Re). Si parla della conoscenza di Dio che si acquisisce attraverso un contatto misterioso e diretto con la Divinità. E’ il “contatto” per il quale Cristo può riferire le “parole di Dio”, senza salire e senza scendere in senso proprio e letterale; è l’opera del Profeta: di colui che parla nel nome di Dio; di colui che riferisce agli uomini le parole del Padre, del Creatore.
La congregazione cristiana dei Testimoni di Geova, non concorda con il testo che stiamo esaminando; ma non vi concorda neppure la maggior parte delle altre chiese cristiane, quelle che accettano la concezione trinitaria di Dio.
I Testimoni di Geova credono (non in base alla loro dottrina, ma di fatto) all’esistenza di due dii (o dèi): il Padre (il vero Dio) e il Figlio (un Dio minore). Più precisamente, dicono che l’Unigenito di Dio sia il primo essere che Dio ha creato, il quale avrebbe collaborato con il Padre alla creazione del mondo. Ma di che “natura” sarebbe un essere che collabora con il Creatore?! Anche se lo consideriamo un “creatore subalterno”, sarebbe comunque “creatore”, cioè “dio”. Ma se si ammette che è il primo essere che Dio ha creato, si deve concludere che è una “creatura-creatore”; ma questo è impossibile.
I trinitari credono all’esistenza del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo, ma almeno precisano (sfuggendo alla propria contraddizione in termini) che i tre (le tre “persone”) sono un solo Dio. Così, in qualche modo, più o meno secondo ragione, rientrano nella concezione monoteista.
La parte finale del testo che stiamo esaminando, espressa con le parole «che è nel cielo», manca in molti antichi manoscritti. E’ evidente che si tratta di una glossa, che un copista troppo zelante ha tolto dal margine e introdotto nel testo, per spiegare che Gesù è in cielo essendo risorto. Concetto che è già implicito in 1,18: «Nessuno ha mai visto Dio; l’Unigenito Figlio [il Messia, il Re, l’Unto], che [ora] è accanto [κόλπον] al Padre [accanto a Dio], è colui che lo ha fatto conoscere» (Sul termine “unto” e i sinonimi cfr. le rispettive voci in Dizionario biblico a cura di Giovanni Miegge e Altri, Feltrinelli editore, Milano 1968, e Giulio Busi, Simboli del pensiero ebraico, opera citata). In conclusione, la metafora del “salire” implica qualcosa che si consegue, che si acquisisce, cioè la conoscenza di Dio (parliamo di quel che sappiamo: v. 11), e non qualcosa che si ha per natura. Chi vuol conoscere (sapere) le cose che riguardano il cielo (cioè Dio) deve salire in cielo. E solo uno vi è salito, colui che dopo esservi salito è disceso: il Messia. Solo uno vi è salito perché Dio ne ha adottato (scelto, eletto) soltanto uno: Gesù di Nazareth. Chi sale in cielo – stando ai termini letterali della metafora – vi sale per conoscere; chi scende può comunicare la conoscenza, parlarne con convinzione come un testimone oculare e auricolare, come colui che sa (v. 11). Cristo “scende”, e scende perché vi è “salito”: non era già nel cielo o non vi era già stato prima di nascere, prima di venire al mondo, perché nessuno può scendere se non colui che è salito; e solo Cristo vi è salito (v. 13), vi è salito evidentemente dopo essere venuto al mondo, dopo la nascita, da adulto; chi sale in cielo vi arriva, non è già lì da prima o da sempre, che in tal caso sarebbe un ritornare o un esservi stabilmente, da sempre. E d’altra parte, per questo “salire e scendere” non conta, ovviamente, il senso letterale, ma quello fuori metafora. Gesù non rivela la conoscenza di Dio in quanto sarebbe coeterno con il Padre, della sua stessa “natura” (cioè Dio stesso), o comunque in quanto era già in cielo prima di nascere in Palestina, ma in quanto è salito in cielo, dove ha appreso le “parole” di Dio: «Le cose, dunque, che dico, così le dico, come il Padre me le ha dette» (Giov. 12,50); altra metafora (antropomorfica: Dio che parla, e parla con un uomo) il cui senso è così evidente che non ha bisogno di essere spiegato. Non si può, quindi, dedurre, come affermano alcuni, che colui che è salito è il preesistente, che in effetti non sarebbe salito perché era in cielo da sempre; mentre colui che è sceso sarebbe (come effettivamente è) l’esistente Gesù di Nazareth, il Cristo. Il termine “preesistente”, se si pretende di dargli una realtà sostanziale, esprime in se stesso una contraddizione in termini, perché ciò che sta prima dell’esistente è il “non-esistente”; ciò che diviene cessa di esistere. La seconda Persona della Trinità diviene uomo? Se è così, cessa di esistere per divenire altro sostanzialmente diverso da ciò che era. Pertanto, o non è divenuta uomo (e perciò non c’è incarnazione), o non c’è Trinità. Il termine “preesistente”, vale a dire “ciò che esiste prima di esistere” [???] esprime un concetto privo di significato. Niccolò Cusano nel De visione Dei dice che in Dio «nessuna cosa è esistita prima di avvenire, perché non fu concepita prima che essa fosse» (Niccolò Cusano, La visione di Dio, pag. 56, Zanichelli , Bologna 1980 - Mondadori, Milano 1998). Certamente in Dio, al di là di ogni discorso filosofico, tutto (nessuna cosa esclusa) è realmente presente; ma su questo si potrebbe scrivere a lungo, come del resto è stato già fatto, senza giungere a nessuna certezza. In tal caso non soltanto il Messia sarebbe preesistente, ma anche tutti i profeti, anzi tutte le cose, noi compresi. Evidentemente il concetto della preconoscenza divina è strettamente legato a quello della “realtà in Dio”. A questo proposito, il racconto che il profeta Geremia fa di sé, è emblematico: egli era conosciuto e scelto da Dio, per essere profeta delle nazioni, prima che fosse concepito nel seno di sua madre (Ger. 1,4-5). Su questa base si può, dunque, esprimere il concetto sui generis secondo il quale Geremia esisteva prima di nascere. Così pure l’apostolo Paolo (Galati 1,15-16). Ed anche Gesù; anzi Gesù, essendo il secondo Adamo (essendo il vero Adamo, quello perfetto: 1 Corinti 14,45-49) precede tutti, e in quanto perfetto precede ogni cosa: «Egli è avanti ogni cosa» (Col. 1,17); «il Primo della Creazione di Dio» (Apoc. 3,14): lo è nella mente di Dio dall’eternità, come Idea; lo è nella realtà immanente, è «il Primogenito dei morti» (Apoc. 1,5), il primo dei risorti; «io sono il primo e l’ultimo [il primo e l’ultimo Adamo]… e fui morto, ma ecco son vivente per i secoli dei secoli…» (Apoc. 1,18). Questi concetti nella Bibbia sono chiarissimi; semmai ci sarebbe da domandarsi se ciò che esprimono non sia valido anche per tutte le persone e per tutte le cose. Ma questo è un altro discorso. Le conclusioni di alcuni biblisti, che si appoggiano su approfonditi studi di ebraismo, sono oggi orientate ad affermare che in generale l’idea di “preesistenza” non implica una esistenza temporale e premondana; nel caso di Gesù, indica semplicemente che la persona e l’opera del Messia sono dovute interamente ad una iniziativa di Dio (K. J. Kuschel).
