martedì 16 novembre 2010

SULL'AUTENTICITA' DI MATTEO CAPITOLO 16

Un capitolo del libro “Tu sei Pietro”, di Matteo Manzella
(ALL RIGHTS RESERVED - COPYRIGHT 2008 BY MATTEO MANZELLA – ROMA)

CAPITOLO TERZO.
SULL’AUTENTICITA’ DI MT. 16. OVVERO: CRITICA DEL TESTO.

Il problema.

Quando, spogliandoci di ogni preconcetto e di ogni convinzione di fede, cominciamo ad esaminare il testo di Mt. 16 dal punto di vista storico, meglio ancora dal problema dell’autenticità, anche prescindendo dall’identità dell’autore, ci imbattiamo subito in numerose difficoltà che ci costringono a focalizzare l’attenzione soltanto sui punti e sulle questioni essenziali sufficienti a determinare il giudizio di autenticità o di inautenticità. Faremo questo. In ogni caso, qui mettiamo da parte il metodo e i presupposti di cui fin qui ci siamo serviti, nonché tutto ciò che abbiamo puntualizzato, e finanche le conclusioni a cui siamo giunti, ovviamente sempre dal nostro punto di vista, per passare a verificare l’autenticità del testo che avevamo accettato come autentico.
Vi sono motivi di vario genere. Alcuni di ordine psicologico o intuitivo, altri chiaramente di ordine oggettivo, o quasi. Per gli uni e per gli altri è necessario un impegno che ci porti a unificare i vari punti in un tutto logico e conclusivo.
Per primo il motivo psicologico. Chiunque abbia un bagaglio, anche minimo, di studi neotestamentari e l’abitudine coltivata almeno per un certo tempo a leggere il N.T., rimane quanto meno perplesso alla lettura di questo brano di Matteo, se è animato da spirito indipendente. Per un lettore consumato degli evangeli, è inverosimile che qui, in Mt. 16, Gesù chieda ai suoi discepoli delle informazioni su chi o che cosa sia il Figliuolo dell’Uomo, anche se vogliamo considerare retoriche quelle domande del Maestro. Si ha l’impressione che l’autore del Vangelo, o almeno del brano in questione o di chi avrebbe operato l’aggiunta (se di questo si tratta), per un suo particolare motivo (quale?) abbia voluto trovare un pretesto per inserire lì, artificiosamente, un discorso di Gesù di Nazareth che stentiamo a credere che sia stato pronunciato proprio da Gesù. Ci domandiamo: perché l’autore ci racconta (v. 13), quasi con l’aria di non curanza, come per caso, che in quella occasione Gesù e i discepoli si trovavano a Cesarea di Filippo? Che anche gli altri evangelisti facciano più o meno la stessa cosa, non muta la nostra domanda. Cosa importa al lettore (o ai posteri) il luogo geografico nel quale si trovavano in quella circostanza, salvo che il discorso non abbia per oggetto quel luogo stesso? In questo caso non c’è nessuna relazione tra il luogo e il tema del discorso. È evidente che qui l’autore cita un riscontro storico-temporale che sembra motivato dall’esigenza di dare o di aggiungere credibilità al racconto; come se volesse mettere le mani avanti per prevenire ogni abiezione (“ricordo bene, non mi sbaglio, eravamo a Cesarea di Filippo…”). Si dirà: erano in un luogo come in un altro; quel discorso, quelle parole, Gesù le avrebbe potuto dire in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento, e le ha dette lì per caso. Tuttavia, di questo non ne siamo molto convinti. Vero è che a detta di molti studiosi e di molti commentatori il Vangelo di Matteo sarebbe una raccolta dei detti e dei discorsi di Gesù che l’evangelista avrebbe raccolto e sistemato in un unico “libro” secondo un suo punto di vista o secondo i suoi ricordi, e citare luoghi e circostanze potrebbe servire a collegare in qualche modo i vari episodi.
Ma se si leggono i brani precedenti e i brani seguenti si ha comunque la sensazione (solo una sensazione, ma chiara e forte) che questo brano sia proprio fuori posto, messo lì come di qualcosa di estraneo al quale per altro si vuole assegnare il crisma dell’autenticità. E che dire del Maestro che si informa dai suoi scolari? Perché Cristo ha bisogno di udire nuovamente dai suoi discepoli ch’essi credono che egli è il Messia, il Figliuolo dell’Uomo? Questa professione di fede ciascuno dei discepoli l’aveva già espressa (vuoi mentalmente vuoi esplicitamente, non importa; comunque per convinzione) al momento in cui aveva accettato di seguire Gesù; e non aveva mai avuto il divieto del Maestro di «dire ad alcuno ch’egli era il Cristo». La sequela di Cristo ha come presupposto essenziale che il seguace di Gesù abbia ovviamente riconosciuto il Maestro come Messia. Così è infatti.