Rimane il fatto che la concezione del preesistente e dell’esistente, nel testo in esame, è una interpretazione arbitraria che non tiene conto della logica indicata dai termini e dalla dinamica temporale della metafora. In altre parole, il senso letterale non è il significato proprio di questo discorso; qui, più che altrove, “lettera” e “spirito” non coincidono, tuttavia il senso letterale è essenziale per uscire correttamente dalla metafora. Insomma, questo salire e scendere (nel cielo e dal cielo) non è altro che l’ispirazione profetica, come quella di Isaia, dello stesso genere (Is. 61,1; Luca 4,18). Gesù sta dicendo che lui è il Profeta, quello per eccellenza (l’unico), perché è il solo che sia “salito” in cielo, il solo che abbia avuto la rivelazione completa e definitiva, mentre i profeti che lo hanno preceduto hanno avuto una rivelazione parziale (Giov. 10,8; Ebr. 1,1-2). Gesù è il Figlio di Dio, cioè il Re per eccellenza, il Messia atteso da secoli, il Cristo, uno come Mosè (Deut. 18,15-18).
Il Nazareno, accusato capziosamente di farsi Dio dai farisei, si difende affermando di essere il Messia e quindi negando implicitamente di essere Dio; o meglio affermando di essere dio come lo erano gli antichi giudici di Israele; quelli pur essendo infedeli, Gesù essendo fedele fino al sacrificio di sé (Giov. 10,34-36; Salmo 82,6; Atti 10,42).
Anche Paolo ha avuto una conoscenza diretta del cielo, ma parziale ed ineffabile. In 2 Cor. 12,2 il grande apostolo dice: «Io conosco un uomo in Cristo [cioè lui stesso], il quale, son già passati quattordici anni, fu rapito (se fu con il corpo o con la mente, io non lo so, Iddio lo sa) fino al terzo cielo... e udì parole ineffabili, le quali non è lecito ad uomo alcuno di proferire» (la traduzione è mia, sulla scorta del Diodati; sempre del Diodati cfr. Atti 22,17). Mentre Cristo afferma di dire le cose che ha “udito dal Padre” così come le ha udite, Paolo dice che quelle udite da lui in cielo non è lecito all’uomo pronunciarle.
Si racconta che anche Tommaso d’Aquino avrebbe avuto un “rapimento”. Secondo quanto riferisce Reginaldo da Piperno (cfr. Tommaso d’Aquino, L’uomo e l’universo - Opuscoli filosofici, a cura di Antonino Tognolo, Rusconi Libri, Milano 1982, pag. 89) lAquinate ebbe una apparizione o un rapimento che gli permise di comprendere che tutto quanto aveva scritto e scriveva era paglia [era tutto sbagliato?] in confronto a ciò che aveva contemplato nella visione; così non volle più scrivere, e lasciò incompiuta la Summa Theologiae.
Ora né Paolo, né Tommaso d’Aquino, erano di natura divina per questi “rapimenti” al terzo cielo. Neanche Cristo lo era, pur essendo (a differenza degli altri) l’Uomo perfetto a immagine di Dio, il secondo Adamo, il “Figlio di Dio”, cioè il Messia, l’Unto, il Profeta per eccellenza, il mediatore (1 Tim. 2,5) che ha ricevuto la rivelazione completa, perfetta e definitiva salendo e scendendo dal cielo; colui che udì la voce di Dio che diceva Tu sei il mio diletto Figliuolo, in te mi sono compiaciuto; oggi ti ho generato (Matteo 3,17; 17,5; Marco 1,11; 9,7; Luca 3,22; Ebrei 1,5; Salmo 2,7. Cfr. Busi, op. cit.). Parole, queste, che affermano implicitamente che Gesù fu adottato (eletto) da Dio ad essere Cristo, Messia. Adozione che, per la fedeltà al Padre (a Dio) dimostrata in parole ed opere, nell’umiltà del comportamento e nella fedeltà fino alla morte di croce, ha prodotto la risurrezione e l’elevazione di Gesù al rango e alla natura di Signore Imperituro (Filippesi 2,5-11).
«Iddio ha fatto e Signore e Cristo [Messia] quel Gesù che avete crocifisso… dichiarato Figliuol di Dio [Messia, Re] con potenza secondo lo spirito di santità mediante la sua risurrezione dai morti, cioè Gesù Cristo nostro Signore» (Atti 2,36; Romani 1,4).
In conclusione, né qui né altrove Gesù ha detto di essere Dio; ha sempre affermato di essere il Messia, seppur con prudenza e in umiltà.
4. Dice Hans Küng: «Nel salmo 2,7 (un rituale d’intronizzazione) il messia-re viene persino chiamato esplicitamente “figlio”: Mio figlio sei tu, io oggi ti ho generato. Si noti bene: “generazione” è qui sinonimo di intronizzazione, elevazione». Il Vangelo di Giovanni usa una metafora. Dice che la Parola (il Logos) è stata fatta “carne” (cioè “uomo”, ma anche Mondo!). Küng dice: Incarnazione significa «che in questo uomo [in Gesù] hanno preso figura umana [“forma”, espressione antropica], la parola, la volontà, l’amore di Dio... [quelle stesse perfezioni eterne per mezzo delle quali Dio ha creato, e che fanno anche il vero uomo], la categoria “incarnazione” [nel comune senso del termine] è estranea al pensiero ebraico e a quello giudeo-cristiano delle origini...». L’espressione “venuto in carne” mette in evidenza la realtà “uomo”; è un’espressione che distingue la creatura dal Creatore, dal “divino”; significa “nato uomo”, come tutti gli uomini; certamente “a immagine di Dio”, ma “uomo”! «Nel Nuovo Testamento, si pensa ancora in maniera prettamente ebraica: “generato” come re, “generato” come unto(=messia, Cristo) non significa, appunto, nient’altro che costituito come rappresentante e figlio» (Hans Küng, Credo, traduzione di Giovanni Moretto. R.C.S. Libri & Grandi Opere, Milano 1994, cap. 2, pp. 64-66).
5. Il re, presso il popolo ebraico, era chiamato “Figlio di Dio” (2 Sa-muele 7,14; Salmo 2,7; 89,26-28), ed era unto d’olio sul capo, nel giorno della sua elezione o “adozione divina” (1 Samuele c. 10, 16,13). Per questo il re d’Israele è considerato tipo del Messia. Veniva chiamato anche “Unto”: l’Unto del Signore (di Yahwèh); termine che tradotto in greco, e dal greco in italiano, si dice “Cristo”. In Marco [13,22] leggiamo che Gesù parla (in aramaico) dei “falsi messia” e l’evangelista traduce l’espressione in greco con il termine “pseudochristoi”. «Il carattere dell’unzione di Gesù non è mai espresso esplicitamente nei Vangeli, sebbene se ne possa trovare un’allusione nell’episodio della lettura sinagogale di Nazaret [Luca 4,17-21]» (Giulio Busi, Simboli del pensiero ebraico, Giulio Einaudi editore, Torino 1999, pag. 189-190).
Per il significato del termine “cristo” o “messia” si veda: Dizionario biblico, a cura di Giovanni Miegge, Feltrinelli Editore Milano, 1968.
Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti Editore Milano, 1993.