Ci sono alcuni versetti dei vangeli dai quali apprendiamo che i seguaci di Gesù (coloro che lo seguivano, sia in senso letterale, sia in senso metaforico) lo seguivano perché lo avevano accettato come Figlio di Dio, cioè come Messia, per esplicito o per implicito; e spesso è Gesù stesso che esorta i credenti a seguirlo. Ne citiamo tre: Giovanni 1,41: «Andrea pel primo trovò il proprio fratello Simone [Pietro] e gli disse: Abbiamo trovato il Messia (che, interpretato, vuol dire: Cristo) e lo condusse da Gesù». Marco 1,17-18: «Gesù disse loro [a Simone e Andrea]: “Seguitemi, e io farò di voi dei pescatori di uomini”. Essi lasciate subito le reti lo seguirono». Giovanni 1,45,49: «Filippo trovò Natanaele, e gli disse: Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella legge ed i profeti: Gesù figliuolo di Giuseppe, da Nazareth… Natanaele [disse a Gesù]: Maestro, tu sei il Figliuolo di Dio, tu sei il Re d’Israele».
La considerazione fin qui fatta è di ordine psicologico e perciò è in buona parte soggettiva, e tuttavia sembra indicarci una meta. Passiamo allora ad altre considerazioni che ci avviano ulteriormente verso una più sicura obiettività e in seguito verso una conclusione oggettiva. Lo faremo consultando in special modo i quattro vangeli, soprattutto i sinottici, perché la “confessione di Pietro” (e degli Apostoli) la troviamo anche negli altri vangeli, ma è assai diversa, ed anche più breve, rispetto a quella contenuta nel vangelo di Matteo.

1. Quale concezione della Chiesa troviamo in Matteo 16?
Il termine chiesa (ἐκκλησία, assemblea) negli evangeli si trova tre volte, e tutte e tre in Matteo e in due sole occasioni: in 16,18 e in 18,17. Gli altri evangeli ignorano il termine. Ora considerando che il secondo luogo (18,17) sicuramente si riferisce alla chiesa già fondata, sorretta da una organizzazione sia pur minima, certamente quelle parole non furono pronunciate da Gesù, e il testo emana un forte odore di interpolazione; in via subordinata dobbiamo ammettere almeno che ha subìto una modifica da parte di uno o più copisti. Il suo parallelo di Luca 17,3 (certamente più antico) non parla affatto di “chiesa”. Per questo motivo il secondo testo di Matteo non può prendersi a sostegno dell’esistenza di una chiesa ai tempi della predicazione di Gesù, né tanto meno per ricavare una definizione della chiesa del Cristo o per stabilirne una chiara connotazione. In definitiva il termine, nei quattro vangeli, si trova una sola volta, nella quale però Gesù afferma che fonderà la sua chiesa, mentre non si può dedurre che l’abbia fondata; se lo ha fatto, non lo ha fatto in quel momento. La chiesa non è stata fondata a Cesarea di Filippo. Tutto questo ci mette di già in guardia, ci invita ad approfondire l’argomento. Com’è possibile che ciò che oggi costituisce la “forma” fondamentale del Cristianesimo sia pressoché assente dagli evangeli?
Ci domandiamo pertanto: qual è il significato del termine “ẻkklēsía”? Con questa parola, nelle colonie greche dell’Asia Minore (VII sec. a.C.) e nella stessa Grecia (VI sec.), si indicava l’assemblea del popolo, il δῆμος [il popolo che agisce congiuntamente]. Il significato originario pertanto è politico, indicava l’organo deliberativo in una democrazia. Ora, sebbene questo significato abbia qualche analogia (sia pur alla lontana) con le sinagoghe dell’età apostolica, e queste a loro volta qualche analogia (ugualmente alla lontana) con la chiesa come noi la pensiamo oggi, sicuramente il termine “ẻkklēsía” che troviamo in Mt. 16 non può avere formalmente lo stesso identico significato che aveva nell’antica Grecia, né tanto meno esattamente quello che ha per i cristiani di oggi. L’ẻkklēsía, qui (in Mt. 16), ma anche in altri ambiti delle origini cristiane, a partire dal N.T., non è la sinagoga, non è l’assemblea del popolo dell’antica Grecia, non è la chiesa di oggi (o le chiese, le confessioni, le denominazioni), e soprattutto non corrisponde alla concezione che se ne ha nella teologia cattolica romana per la quale a noi ci risulta diversa.
Gesù e gli apostoli parlavano aramaico e non greco. Ora sembra provato che è possibile che Gesù abbia pronunciato in aramaico un termine in qualche misura equivalente al termine assemblea. Affermazione che ci sentiamo di condividere. Per il significato nell’ambito delle origini cristiane in generale, il termine non fu ricavato direttamente dalla democrazia greca, ma dall’Antico Testamento nella traduzione greca detta dei LXX, dove leggiamo l’espressione: assemblea [congregazione, adunanza] «del Signore» (Deut. 9,10; 18,16; 23,2 ss.; 1 Re 8,65; Mich. 2,5); e dove «Signore» è sostitutivo del nome di Dio [JHWH] la cui pronuncia potrebbe essere sia Jheovah (o Geova) e sia Yahweh (o Iahvéh) a seconda della scuola di appartenenza dei biblisti che ce la propongono: quella di origine tedesca che ha scelto soprattutto Jheovah, e quella di origine statunitense che ha scelto soprattutto Yahweh. In ogni caso, sia per Gesù che per gli altri ambiti del N.T., il concetto di popolo (almeno questo, ma qui “popolo di Dio”) è contenuto in ogni accezione del termine “chiesa”, e risale implicitamente alla cultura dell’antica Grecia.
Che cosa, dunque, si proponeva Cristo di fondare o di radunare, più precisamente? Il popolo di Dio? C’era già. Il popolo di Israele era il popolo di Dio. Se ci riferiamo alla lingua di Gesù, è quasi sicuro ch’egli abbia parlato di Keništaʹ, che è un termine che indica sia una comunità giudaica locale, e sia il “resto messianico”, nel senso del «resto messianico d’Israele» al quale, secondo la tradizione ebraica, si unirebbero anche i pagani. Insomma, quando Gesù parla di “chiesa” sta parlando del resto messianico, che non ha nulla a che vedere con la chiesa come la intendiamo oggi. Tuttavia, anche se il concetto di Keništaʹ non ha quasi nulla della chiesa di oggi, possiamo ammettere ch’esso possa rappresentare un inizio, un principio che attende dei legittimi sviluppi, cosa che prenderà il via alla risurrezione di Cristo; e saranno sviluppi (anche quelli!) che poco avranno a che vedere con la concezione della chiesa che si è andata determinando pressappoco dalla seconda metà del primo secolo e in quelli successivi; e soprattutto nulla hanno a che vedere con i pretesi “sviluppi” che troviamo oggi nella teologia cattolica romana. Il resto messianico è il popolo del Messia, ed il Messia è Gesù di Nazareth. Perciò il “resto” di cui egli parla è il “suo resto”, «la mia chiesa». E perciò era naturale che alla risurrezione del Messia subentrasse una più numerosa e più chiara realtà della Keništaʹ di Gesù, che questa prendesse coscienza di sé e dei suoi compiti e provvedesse quindi a darsi un minimo di organizzazione che fosse conforme ai principi della predicazione di Cristo. Così è stato. Ma, tuttavia, siamo ancora lontani, anzi lontanissimi, dalla concezione di “chiesa” che abbiamo oggi.
Inoltre, il concetto di “resto messianico” nel linguaggio di Gesù, nei vangeli, ha il suo equivalente nell’altra espressione da lui adoperata, dove la parola “resto” richiama alla mente la parola “piccolo”: è l’espressione “piccolo gregge” o semplicemente “il gregge”. E quest’ultima ci sembra la metafora più adatta a connotare l’idea nazarena di chiesa, o meglio di Keništaʹ: Matteo 26,23; Luca 12,32, ecc. Il “gregge” è il «popolo (o l’assemblea) di Dio».
Questa metafora, o questo concetto forte e ricco di varie implicazioni, determinerà l’ufficio più importante nello “sviluppo” della chiesa a partire dalla risurrezione di Cristo, o poco dopo: è il “ministero” di vescovo (pastore = ποιμαίνω, pastore di pecore, colui che ha cura del gregge ) che i credenti della chiesa primitiva istituiranno a sostegno delle comunità cristiane accanto a quello di “presbýtero” (anziano), facendone derivare l’idea, a ragione, da Cristo stesso.
Ma si badi bene: il vescovo, il pastore (il guardiano e protettore del gregge), è generalmente un successore cronologico degli Apostoli, ma non lo è propriamente nel senso affermato dalla teologia cattolica romana; può ereditare dagli Apostoli il carisma (come i presbiteri) ma non può ereditare la funzione di fondatore della Chiesa con Cristo e di testimone oculare ed auricolare. La funzione propria degli Apostoli cessa con la morte degli Apostoli stessi (cfr. cap. II). Il pastore non è neppure un sacerdote (o almeno non lo era inizialmente, e per un bel po’ di tempo): non ci sono sacerdoti nella chiesa di Dio, tranne Cristo. Forse, inizialmente, qualcuno dei pastori apparteneva alla cerchia di coloro che, come Mattia, avevano visto e udito. Ma gli altri, nel tempo, fino ad oggi, non hanno né visto né udito: non sono Apostoli.
Alle origini, il pastore (o vescovo) è l’emanazione della chiesa locale, quella di cui è guardiano; la quale è il corpo di Cristo, come lo è la chiesa universale. Il pastore è l’espressione della fede dei credenti guidati dallo spirito di Cristo. Non è il pastore a dare realtà e legittimità alla chiesa; al contrario, è la chiesa guidata dallo Spirito a legittimare il pastore. I credenti, riuniti in Assemblea, dal basso, possono destituire il pastore se diviene indegno.
Per questo in molte confessioni protestanti di ieri e di oggi il pastore è eletto dalla chiesa locale, ne è l’espressione, ma allo stesso tempo è il guardiano di quella fede che la chiesa esprime. Non è il rappresentante di Cristo (o almeno non lo è più di quanto lo siano gli altri cristiani), ma della chiesa nel suo insieme, che è il corpo di Cristo. Comunque sia, ritornando al nostro discorso, poiché Gesù parla di “piccolo gregge” se ne deduce che deve esserci un pastore: Gesù è il Pastore; ma non un pastore eletto dalla Chiesa, bensì il Sommo Pastore come pietra angolare: il fondamento (1 Pietro 5,4; Efes. 2,20).