6. Il teologo inglese John A.T. Robinson dice che è un “abracadraba”. Vedi, nel presente libro, la citazione a pag. 7.
7. In Israele i giudici [i governanti], anche quando si trattava di giudici indegni, erano chiamati Figli dell’Altissimo (di Dio) come Gesù (Salmo 82; Luca 1,32). Il re (Davide…) era “Figlio di Dio” e poteva chiamare Yahwèh “mio padre”, e Yahwèh chiamava il re “mio figlio”: 2 Samuele 7,14; Salmo 2,7 (Atti 13,33; Ebrei 1,5; 5,5); Salmo 89,26-28. Nell’Antico Testamento, l’intero popolo d’Israele era considerato “Figlio di Dio” (Esodo 4,22; Geremia 31,20). In generale, il re era l’Unto (il Messia), il Figlio di Dio. Ma nessuno di questi figli di Dio era Dio. Questo discorso vale anche per Gesù di Nazareth quando Yahwèh identifica in lui “suo figlio” (il Messia), e quando Gesù si rivolge a Yahwèh chiamandolo “Padre mio”. Non c’è nessuna figliolanza in senso proprio e antropomorfico; c’è una adozione spirituale, per la quale il Vangelo di Luca ci dice che Gesù era pieno di spirito santo (4,1). Questo fatto avviene a seguito del battesimo di Gesù nel Giordano, allorché Dio lo adotta, con la formula propria dell’adozione e intronizzazione dei re di Israele: «Tu sei il mio diletto Figliuolo; in te mi sono compiaciuto»; mi piace sceglierti, adottarti (Luca 3,22). Un altro testo aggiunge: «Oggi ti ho generato» (Atti 13,33; Ebrei 1,5; 5,5). Quelloggi è incontrovertibile; evidenzia che il Messia come tale “nasce” in quel momento (come avveniva per i re d’Israele), sebbene certamente fosse stato scelto da Dio prima della sua nascita in Palestina. Allo stesso modo Dio scelse anzitempo il profeta Geremia (1,4-5) e l’apostolo Paolo (Galati 1,15-16), per fare due esempi, prima che nascessero. Inoltre, quell’«oggi ti ho generato» ci dice che qui, come in altri ambiti dello stesso tema, “generare” non ha senso proprio, paragonabile (sia pur in qualche modo) al significato antropomorfico per il quale colui che è generato in senso proprio ha dei genitori in senso proprio; il Figlio di Dio non è mai figlio in senso proprio. Significa semplicemente “costituito; così è per Gesù e per i credenti. Possiamo considerare l’essere figlio di Dio un fatto più importate dell’essere figlio in senso proprio e antropomorfico, ma le due cose non vanno confuse. Gesù era ed è figlio di Dio nel senso che Dio lo ha adottato. E questo significa che gli ha affidato un compito di capitale importanza costituendolo suo Apostolo e Sommo sacerdote; un compito di valore incommensurabile, che richiederà il sacrificio della vita con la morte di croce; il Padre (vale a dire il Dio, il Dio di tutti) lo risuscita dai morti, e lo eleva al rango di Signore, alla sua destra.
Perciò, l’autore dell’epistola agli Ebrei, parlando del Messia (del Figlio), usa il termine “dio” («…O dio, il tuo trono è nei secoli dei secoli [dura eternamente]» (1,8), ma è chiaro dal contesto che si tratta di un titolo onorifico, come quello dato, per esempio, ai giudici d’Israele (leggi interamente i capitoli 1 e 2). Si riferisce al Salmo 45, dove il salmista compone un inno nuziale in onore di un re o di un prode condottiero (Davide?), che chiama “dio” (v. 6), così come, nel Salmo 82, sono chiamati dii (o dèi) i giudici (dèi e messia: figli dell’Altissimo; cfr. anche Luca 1,32 e Giovanni 10,34). E′ un titolo onorifico, non si tratta propriamente dell’Iddio. L’autore dell’epistola, come dice il Cullmann, «è un cristiano colto d’origine giudaica», dunque uno che conosce bene la cultura e le tradizioni ebraiche, che ben sa la differenza tra “dio” e “Iddio” nella letteratura giudaica. In questa epistola, con la citazione del Salmo 45, piuttosto che attribuire la divinità al Messia Gesù, si qualifica Cristo con il titolo onorifico (dio) riservato, tra gli israeliti, alle persone ragguardevoli, a coloro ai quali la parola di Dio è diretta (gli Unti e i Profeti), che ovviamente non erano Dio.
L’epistola agli Ebrei sostiene: a) la superiorità di Cristo sugli angeli e su Mosè; b) la superiorità del sacerdozio di Cristo su quello del Sommo Sacerdote giudaico; c) il rapporto diretto di ogni singolo credente (senza la mediazione di altri sacerdoti) con il Sommo Sacerdote Gesù Cristo, e di conseguenza: d) che ogni cristiano è sacerdote a se stesso; e) sostiene altresì la superiorità del santuario celeste su quello giudaico; f) la superiorità del sacrificio di Cristo (irripetibile) su quelli degli animali dell’Antico Testamento.
Che cosa non dice l’epistola agli Ebrei? Non dice che Cristo è Dio; come non dice che l’uomo è Dio (o quasi Dio) là dove afferma che è «poco minor di Dio» [originale: Salmo 8,5 – vers. Riveduta]. I cristiani sono chiamati “fratelli di Cristo”; il Messia è il “fratello maggiore”, è l’Erede (secondo la tradizione ebraica): il prediletto dal padre, in questo caso dal Creatore. Ogni espressione che può far pensare, in qualche modo, alla divinità di Cristo, deve essere letta in chiave ebraica e non in chiave greca, anche perché i destinatari dell’epistola erano giudeo-cristiani con molta probabilità, certa-mente non erano di cultura greca. Ora, la concezione che ammette la divinità di Cristo (e quindi la Trinità) deriva propriamente dai principî che appartengono alla filosofia greca, e non all’ortodossia ebraico-cristiana.
8. Dante Alighieri, Monarchia, Liber Primus, XII, in: Tutte le opere, Newton Compton editori, Roma 1993, pag. 51-52.
9. Martin Lutero, Discorsi a tavola (3682), traduz. di Leandro Perini, Giulio Einaudi editore, Torino 1969, CDE Milano 1989, pag. 231.
10. John M. Allegro, The Dead Sea Scrolls, Penguin Books 1956 [traduz. Ital.. di R. Degli Uberti e D. Del Turco, I rotoli del Mar Morto, cap. IV, Sansoni, Firenze 1961].
11. Ernesto Renan, Vita di Gesù, Dall’Oglio Editore, Milano 1962, pag. 136.
12. Isaac Asimov, In principio, Oscar Mondadori, traduz. di Franco Salvatorelli, Arnoldo Mondadori Milano, 1999 pag. 76.
13. Filone d’Alessandria, Le allegorie delle leggi, II, 1, [2], traduzione di Roberto Radice, in: La filosofia mosaica, Rusconi Editore, Milano 1987, pag. 143.
14. Qui parliamo di “natura”; ma in effetti non potremmo neppure parlarne, perché il solo fatto di parlare di “natura” (di essenza, di sostanza…) a proposito di Dio, significa attribuirgli qualcosa di simile (di troppo simile) all’uomo e alla cose immanenti; mentre Dio è “il Totalmente Altro”, di Lui nulla possiamo dire. Possiamo accettare la metafora biblica che ce lo presenta come essere superiore ma antropomorfico; non possiamo parlarne in termini filosofici esatti.
15. Aristotele, Metafisica, V 26, 1023 b 28, 33. Traduzione di Giovanni Reale, Rusconi Editore, Milano 1993, pag. 255.
16. Catechismo della Chiesa Cattolica, II1, &2-III, 253, Libreria Editrice Vaticana [Officine Grafiche De Agostini] Roma-Novara 1993, pag. 81.
17. Catechismo, opera citata, 254, pag. 81
18. Catechismo, opera citata, 255, pag. 81.
19. René Descartes, Les principes de la philosophie (Paris 1647), I,60 [traduz. Ital. di Paolo Cristofolini, I principi della filosofia, Bollati Boringhieri editore, Torino 1967 / CDE, Milano 1993, pag. 101].
20. I trinitari resisi conto, quasi sul nascere della loro dottrina, che il concetto con il quale vorrebbero spiegare in qualche modo la Trinità (o per lo meno dimostrare che è possibile; che non si oppone alla ragione) evidenzia un “bisticcio” dei termini (negando di fatto che in questo caso “sostanza” e “persona” sono la stessa cosa), ricorsero all’espediente di adottare nella loro terminologia due diversi vocaboli che la filosofia greca adoperava per indicare la “persona”: ypóstasis (ipostasi) e prósôpon (prosopon). Crearono così un nuovo problema. Il primo termine (cioè “ipostasi”) si riferisce a ciò che sta sotto, cioè al sostrato; il secondo (cioè “prosopon”) si riferisce a ciò che appare; letteralmente: sedimento e maschera. Ma, comunque, tutti e due i termini si riferiscono a due aspetti dell’unità individuo-persona, cioè ad una sola e medesima realtà indivisibile. Dire “ipostasi” (sedimento) e dire “prosopon” (maschera), evidentemente con riferimento all’uomo, significa alludere in tutti e due i casi all’individuo-persona, che è, appunto, l’unità “uomo” (unità tautologicamente composta). Infatti, “prosopon” (maschera) suppone necessariamente qualcosa che nasconde sotto, cioè la realtà che la indossa, e questo qualcosa è l’ipostasi; mentre l’ipostasi suppone necessariamente qualcosa dalla quale è nascosta, che è la maschera (prosopon). Non può esserci maschera senza il “mascherato”, senza ciò che le sta sotto, cioè l’ipostasi; e non può esserci “mascherato” senza maschera. Cosicché, sia il termine ipostasi e sia il termine prosopon indicano comunque la persona, non solo perché ognuno dei due termini nel suo significato presuppone necessariamente l’altro (e non può esistere senza l’altro), ma anche perché per i greci, in ultima istanza, avevano lo stesso significato: persona; “persona indivisibile”, cioè “composta”, mentre Dio non è “composto”, è “semplice”. La persona, al di là di ogni definizione, è l’individuo-uomo; è l’uomo che relaziona con il mondo che lo circonda e con se stesso. In questo senso, dunque, Dio non può essere “persona”. Per nascondere questa incongruenza del linguaggio, si dice che Dio è “persona eneffabile”. Ma se tutto questo si riferisce a Dio (sia pur per analogia), vuol dire esprimere un concetto che non ha nulla di vero: Dio non è analogo a niente; nessuna analogia si può fare riguardo a Dio. Se poi l’analogia nasconde, nel ragionamento, elementi capziosi, non è neppure una analogia.
21. E′ ammesso da tutti, documentato nella storia della Filosofia, che il platonismo (e soprattutto il neoplatonismo) ha influito enormemente sulla teologia cristiana, compreso l’antiplatonico Aristotele (quando platoneggia!). Il fatto è talmente scontato che potremmo soprassedere. Ma, per dare un saggio, a titolo di esempio, dell’influenza subita dalla teologia cristiana, soprattutto nella formulazione della dottrina trinitaria, facciamo un raffronto tra le Enneadi di Plotino (III secolo) e la dottrina cattolica romana.
Il concetto di Unità come natura di Dio, sul quale poggia quello di Trinità, è un concetto proprio della filosofia panteista e politeista e fa a pugni col monoteismo per il quale l’Uno (Dio) non è Unità, bensì il Semplice in sé, che trae le cose dal nulla (creazione ex nihilo). D’altra parte, è sufficiente fare un raffronto tra la descrizione delle ipostasi in Dio fatta da Plotino, con la descrizione delle persone fatta dai trinitari, per rendersi conto della loro stretta parentela. Vediamole:
a) Plotino dice (sintetizziamo al massimo) che l’Uno (Dio) pensa; ma questo pensiero dell’Uno che pensa è fuori dell’Uno («l’Uno non ha bisogno di pensare se stesso»: En. VI 9,6) perché è “generato” dall’Uno per emanazione (appunto “fuori”); il pensiero contemplando Colui che lo ha generato (cioè l’Uno) diventa Intelletto (ed ecco già il molteplice “distinto”). L’Intelletto (o Intelligenza) genera l’Anima [del Mondo], la quale pensa a tre: a Colui che l’ha generato, a se stessa e al Mondo che nella processione viene dopo l’Intelletto. Ed è così che l’Intelletto (ovvero Intelligenza o Logos), pensando al Mondo, lo governa. Insomma, l’Uno concepito come “unità” è una contraddizione in termini, perché il semplice non può essere composto, il semplice è il non-composto. Plotino per giustificare questa contraddizione enuncia altre contraddizioni, come l’atto che è potenza, o la potenza che è atto (Cfr. Enneadi V,4,2; IV,8,3: 21-29).
b) I trinitari dicono (testualmente) [riassumo dalle note al Vangelo di Don Giuseppe Guerini, 14ma edizione, Milano 1967]: Dio, Sommo e Purissimo Spirito intelligente, conosce eternamente se stesso [Plotino direbbe: “pensa”]: ecco la persona del Padre [Plotino lo chiama Genitore, ma anche Padre: En. V 2,1; II 9,2]. Nel suo conoscersi [Plotino direbbe: “pensandosi”] Dio Padre genera in sé [Plotino direbbe: “emana fuori”], eternamente, una sua immagine [e qui sia Plotino che i trinitari potrebbero dire “Logos” o “Intelletto”] sostanziale sussistente da cui è riconosciuto pienamente [Plotino direbbe: “pensato”]: ecco la persona del Figlio. Padre e Figlio [Plotino direbbe: “Genitore e Intelligenza o Logos] nel loro eterno conoscimento reciproco [Plotino direbbe: “nel pensarsi reciprocamente”] eternamente si amano [“profumano”, direbbe Plotino, come metafora dell’emanazione], e questo amore sostanziale sussistente che spira [“che procede” direbbe Plotino] da entrambi costituisce la persona dello Spirito Santo [Plotino direbbe “costituisce o genera l’Anima”]. Anche qui c’è la contraddizione per la quale si vuole introdurre la molteplicità nell’Uno.
22. Aristotele, Metafisica, VII 13, 1039 a 5, op. citata, pag. 349.
23. Possiamo dire, con Aristotele, che tutti i “principi” sono cause e che la causa per eccellenza è la sostanza prima, in quanto essere auto-causato e causante. Il principio come causa che costituisce la realtà di un individuo (o semplicemente la realtà, o semplicemente l’individuo, che è dire la stessa cosa), cioè l’essenza determinata, è la sostanza, talché “sostanza” o “principio” (principio principiato) è equivalente a “individuo”, ciascuno dei quali (cioè ogni individuo) è un principio a sé. Ora, nessun individuo può essere costituito dall’unità di più sostanze prime perché in tal caso sarebbe costituito da più individui, il che sarebbe assurdo e impossibile. Ne viene di conseguenza che nessun principio può essere costituito da più principi, se “sostanza” (sostanza prima) e “principio” (principio principiato) sono equivalenti.