Se Cristo ci dice che la Keništaʹ è “gregge”, allora il Capo della Keništaʹ è “pastore”: Cristo è il Buon Pastore, Colui che mette la sua vita per le pecore, il Capo della Chiesa (Giov. Cap. 10; Ebr. 13,20; ecc.; Efesi 1,22; Col. 1,18; ecc.). Oggi diciamo, giustamente, che la chiesa prende corpo da Cristo, e il pastore della comunità locale prende corpo dalla chiesa locale. Così il conduttore della comunità locale, che nella chiesa primitiva [ma anche oggi, nelle chiese che si rifanno alla Riforma] prendeva di più da Cristo, era il pastore, il guardiano del “gregge”. È chiaro che tra le parole di Gesù in Mt. 16, sulla base di quanto abbiamo detto, si sono introdotte degli elementi estranei: parole che Cristo non ha pronunciato e che gli sono state attribuite col senno di poi. Qui non staremo a spaccare il capello per distinguere esattamente, ammesso che fosse possibile, quelle pronunciate da Gesù da quelle che gli sono state attribuite. Ma cercheremo di cogliere il senso complessivo del suo discorso (ovviamente in italiano), depurato secondo il nostro punto di vista dalle aggiunte dei copisti desiderosi di mettere in bocca a Cristo le loro personali idee.
«Gesù chiese ai suoi discepoli di dire esplicitamente chi credevano ch’egli fosse. Simon Pietro rispondendo disse: Tu sei il Messia, il Figliuolo del Dio vivente. E Gesù, replicando, gli disse: Tu sei beato, o Simone, figliuolo di Giona, perché non la carne e il sangue t’hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli. Su questa professione di fede, tua e degli altri credenti, che è forte come un macigno, come una roccia imbattibile e che tale ti rende, io edificherò la mia assemblea (la mia Keništaʹ) e le porte dell’Ades non la potranno abbattere, come la tempesta non può abbattere una casa sulla roccia. Poi rivolto a tutti i suoi discepoli, aggiunse: non dite ad alcuno che io sono il Messia; dovrò andare a Gerusalemme, a soffrire molte cose dagli anziani, dai capi sacerdoti e dagli scribi, ed essere ucciso, e risuscitare il terzo giorno. E Pietro: questo non ti accadrà mai. E Gesù: Vattene via da me, Satana, tu mi sei di scandalo; non hai il senso delle cose di Dio ma delle cose degli uomini».
Originariamente il testo di Mt. 16 era così? Non sappiamo. Forse era anche molto più breve. Ma è evidente che in questa forma rappresenta una ipotesi accettabile o quasi, specialmente alla luce di quanto abbiamo detto. Mentre nella forma in cui si trova in Matteo, è assolutamente incredibile, anche per l’occhio di un profano. Vediamo allora perché, secondo noi, non sono accettabili quelle parti di Matteo che qui sopra abbiamo omesso, e quelle che abbiamo modificato.

2. Confronto del testo di Matteo con i testi di Marco, Luca e Giovanni.
Vediamo prima di tutto che cosa dicono gli altri due sinottici e il “quarto” vangelo.
a) Marco 8,27-33: «Poi Gesù, coi suoi discepoli se ne andò verso le borgate di Cesarea di Filippo; e cammin facendo domandò ai suoi discepoli: Chi dice la gente ch’io sia? Ed essi risposero: Gli uni, Giovanni Battista; altri, Elia; ed altri, uno dei profeti. Ed egli domandò loro: E voi, chi dite ch’io sia? E Pietro rispose: Tu sei il Cristo. Ed egli vietò loro severamente di dire ciò di lui ad alcuno. Poi cominciò ad insegnar loro ch’era necessario che il Figliuolo dell’uomo soffrisse molte cose, e fosse reietto dagli anziani e dai capi sacerdoti e dagli scribi, e fosse ucciso, e in capo a tre giorni risuscitasse. E diceva queste cose apertamente. E Pietro, trattolo da parte, prese a rimproverarlo. Ma egli, rivoltosi e guardati i suoi discepoli, rimproverò Pietro dicendo: Vattene via da me, Satana! Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini».
Come si vede, qui non si parla di “chiesa”. E questo è un fatto importante a prescindere dal concetto che esprime il termine chiesa, e dalla connotazione reale del suo significato. Ciò che concerne la chiesa in Matteo, qui è invece completamente ignorato: non si parla di rivelazione del Padre (o dello Spirito); non si parla della fondazione della chiesa sulla roccia (sulla fede); non si parla affatto di chiesa; non si parla delle chiavi; non si parla di legare e sciogliere: non c’è nulla di ciò che costituisce l’oggetto di secoli di controversia. E si noti che quasi tutti (e forse proprio tutti) gli studiosi del N.T. affermano che il vangelo di Marco è il più antico dei quattro, non soltanto dei sinottici dunque ma anche di Giovanni, e ciò equivale a dire che è il più attendibile, anche perché l’autore, Marco (l’unico non contestato tra gli autori dei vangeli), era il segretario di Pietro. Si deve supporre perciò che ha utilizzato informazioni di prima mano, per di più sicuramente avallate dall’autorità di un Apostolo. Per questo si pensa, a ragion veduta, che gli altri evangelisti abbiano attinto al suo vangelo; di ciò si hanno sufficienti prove. Perché, dunque, Matteo ci dice molto più di Marco? Dove ha attinto il redattore di Matteo oltre che in Marco? Come si spiega il “di più” di Matteo? E soprattutto il “di più” di Matteo è attendibile? Se mettiamo sul piatto le considerazioni che abbiamo fatto qui sopra, al paragrafo precedente, dobbiamo concludere che il “di più” di Matteo non è del redattore, ma di uno o più copisti che hanno rimaneggiato e ampliato il testo a loro piacimento, quando giudicavano necessario sostenere, a modo loro, l’Apostolo Pietro per bilanciare il successo missionario dell’apostolo Paolo. Dobbiamo concludere che i versetti 18 e 19 sono certamente una interpolazione, se non un rifacimento, o meglio ancora che il testo originario (sicuramente le copie manoscritte che oggi disponiamo) ha o hanno subìto una vera e propria manomissione.
b) Luca 9,18-22: «Or avvenne che mentr’egli stava pregando in disparte, i discepoli erano con lui; ed egli domandò loro: chi dicono le turbe ch’io sia? E quelli risposero: Gli uni dicono Giovanni Battista; altri, Elia; ed altri, uno dei profeti antichi risuscitato. Ed egli disse loro: E voi chi dite ch’io sia? E Pietro, rispondendo disse: Il Cristo di Dio. Ed egli vietò loro severamente di dirlo ad alcuno, e aggiunse: Bisogna che il Figliuol dell’uomo soffra molte cose, e sia reietto dagli anziani e dai capi sacerdoti e dagli scribi, e sia ucciso, e risusciti il terzo giorno».
Si nota facilmente che anche il testo di Luca si allontana da quello di Matteo. Sostanzialmente è simile a quello di Marco. Anzi rispetto a quest’ultimo (e quindi anche rispetto a Matteo) non ha il particolare di Pietro che prende Gesù da parte e lo rimprovera; e quindi non ha neppure le parole di Cristo in risposta a Pietro. Insomma Luca (composto nell’80 o poco dopo) è più breve di Marco, e a maggior ragione ancora più breve di Matteo. Ma quel che conta di più è il fatto che anche in Luca (come in Marco) non si parla di “chiesa” e non c’è nessuna delle affermazioni che costituiscono la materia del contendere. Ora, basandoci anche su 1,1-3, deduciamo che l’autore certamente ha attinto, tra l’altro, da Matteo (composto nell’arco “dopo il 70 - fino all’80”) e da Marco (composto intorno al 70)36. Dunque è strano che sia mancante di qualche particolare che invece troviamo in Marco; e ancora più strano che sia mancante di molte parti importanti che sono contenute in Matteo. Dobbiamo dedurre, o che in quell’epoca Matteo e Marco non contenessero i particolari che non troviamo in Luca, o che l’autore di Luca non li abbia considerati autentici o che non li abbia considerati degni di attenzione. In ogni caso potremmo sospettare che quei particolari siano provenienti da una fonte non degna di fede. Insomma il brano dal quale i teologi cattolici romani deducono che Gesù avrebbe nominato Pietro capo visibile della Chiesa e suo vicario, non soltanto non esiste negli altri vangeli, ma quasi certamente non è autentico. L’ipotesi secondo la quale Matteo e Luca avrebbero attinto anche da un’altra Fonte Comune andata persa, non soltanto non può essere provata, ma non risolverebbe il problema: perché Matteo attinge dalla FC a suo modo e Luca in un modo sostanzialmente diverso? Possibile che Luca abbia considerato di nessun valore le parole che Cristo, secondo Matteo, avrebbe rivolto a Pietro? Inoltre, rimarrebbe sempre da spiegare il silenzio del segretario di Pietro, che dovrebbe essere comunque il più informato: stava accanto alla persona direttamente interessata.
c) Non esiste, dunque, neppure in Giovanni. Il quale nel piccolo brano contenuto in 6,66-69 ha:
«D’allora molti dei suoi discepoli [di Gesù] si ritrassero indietro e non andavano più con lui. Perciò Gesù disse ai dodici: Non ve ne volete andare anche voi? Simon Pietro gli rispose: Signore, a chi ce ne andremmo noi?Tu hai parole di vita eterna; e noi abbiamo creduto ed abbiamo conosciuto che tu sei il Santo di Dio».
Tutto ciò che in Giovanni può in qualche modo richiamare alla nostra mente la “confessione di Pietro” è contenuto in questo testo. Veramente molto poco; qui non c’è nulla di simile ai testi che i cattolici romani portano a sostegno della loro tesi; ed anche qui non si parla di “chiesa”. Anzi come abbiamo già detto (vedi pag. e ss.) da questo testo di Giovanni (come da altri testi) si può dedurre che a riconoscere esplicitamente Gesù come Messia non è stato soltanto Pietro ma anche gli altri Apostoli; la “confessione di Pietro” non è soltanto di Pietro, ma di ognuno dei Dodici e di ogni cristiano.
L’inautenticità delle parti controverse di Matteo è dimostrata, direttamente o indirettamente, anche da altre considerazioni, oltre quelle già esposte37.