Di conseguenza, se Dio fosse sostanza, dovremmo concepire Dio come tutte le altre sostanze (alla pari); Aristotele dice che «nessuna sostanza è più o meno sostanza di un’altra» (v. Le Categorie, V, 2 b 25). In questo caso Dio sarebbe “individuo”, cosa tra le cose. E aggiungere – come fanno i trinitari – il termine “spirituale” al termine “sostanza” non cambierebbe il discorso.
24. Enciclopedia Garzanti di Filosofia (1993), voce “sacrificio”, Garzanti Editore Milano, CDE 1996.
25. Giulio Busi, Simboli del pensiero ebraico, Giulio Einaudi editore, Torino 1999, pag. 190.
26. Hans Küng, Credo, R.C.S. Libri (CDE), Milano 1994, pag. 66.
27. Michael Grant, San Paolo, traduzione italiana di Carlo Rossi, Bompiani editore, Milano 1997, III,2 (pag. 78).
28. Oscar Cullmann, Le Nouveau Testament, Presses Universitaires de France, Paris 1966 [Introduzione al Nuovo Testamento, traduz. italiana presso Società Editrice Il Mulino, Bologna 1968, pag. 88].
29. Gli evangeli sinottici presentano la vittoria di Cristo contro il male sotto la forma della triplice tentazione che ricalca quella a cui fu sottoposto il primo Adamo e per la quale peccò. Prima tenta-zione: a) La Donna [e con essa l’Uomo] osservò che il frutto dell’albero [proibito] era buono per nutrirsi; b) Il tentatore disse a Gesù: ordina che queste pietre diventino pane. Seconda tentazione: a) La donna osservò che il frutto dell’albero era bello da vedere; b) Il tentatore disse a Gesù: adorami ed io ti darò tutti i regni del mondo e la loro gloria. Terza tentazione: a) La donna osservò che il frutto dell’albero era desiderabile per acquistare conoscenza [e primeggiare; ovvero per essere come Dio, cioè “uguale” a lui]; b) Il tentatore disse a Gesù: se tu sei il Messia, mostra che sei protetto dagli angeli di Dio gettandoti giù dal pinnacolo del tempio.
Testi: Genesi 3,4-6; Matteo 4,1-11; Marco 1,12-13; Luca 4,1-13.
30. (Approfondimento:) Il testo di Filippesi 2,5-11 presenta almeno due problemi. 1) l’espressione «non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente». Problematica: l’essere uguale a Dio si riferisce [primo caso:] a qualcosa alla quale Cristo avrebbe potuto aspirare (ma a cui per umiltà non aspirò), oppure [secondo caso:] a qualcosa che già possedeva, alla divinità, all’essenza divina (alla quale rinunciò)? Nel primo caso, se l’essere uguale a Dio si riferisce a qualcosa alla quale avrebbe potuto aspirare, ma che per umiltà non vi aspirò, ci domandiamo: Cristo, mettendo da parte l’umiltà, avrebbe potuto effettivamente aspirare alla divinità e ottenerla? Crediamo di no! Adamo, secondo la metafora della Genesi, mettendo da parte l’umiltà, ha tentato di farlo (Gen. 3,5), ma fu scacciato dall’Eden. Cristo ha ottenuto da Dio il titolo di Signore come premio della sua umiltà e ubbidienza. E non possiamo ammettere che avendo rinunciato a ottenere la divinità fu ricompensato con il titolo di Signore, perché questo titolo, per quanto incommensurabilmente alto nel suo significato, non può essere più alto della divinità. Insomma, se per Cristo c’è una ricompensa, questa non può essere un gradino più basso di ciò a cui avrebbe rinunciato (alla divinità), perché così non si tratterebbe di una ricompensa ma di un castigo, di una retrocessione. Pertanto non è vero che ha rinunciato alla divinità; non è vero che era Dio, né ha rinunciato a diventare Dio; questa ipotesi (“si” o “no”) è completamente da escludere. Nel secondo caso, si dà per scontato che Cristo era Dio, ma il testo non lo dice, se non nelle interpretazioni frettolose e preconcette; e per di più si ammette che si possa rinunciare a l’essere divino che si possiede, o meglio: che si è. Come se l’essenza divina (ma anche l’essenza in generale) fosse un vestito (una realtà) di cui ci si possa spogliare o rivestire in senso proprio; l’essenza è la cosa stessa, in questo caso se stesso; per cui, se si ammette che Cristo è Dio, vuol dire che avrebbe rinunciato a se stesso, al suo proprio essere. E questo è impossibile.
2) L’espressione «umiliò se stesso, prendendo forma di servo». Problematica: a che cosa si allude con l’espressione “prendere forma di servo”? Secondo noi, significa che rinunciò alla gloria e alla potenza del Messia, al regno terreno, mondano, non alla divinità! La divinità – quando la si ha o si è – non è qualcosa alla quale si può rinunciare; la divinità è l’essenza divina, e l’essenza è ciò che è essenziale; appunto, è ciò che costituisce la totalità di quella persona o, più in generale, di quella cosa. Insomma, se fosse possibile rinunciare alla propria essenza per divenire un’altra essenza (in questo caso da Dio a uomo?) si potrebbe verificare una delle due seguenti possibilità: a) un “suicidio” [difficile trovare un termine adeguato]; ma questo non è possibile perché Dio è, per modo di dire, l’Immortalità fatta persona; l’immortalità è la sua natura, e sarebbe ridicolo pensare che Dio potrebbe annullare se stesso (anche se per assurdo Dio volesse morire, non potrebbe morire); c’è almeno una cosa che Dio non può fare: appunto, morire, Dio non può morire; b) una trasformazione, una meta-morfosi; ma ciò avveniva (si fa per dire) nelle religioni politeiste, oppure nelle fiabe dove un principe diviene rospo continuando ad essere la stessa persona di prima: è un concetto contro ragione. Inoltre, la trasformazione (se fosse possibile) sarebbe come morire, perché snaturerebbe la natura precedente, quella di Dio (sempre che fosse possibile), e perciò rientra nel caso precedente. Infine, un caso a parte potrebbe essere l’incarnazione, intesa come Dio che entra (?) in un corpo umano, ma questa non merita neppure di essere presa in considerazione. Insomma, per dirla in poche parole, questo discorso preso alla lettera e secondo il preconcetto trinitario, è inaccettabile perché è impossibile sia per il senso comune e sia per la razionalità che la ragione esige; non se ne trova uno simile in altre parti del N.T. ed è di sapore politeista: è sicuramente in parte adulterato da una glossa introdotta nel testo e rimescolata, o adattata, al contesto immediato (tentativo non riuscito). Ma c’è ancora un’altra osservazione. In tutto il brano il soggetto (in senso grammaticale) è Cristo Gesù: «Cristo Gesù, …essendo in forma di Dio… ecc:». Non si tratta di Dio che diviene uomo (o di qualcosa di simile) come affermano i trinitari; ma di un uomo (Cristo Gesù) che è elevato al rango di Signore. Quanto all’espressione «essendo in forma di Dio», sappiamo che significa «essendo a immagine di Dio» (come Adamo). Gesù rinuncia alla gloria e alla potenza del Messia terreno, ed è ricompensato con l’innalzamento alla destra di Dio come Signore in eterno, nei secoli dei secoli. La logica vuole che il significato originario del testo sia questo che qui ho espresso, perché la metafora dell’essere Signore alla destra di Dio esprime, ed è, molto di più che essere Messia terreno, mentre non è eguagliabile ad essere Dio; quest’ultimo paragone non sarebbe neppure da fare. Ancora una precisazione: certamente Gesù non ha fatto quello che ha fatto allo scopo di ottenere l’elevazione al rango di Signore, alla destra di Dio. Il progetto della salvezza, come tale, è interamente di Dio, nella sua “mente” e nelle sue “mani”. Dio nulla ha promesso al Messia allo scopo di incoraggiarlo a portare a termine il suo compito. Gesù ha coscienza della sua missione, era in perfetta comunione col Padre, anche se ci sono cose che sono riservate esclusivamente a Dio, che Gesù stesso non può conoscere e non conosce (Marco 13,32; Atti 1,7); ma Cristo può ben dire: Colui che crede in me, che accetta le mie parole (che provengono da Dio) mettendole in pratica, io lo risusciterò nell’ultimo giorno, per la potenza concessami da Dio. Tuttavia non aspira ad una ricompensa particolare; svolge altruisticamente il compito di salvare l’umanità con il suo esempio e di salvare ogni uomo dalla tentazione di commettere il male, comunica agli altri, e implicitamente anche a se stesso, la fede nella vita eterna, che per la grazia (per il volere) di Dio è per tutti i credenti (e per tutta l’umanità). Il suo parlare, durante la sua vita terrena, registra un tono sempre più autorevole e più esplicito, via via nel tempo, raggiungendo il massimo dopo la risurrezione, a seguito della quale (salendo al cielo, secondo la metafora) riceve la ricompensa: Dio lo accoglie alla sua destra con il titolo e il rango di Signore: «fu fatto accostare al Vegliardo» (Daniele 7,13), che è una ricompensa alla quale Gesù stesso non pensava. Da lì (dalla destra di Dio) egli guida l’Assemblea dei credenti, e lo fa non più con la forza della fede come faceva quando predicava per le contrade della Palestina, ma con la potenza dello Spirito (Giovanni 16,7-14) che viene dalla realtà personale nella quale si trova: è il Risorto.
31. (Approfondimento:) Colgo l’occasione del battesimo dei bambini per includere qui, in queste note, un mio articolo nel quale parlo del battesimo; che tuttavia tratto soltanto di sfuggita, perché l’argomento principale è la formula cosiddetta trinitaria”.
Testi trinitari “apocrifi” e formule battesimali: Mt. 28,19.
Il testo di Matteo 28,19 è una formula battesimale molto discussa e spesso contestata. Lo storico Marcel Simon afferma: «Non è possibile credere al passo finale di Matteo, in cui Gesù ordina ai propri discepoli di battezzare tutte le nazioni in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Questa formula trinitaria, inattesa nella sua bocca, è in realtà totalmente ignorata dalla generazione apostolica» (I primi cristiani, Garzanti editore, Milano 1958). L’interpretazione trinitaria di questo testo è basata sulla congiunzione “e”; la quale, pur distinguendo le tre “persone” (diciamo “tre” ammesso che lo Spirito si debba considerare una persona), allo stesso tempo le includerebbe in un solo nome (sottinteso? quale?). Vediamo il testo:
πορευθέντεϛ οὖν μαθητεύσατε πάντα τὰ ἔθνη, βαπτίζοντεϛ αὐτοὺϛ εἰϛ τὸ ὄνομα τοῦ πατρὸϛ καὶ τοῦ υἱοῦ καὶ τοῦ ἁγίου πνεύματοϛ…
letteralmente: andate dunque, ammaestrate tutti i popoli, battezzandoli nel nome del padre e del figlio e dello spirito santo...
La “sottigliezza” alla quale i trinitari si appigliano è la seguente: Il nome [singolare e unico] a cui la formula battesimale si riferirebbe, è il nome di Dio [“Jhwh” o semplicemente “Dio” ?], e questo nome sarebbe sia del Padre, sia del Figlio, sia dello Spirito Santo, accomunati nella stessa formula, quindi tutte e tre le “persone” sarebbero Dio [un unico Dio?] dato che il nome di una cosa (a prescindere se si tratta di una persona o no) indica la sua essenza. Il testo infatti – dicono i trinitari – non dà l’ordine di battezzare nei nomi... (al plurale), bensì nel nome... (al singolare)→ [vedi: Catechismo della Chiesa Cattolica (romana): Art. 233]. Sennonché il testo non dice affatto questo, e non usa esplicitamente il corrispondente greco del termine italiano “sia” (e se per ipotesi lo usasse, si rafforzerebbe la nostra interpretazione), usa invece la congiunzione “e. Del resto, in frasi di questo genere, in italiano (ma anche in altre lingue), non si direbbe mai «nei nomi». Un ipotetico lettore, anche attento ma privo di pregiudizi, che fosse all’oscuro dei problemi teologici che si dibattono su questo testo, lo comprenderebbe per quello che effettivamente dice; che cioè il battesimo va impartito sia nel nome del Padre, che in quello del Figlio, come in quello dello Spirito Santo; senza per questo dedurre che i tre sono un solo Dio. La congiunzione “e”, infatti, dato che ovviamente i nomi che congiunge sono diversi non può significare che tutte e tre le “persone” hanno in comune un nome unico (Dio) che indicherebbe identità di natura, o che in ogni modo siano una stessa cosa; ma al contrario distingue, implicitamente separa, dice che il battesimo va impartito nel nome di tutte e tre le “persone”, e almeno nella lingua italiana, questo significa “per ciascuna nel suo proprio nome”, nei loro tre rispettivi nomi, altrimenti non si capirebbe perché il testo usa i termini padre, figlio, spirito, cioè tre nomi che letteralmente indicano tre “persone”, vale a dire tre essenze. Quando dice “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, sta dicendo nel nome [nei nomi] di tutti e tre, per ciascuna “persona” il suo (così è nella lingua italiana!), e sarebbe grammaticalmente, se non sbagliato, certamente inusitato e pleonastico dire nei nomi (al plurale) del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo; per di più così potrebbe risultare che ciascuna delle tre persone avrebbe più di un nome. La congiunzione “e” (…e del Padre; e del Figlio; e dello Spirito) non unisce (implicitamente) i tre nomi delle tre persone in un solo nome; anzi li separa ognuno dall’altro indicando l’essenza di ciascuno, scandendoli, e stabilendo implicitamente che la formula deve contenerli tutti e tre, altrimenti sarebbe bastato dire “nel nome di Dio”. Perciò ogni altra interpretazione basata sul nome o sui nomi è priva di fondamento perché, se non altro, l’espressione è ambigua. Non per niente la maggior parte dei traduttori omette le congiunzioni “e” (kaì) sostituendole con le virgole. Così la traduzione Nuova riveduta taglia corto: «Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (ovviamente ciascuno col suo proprio esclusivo nome, quindi ciascuno con la propria esclusiva “natura”). Questo discorso, che è in corretto italiano, si potrebbe esprimere in parole povere come segue: nel nome del Padre, nel nome del Figlio e nel nome dello Spirito Santo. Ma volendo scrivere in modo più corretto, o più snello, si usa omettere la ripetizione dell’espressione “nel nome di”; basta la prima volta, e mai si potrebbe esprimere usando l’espressione “nei nomi” (al plurale) perché non sarebbe corretto. Certamente ci si può chiedere: se l’autore del testo avesse avuto in animo di esprimere propriamente un concetto trinitario, come avrebbe dovuto dire? Il concetto trinitario non appartiene al modo comune di pensare, che si possa esprimere con il comune linguaggio (tanto meno con quello biblico); esso appartiene al linguaggio filosofico, tecnico, che hanno forgiato gli stessi trinitari secoli dopo la redazione del Nuovo Testamento. Talché non possiamo ammettere in Matteo, né tanto meno in Gesù Cristo, una simile possibilità. Sicuramente Cristo non ha pronunciato la frase “... nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo”, sia pur e ovviamente nel corrispondente aramaico. Se dal punto di vista grammaticale i trinitari avessero ragione; se in questo testo il nome per il quale si impartisce il battesimo fosse un nome unico e sottinteso di tutte e tre le “persone”, potremmo concludere, senza ombra di dubbio, che il testo non sia autentico. Infatti, in questo caso rivelerebbe una tale sottigliezza