3. Altri motivi che si oppongono all’autenticità del testo.
a) Quando Pietro (in Matteo) dichiara che Gesù è il Messia è ricompensato dalle parole di Cristo: Tu sei beato, o Simone… ecc. (16,17 e ss.). Mentre sia Marco (8,30) che il vangelo di Luca (9,21), sembrano esprimere una preoccupazione di Gesù. Per quest’ultimi Pietro non ricevette alcun elogio; anzi, gli evangelisti riferiscono che il Maestro immediatamente «vietò loro severamente di dirlo ad alcuno». È strano che Matteo mette immediatamente in bocca a Gesù parole di elogio per Pietro, mentre Marco e Luca riferiscono soltanto preoccupati divieti. E ciò è tanto più strano se si pensa che Matteo ha attinto da Marco, e Luca da Matteo e da Marco. Certo anche Matteo riferisce che Gesù vietò ai suoi discepoli di dire ad alcuno ch’egli era il Cristo (v.20). Ma prima del divieto c’è l’elogio, e ci sono i testi controversi che soltanto Matteo contiene e nessun altro, neppure Giovanni, né se ne accenna in qualche altro luogo del Nuovo Testamento. E tutto ciò ha certamente un legame con il fatto che in Matteo Gesù parla della «sua chiesa», come vedremo qui appresso; unico caso in tutti e quattro i vangeli.
b) Osserviamo, facendo un paragone, che Gesù ha sempre parlato del «Regno di Dio», mai del «mio Regno» (tranne il caso nel quale dice: “il mio regno non è di questo mondo” [Gv. 18,36], ma si tratta di una cosa diversa). Ora non soltanto parla di «chiesa», ma addirittura di «mia chiesa». Che la Chiesa di Cristo sia di Cristo, oggi ci appare non soltanto legittimo, ma anche ovvio. Ma in quel momento (che è l’unico in tutti e quattro gli evangeli, non ci stanchiamo di ripeterlo) ci aspetteremmo una spiegazione di Gesù, o almeno dell’evangelista, riguardo alla Chiesa che non c’è ancora. Nulla di tutto questo. Il Nazareno, fino a quel momento (ma anche in seguito) ha parlato sempre del Regno di Dio, ora parla della sua Chiesa, e gli Apostoli, che pure pendono dalle sue labbra, non gli chiedono spiegazione, né Pietro, né Tommaso, né Filippo, né nessun altro dei presenti: che cos’è la Chiesa? Da Pietro, soprattutto, ci saremmo aspettati almeno qualche richiesta di chiarimenti sul significato delle parole che Gesù gli avrebbe rivolto: Maestro, devo fare le tue veci quando tu non sarai più in mezzo a noi?Devo amministrare la tua chiesa? Devo condannare i disubbidienti ed assolvere i pentiti? Queste e mille altre domande ci saremmo aspettate che Pietro rivolgesse a Gesù. O che questo l’avesse fatto un altro Apostolo. Insomma, anche se nessuno era, ovviamente, nella condizione storica e psicologica per comprendere che Gesù aveva nominato Papa l’apostolo Pietro, tutti erano però in grado di comprendere che le parole di Cristo rivolte all’Apostolo erano pesanti come piombo per l’importanza (vaga quanto si vuole, in questa ipotesi) che lasciavano trasparire, e soavi come il profumo di una rosa per l’amore che riversavano su Pietro. E invece, tutti zitti; nessuno ha fiatato. Seguono le parole con le quali Pietro rimprovera Gesù, e le parole di risposta di Gesù a Pietro. Ma queste non sono richiesta di chiarimenti, sono un altro discorso. Se il testo controverso di Matteo non è una interpolazione o un rimaneggiamento di un copista partigiano del primato di Pietro, si deve dedurre che né Pietro, né gli altri Apostoli abbiano capito le parole di Cristo, e che tuttavia e inspiegabilmente siano rimasti zitti. Non ci sembra possibile che qui Gesù abbia parlato in modo oscuro. Ma anche se così fosse, almeno una voce tra i dodici avrebbe dovuto chiedere: Maestro che cosa vuol dire il discorso che hai fatto a Pietro? Ed inoltre: se il testo è autentico, perché Marco, il discepolo di Pietro, non ne parla? Se Marco è il più attendibile e anche il meglio informato, essendo il più antico, e godendo dell’avallo e dei ricordi di un Apostolo (di Simon Pietro!), noi dobbiamo concludere necessariamente che il testo di Matteo non è autentico; diversamente accuseremmo, implicitamente, l’evangelista Marco di aver omesso volutamente un episodio importantissimo contenente delle affermazioni di Gesù assolutamente capitali; cosa che renderebbe riprovevole il comportamento di Marco. Insomma, dicendo che il testo controverso di Matteo è autentico, ne verrebbe implicitamente che l’Evangelo di Marco sarebbe inattendibile per le gravi omissioni, e trascinerebbe Luca sullo stesso terreno. Ma forse si potrebbe trovare un’alternativa. Marco avrebbe considerato di scarsa importanza le parole di Gesù rivolte a Pietro a Cesarea di Filippo. E se Marco le ha considerate di scarsa importanza, al punto da ometterle, allora tali dovevano realmente essere, tenendo conto anche dell’avallo (almeno implicito) dell’Apostolo Pietro. E se realmente sono o erano di scarsa importanza, vuol dire che non erano quelle che leggiamo oggi. Perciò non è possibile (in ogni caso) che abbiano il significato che i teologi cattolici romani gli attribuiscono.