di contenuto e una tale capziosità anacronistica, nella forma, da aumentare i sospetti circa la sua autenticità. Noi invece sosteniamo che in questo testo non c’è un nome unico e sottinteso, bensì tre nomi espressi (e quindi tre “persone” distinte e separate); questo è fuori dubbio. È evidente che si tratta di una aggiunta o di una manipolazione maldestra, quanto ingenua, di un trinitario in buona fede troppo zelante. Se poi si vuole affermare che ci sbagliamo, che il testo nonostante tutto è autentico (e non abbiamo difficoltà a concederlo), allora dobbiamo accettare l’interpretazione più ovvia, quella che tiene conto del fatto che, in varie lingue e in ogni caso, la congiunzione “e” serve ad unire o congiungere ciò che nella realtà è sostanzialmente (sostanzialmente!) separato: per cui il Padre, il Figlio, lo Spirito sono diversi, non sono uguali; non sono la stessa cosa, perché sono uniti nello stesso discorso dalla congiunzione “e”. Matteo 28,19 dice che il battesimo va impartito nel nome del Padre (il solo vero Dio: Giov. 17,3), nel nome del Figlio (cioè del Messia), nel nome dello Spirito (cioè dell’Agente divino, della Dýnamis, del Vento di Dio); vale a dire di ciascuno dei tre menzionati, ognuno tautologica-mente con il proprio esclusivo nome, e quindi si tratta propria-mente di tre essenzialmente separati: il Padre, il Messia, e il santo Ruah o Pneuma. Colui che salva è Dio (il Padre, il quale ha così deciso sovranamente); ma salva per mezzo del Figlio (il Messia elevato al rango e alla natura di Signore) e grazie all’illuminazione dello Spirito, strumento creatore e santificatore, immanente nell’uomo. Il fatto, dunque, che i tre nomi stiano accomunati in un’unica formula non ci autorizza affatto a dedurre alcunché di trinitario. Del resto, ognuno dei tre sta nell’ordine gerarchico che gli compete. Solo il Padre è Dio (Giov. 17,3), e perciò nella formula precede il Figlio e lo Spirito; il Figlio è il Salvatore, colui a cui Dio ha dato ogni potestà (ma non è Dio); mentre lo Spirito è lo strumento di Dio, che opera anche e specialmente in Cristo e per Cristo: il Messia è ripieno di Spirito. Non ci sono appoggi trinitari nella Sacra Scrittura! Affermare che in questa formula battesimale ci sia quella “finezza” filosofica e teologica che vorrebbero i trinitari, significa perdere il senso della misura: ignorare il contesto culturale, dottrinale e storico nel quale sorse la fede cristiana e nel quale furono redatti gli scritti neotestamentari; nonché il corretto senso letterale del testo in questione. Gli storici affermano che certamente non c’è l’idea trinitaria nel cristianesimo primitivo. Dice Simon che nel Nuovo Testamento «La loro cristologia (dei primi cristiani) non intacca ancora lo stretto monoteismo israelita...»; essi sono lontani dall’identificare il loro Maestro con Dio (op. cit.).
Fin qui, in questo breve trattato, abbiamo esaminato la formula battesimale di Matteo 28,19 al fine di discutere il tema “Trinità o non Trinità”, sotto tre principali aspetti: 1) riguardo all’autenticità; 2) mettendo la virgola al posto della congiunzione “e”; oppure, al contrario, 3) esaltando il valore grammaticale proprio della congiunzione “e”. Ne è risultato che, da qualsiasi angolazione si possa esaminare il testo, non si trova in esso alcuna affermazione trinitaria. E, in via subordinata, qualora vi fosse una implicazione trinitaria, bisognerebbe concludere che proprio e soprattutto per questo il testo non sarebbe autentico, perché apparterrebbe certamente ad un’epoca posteriore, più o meno lontana o più o meno vicina alla redazione di Matteo, cioè ad un’epoca in cui cominciava a farsi strada l’idea trinitaria e si sentiva l’esigenza di trovare un appoggio nei vangeli e negli altri scritti cristiani che già circolavano nelle comunità, appoggio che non esisteva (e non esiste).
Ma allora, se non si può essere certi dell’autenticità del testo, qual è la vera formula del battesimo (che qui ci interessa anche ai fini trinitari)? Il Conzelmann, come altri autori, ammette che anticamente il battesimo era impartito nel nome di Gesù, e ciò perfino nel primo periodo del cristianesimo ellenistico (cfr. Hans Conzelmann, Le origini del cristianesimo, Editrice Claudiana, Torino 1976). Il nostro discorso prosegue su questa strada. «Qualunque cosa facciate, in parola o in opera, fate ogni cosa nel nome del Signor Gesù, rendendo grazie a Dio, il Padre, per mezzo di lui» (Col. 3,17).
È ovvio pensare che la formula battesimale dovesse avere (almeno agli inizi) una qualche analogia, o un qualche legame, con la confessione di fede richiesta al battezzando. Secondo noi (e prima di noi secondo autorevolissimi critici ed esegeti) la più antica confessione di fede, o una delle più antiche, è la seguente: Io credo che Gesù [detto] Cristo è il Figliuol di Dio. Questo testo è contenuto al v. 37 del cap. 8 degli Atti che racconta l’episodio della conversione e del battesimo dell’etiope. Molti contestano l’autenticità del v. 37 (e quindi della confessione di fede) perché manca in molti importanti manoscritti. Ma è presente nel testo occidentale. Certamente quando il vers. 37 ci dice che l’etiope confessa che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, è come se avesse detto che Gesù Cristo è Cristo, dato che il termine “cristo” e l’espressione “figlio di dio” sono sinonimi (Cfr. il mio L’Ultimo Adamo e la relativa bibliografia). Indubbiamente il termine divenne presto un secondo nome proprio di Gesù (già nel Nuovo Testamento); ma è anche vero che la confessione rassomiglia molto all’espressione apocrifa di Marco 1,1 («Principio dell’evangelo di Gesù Cristo, Figliuolo di Dio») dove si direbbe, appunto, “Principio dell’evangelo di Gesù Cristo, Cristo”, e secondo noi anche per questo la confessione di fede attribuita all’etiope in Atti 8,37 può essere sospettata di inautenticità. Il testo è omesso in alcune recenti edizioni della Bibbia; si passa dal v. 36 direttamente al v. 38. Si può leggere nella traduzione di Giovanni Diodati, per esempio nell’edizione della S.B.B.F., Roma 1946. Resta il fatto che anche se siamo di fronte ad un’aggiunta di un copista, l’espressione appartiene ad un’epoca molto vicina alla redazione degli Atti ed è sostanzialmente conforme a tutto il Nuovo Testamento; perciò è verosimile in se stessa e non fa a pugni con il contesto, né immediato né più ampio. Echeggia sostanzialmente (non nella forma) il contenuto del versetto che troviamo all’inizio dell’epistola ai Romani: «[Gesù Cristo nostro Signore]… dichiarato Figliuolo di Dio con potenza secondo lo spirito di santità mediante la sua risurrezione dai morti» (1,4), che è certamente la formula più antica. Inoltre, se il copista ha fatto questa aggiunta, evidentemente questa era la confessione di fede richiesta ai battezzandi in quel momento. Il Cullmann la ammette come autentica, al punto che ipotizza che dai manoscritti nei quali il v. 37 è assente, potrebbe essere stata tolta perché non conforme alle altre confessioni di fede che intanto si erano, successivamente, affermate al di fuori del Nuovo Testamento (cfr. Oscar Cullmann, Le prime confessioni di fede cristiane, Centro Evangelico di Cultura, Roma 1948, pag. 18 nota compresa; Il battesimo dei bambini e la dottrina biblica del battesimo, in: Dalle fonti dell’Evangelo alla teologia cristiana, Editrice A.V.E., Roma 1971, pag. 183 ss. [Appendice]).
Se la formula battesimale deve avere una analogia o un legame con la confessione di fede richiesta al battezzando, e se la confessione di fede è quella che afferma Gesù essere Figlio di Dio (cioè il Messia), allora la formula battesimale doveva significare che il battesimo si impartiva nel nome di Gesù Messia (in greco Cristo), o nell’equivalente Gesù Figlio di Dio. Dovremmo perciò trovare questa formula nel Nuovo Testamento; e se c’è, questa è la più antica, che è anche autentica. Già in Luca, l’evangelista riferisce che il Risorto profetizzava che le persone sarebbero state esortate al ravvedimento e che si sarebbe predicato il perdono dei peccati nel nome di Gesù Cristo, nel suo nome appunto (24,47). Infatti, in tutto il Nuovo Testamento, e soprattutto negli Atti, è evidente che tra i primi cristiani ogni azione (compreso il battesimo) era fatta o detta o annunciata o progettata o realizzata nel nome di Gesù Cristo. Citare i testi qui (oltre a quelli già citati) significherebbe trascrivere buona parte del Nuovo Testamento: tutta la vita cristiana, e non solo la liturgia (se così può definirsi), era improntata alla invocazione del nome di Gesù. Il lettore può rintracciare da sé i testi, eventualmente con l’aiuto di una chiave biblica; a noi basta ricordarne ancora uno: «Pietro disse loro: Ravvedetevi, e ciascun di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo...» (Atti 2,38). Questa è la vera formula del battesimo, e con i testi alla mano e con un minimo di intuito si può ricostruire come segue. Il battezzatore, rivolto al battezzando, chiedeva: Credi tu in Gesù? Il battezzando rispondeva: Io credo che Gesù è il Figlio di Dio [il Cristo, il Messia]. Allora il battezzatore procedeva: Io ti battezzo nel nome di Gesù Cristo; e lo immergeva nell’acqua. Questa formula si accorda con gli avvenimenti, in generale, narrati nel Nuovo Testamento, perciò è assai credibile, e sicuramente verosimile, che l’etiope abbia confessato: «Io credo che Gesù è il Figliuolo di Dio» (dove “Figliuolo di Dio” equivale a “Messia”, in greco “Cristo”). E se questa è la confessione di fede, come noi sosteniamo, non ci sembra che possa avere avuto (o avere, oggi) un legame con la formula battesimale apocrifa, unica e sola, che inserisce di punto in bianco, come un meteorite caduto dal cielo, il Padre, il Figlio e lo Spirito in una stessa formula. Quest’ultima ci avverte soltanto di un fatto: che il copista che l’ha inserita è idealmente un reduce ante litteram della vittoria militare dei trinitari sugli ariani, di una minoranza alleata del potere politico-militare sulla maggioranza dei credenti. L’interpretazione trinitaria del testo in questione non è “biblica” ma politica. È il segno storico – ancora oggi – dell’alleanza del potere religioso con quello politico. La formula apocrifa “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, non soltanto non trova nessun appoggio nella Sacra Scrittura, né letterale né parallelo e neppure vagamente sostanziale, ma risulta anche un corpo estraneo nella teologia del Nuovo Testamento. Mentre la formula battesimale «Nel nome di Gesù Messia» è storicamente legata alla dichiarazione di fede del battezzando: «Io credo che Gesù è il Messia». Il filosofo e teologo John Locke ha dimostrato con una copiosa documentazione biblica che la predicazione dell’evangelo, nel primo cristianesimo, aveva come centro e scopo, convincere Ebrei e Gentili che Gesù di Nazareth è il Messia. E la stessa cosa hanno scritto molti autori moderni e contemporanei. Del resto, in Atti 9,22 leggiamo: «Saulo si fortificava sempre di più e confondeva i Giudei residenti a Damasco, dimostrando che Gesù è il Messia». E Filippo spiega all’etiope un passo messianico di Isaia [53,7-8], per dimostrare che il Messia di cui parla il profeta è venuto, e che è Gesù. Perciò la confessione di fede dell’etiope (Atti 8,37) è la logica conseguenza di questo discorso sul Messia: «Io credo che Gesù è il Figliuolo di Dio [cioè il Messia]». Cullmann afferma: Il problema formale della confessione di fede va risolto nella direzione dell’analoga formula battesimale (e viceversa), cioè del nome invocato sul battezzato; «In un solo testo (Matt. 28,19), tale nome è quello della Trinità [?!]; in tutti gli altri è quello del Cristo (Gal. 3,27; I Cor. 1,13; Atti 2,38; 8,16; 10,48; 19,5)» (Op. cit., p. 33). I testi citati dal Cullmann (che pure è un sostenitore della dottrina trinitaria) non lasciano alcuna incertezza: il battesimo era impartito nel nome di Gesù (e non nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo). Pertanto noi possiamo concludere che l’unico testo cosiddetto trinitario non è valido a dimostrare che la “fede trinitaria” era presente nella chiesa primitiva del Nuovo Testamento. L’argomento si può sintetizzare con le seguenti parole dell’apostolo Paolo: «Per noi [cristiani] c’è un Dio solo, il Padre, dal quale sono tutte le cosee un solo Signore, Gesù Cristo» (1 Cor. 8,6).
32. Catechismo, opera citata, 252 – 254, pag. 80/81.
33. Catechismo, 253, pag. 81.
43. Enciclopedia Garzanti di Filosofia, op. cit., voce “sacrificio”.
35. Cfr. Matteo Manzella, L’Ultimo Adamo, Leberit – Roma 2004.
36. Matteo Manzella, Tu sei Pietro.
37. Alfred Loisy, Naissance du Christianisme, 1933 [traduz. italiana presso Giulio Einaudi editore, Le origini del Cristianesimo, Torino 1942, pag. 293 e pag. 320.
38. Rudolf Bultmann, Il cristianesimo primitivo nel quadro delle religioni antiche (traduz. di L. Zagari), Garzanti Editore, Milano 1964, pag. 198.
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