Tutto questo ragionamento sarebbe ugualmente valido, senza spostare una virgola, anche se volessimo considerare Matteo come se fosse il più antico e il più attendibile dei quattro vangeli: il brano controverso risulterebbe ugualmente inautentico; magari l’unico inautentico in Matteo, ma comunque inautentico, anche per tutte le altre ragioni che abbiamo esposto in questo capitolo. [Matteo Manzella]

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martedì 19 gennaio 2010

ADAMO PARADIGMA DI CRISTO

Studio biblico - Romani 5,14
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Nel Nuovo Testamento il termine “signore” si trova più di 500 volte, e nella maggior parte dei casi si riferisce a Gesù di Nazareth1. E' necessario precisarne il valore nell’ambito della teologia biblica, al di là del suo significato etimologico di “padrone”, che è comunque implicito. Altrove abbiamo scritto che “Signore” è il rango e la natura di Cristo risorto2. Per quanto riguarda il rango, il significato è ovvio perché è implicito in quello di “padrone”, almeno formalmente; mentre per quanto riguarda la natura, si può riassumere nella parola immortale3, o meglio ancora “imperituro”. “Signore” è il sôma o corpo (il “corpo-persona”) glorioso dei risorti (cioè i risorti stessi), di cui Cristo è il Primo: il Signore Gesù Cristo «trasformerà il corpo della nostra umiliazione [quasi privo della immagine di Dio, quindi mortale] rendendolo conforme al corpo della sua gloria [cioè immortale], in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa», cioè per il fatto che è Signore (Padrone): Filippesi 3,21. Il primato di Cristo è anche il primato della potenza (Matt. 28,18), perché Dio gli conferisce questo potere: «Dio, come ha risuscitato il Signore, così risusciterà anche noi mediante la sua potenza» (1 Cor. 6,14). Dice Gesù: La volontà di colui che mi ha mandato è che chi crede nel Messia, io lo risusciti nell’ultimo giorno; che io risusciti tutti, perché dai sepolcri tutti udranno la voce del Figliuol dell’Uomo (Cfr. Giov. 6,39-40; 5,28; 1 Tim. 2,3-4; § 101). Facciamo, ora, un passo indietro.

1. I due Uomini: týpos e antitýpos.

Adamo prima del peccato era il padrone del Mondo (Genesi cap. 2) nel quale Dio lo aveva posto perché lo “lavorasse” e lo “custodisse”; il “giardino” era suo, tranne il frutto di un albero (che nella metafora rappresenta ciò che è esclusiva prerogativa divina); fu lui a dare il nome agli animali, cioè a indicare la loro essenza: era l’essere più intelligente, forse l’unico essere intelligente. Godeva della compagnia della donna, “ossa delle sue ossa, carne della sua carne”, cioè essere umano come lui. Adamo ed Eva erano all’apice degli esseri creati, erano l’uomo perfetto, cioè «a immagine di Dio»4, che tutto possiede in sé e intorno a sé; il Signore appunto, il “padrone” di tutto, anche di se stesso, perché dotato di capacità decisionale. “Signore” era Adamo prima del peccato o almeno era su questa strada, candidato all’immortalità. Il termine “Signore” ha il suo primo significato, nella teologia biblica, là dove indica la “natura” perfetta del primo uomo (Paolo parla del primo e dell’ultimo Adamo), che tale sarebbe rimasta, cioè perfetta (e infine, sotto ogni punto di vista), fino al conseguimento dell’immortalità, se il progenitore dell’Umanità non avesse peccato; questa è la metafora5.
Il concetto di “Signore” è pertanto equivalente al concetto dell’essere in forma o immagine di Dio. In questo senso, Gesù è potenzialmente “Signore” da subito, dalla nascita. Perciò Paolo ai Romani dice che Adamo è “tipo” (týpos) di Cristo (5,14), cioè — in parole povere — lo stampo (o il “modello” sostanziale, il paradigma) a posteriori, con il quale lo Spirito ha “creato” Gesù di Nazareth. Luca, nella “genealogia”, dice che Adamo è il capostipite di Gesù (3,38). E poiché tutti gli uomini sono discendenti del capostipite Adamo, è evidente che l’autore del vangelo allude a qualcosa che tutti gli uomini hanno in comune con Gesù. Al versetto 38 si dice che Gesù discende da Adamo e che Adamo discende da Dio. Qui è tutto il discorso: Adamo è figlio di Dio; tutta l’umanità discende da Adamo, quindi tutti gli uomini (compreso Gesù) sono figli di Dio e perciò fratelli: Ebrei 2,5-18. Paolo lo riafferma nel suo discorso ai filosofi di Atene: «[Dio] ha tratto da un solo [uomo] tutte le nazioni... come anche alcuni dei vostri poeti han detto: “Poiché siamo anche sua progenie [di Dio]”.Essendo dunque progenie di Dio...» (Atti 17,26,28).
Il mito biblico ci dice che il primo “figlio di Dio” (Luca 3,38) candidato all’immortalità sarebbe stato il “padre” dell’umanità perfetta se fosse rimasto fedele a Dio; invece fu il capostipite dell’umanità imperfetta; sarebbe stato il Signore dei “signori” (primo tra pari) se non avesse peccato, mentre fu causa dei suoi mali e dei mali dei suoi discendenti.
Tra Adamo e Cristo vi è questa differenza: il candidato all’immortalità Adamo (uomo perfetto e perfettibile), non raggiunse la meta (morì) e trascinò con sé tutti i suoi discendenti; il candidato all’immortalità Gesù (uomo perfetto) raggiunse la meta dell’immortalità e condurrà con sé tutti i suoi “discendenti” spirituali, là dove Adamo non seppe condurli.
Karl Barth nel suo famoso commento ai Romani6, a proposito del testo 5,14, cita il detto rabbinico secondo il quale “il mistero di Adamo è il mistero del Messia”. Infatti, Cristo (il Messia) è l’Ultimo Adamo; così lo definisce l’apostolo Paolo in 1 Cor. 15,45. Però Barth non trae tutte le conseguenze da questa affermazione, del detto rabbinico, dell’apostolo Paolo ed anche sua, sfiora appena la sostanza del discorso. Pone l’accento esclusivamente sul fatto che Adamo e Cristo si esprimono producendo risultati o conseguenze di due segni algebrici opposti (il primo, con il suo comportamento produce il regno della morte; il secondo, sempre con il suo comportamento, produce il regno della vita) ma sorvola, o quasi, sul fatto che Paolo definisce Adamo týpos (modello, stampo) del Messia, cioè “stampo-stampante” e non “stampo-stampato”; ne parla solo per evidenziare, appunto, che è un “mistero” il fatto che l’archétypos (Cristo) è l’opposto del týpos (Adamo). A parte la considerazione che sarebbe meglio non parlare di “archétypos” (abbandonando l’allusione alla dottrina politeista di Platone), perché semmai questo termine andrebbe riferito ad Adamo, che però, e giustamente, Paolo chiama “týpos”, è evidente che in questo modo il mistero è sminuito, e quasi non è un mistero, se si lascia in ombra la sostanza del discorso per la quale i due sono essenzialmente uguali (tutti e due “uomini”) o peggio se si lascia intendere che uno è “uomo” e l’altro è “Dio”.
Vero è che týpos è anche sinonimo di skhêma o figura (e “figura” traduce il Diodati) e che quest’ultimo (cioè “skhêma”) riguarda la “differenza” o “materia” dell’individuo-uomo, e che la “differenza” riguarda soprattutto il comportamento. Ma questo skhêma, come abbiamo già detto6 bis, in quanto “natura”, è “parte” dell’unità uomo, inseparabile dall’unità stessa (“sostanza”), e di conseguenza týpos è equivalente a “sostanza” o individuo. In altre parole il testo dice che Cristo è sostanzialmente Adamo, cioè l’essenza “Uomo”. In quanto tale (in quanto sostanza), come tutte le sostanze o individui è “catalogato” come elemento della “specie”, della specie umana. Adamo, e Cristo che lo ha sostituito nel rango di Signore, sono i capostipiti dell’Umanità, della specie umana, intesa per astrazione, come insieme di individui simili. La Genesi usa l’espressione hã’ãdãm, cioè l’Uomo, termine che coinvolge l’umanità come “natura” o essenza (“immagine di Dio”). Di fatto, Adamo (dopo il peccato) è capostipite di quella “perduta”, Cristo di quella salvata mediante la nuova nascita spirituale dei credenti, ma comunque tutti e due dell’Umanità, vale a dire degli individui “uomo”. Questo è un rapporto stretto, sostanziale, tra Adamo (Uomo) e Cristo (Uomo) che non lascia spazio alla cosiddetta “divinità” di Gesù Cristo, perché se ci sono due capostipite della stessa Umanità, vuol dire che tutti e due sono “uomo”; il primo, cioè Adamo decaduto, storicamente e cronologicamente, precede Cristo; ma Cristo precede il primo a) in quella perfezione che Adamo perse (e in quanto la perse) e b) in quella immortalità che conseguì nello stato di “Signore”. Infatti, Paolo dice che Adamo (non Cristo) è týpos; e noi perciò deduciamo e definiamo Gesù Cristo (il Signore) come l’antítypos. Dove il prefisso “anti” non sta né per “avverso” (avversario), né per “opposto”, ma per “precedente” (e letteralmente dovrebbe indicare la priorità nel tempo) rispetto a tutti gli uomini ed anche rispetto all’Adamo decaduto; ma non rispetto all’Adamo edenico ancora senza peccato, che è il modello in assoluto. Adamo non è la copia di Cristo, ma Cristo è la copia di Adamo, di quello senza peccato, da lui discende, è suo “figlio” (Luca 3,38), direttamente per opera dello Spirito; è l’Ultimo Adamo poiché segue all’Adamo edenico (lo segue nel tempo anche nel senso che prende il suo posto, quindi in senso proprio). Perciò Cristo è prima (precedente) rispetto all’Adamo peccatore (è il Primo) ed anche rispetto ai discendenti di Adamo: dunque è uomo senza peccato, anche quando il suo esteriore ereditato dall’Adamo peccatore è ancora mortale (perciò l’intera sua persona era mortale), per questo Dio lo risuscita corpo pneumatico, imperituro, che vive nei secoli dei secoli. Per cui quel testo famoso di Apocalisse 1,18 va inteso in questo senso: “Io sono il Primo Adamo e l’Ultimo Adamo; sono l’Uomo senza peccato, quello spirituale [1 Cor. 15,45], che ha raggiunto l’immortalità, il Signore”. A questo rapporto allude, comunque, Paolo; altrimenti in che cosa consisterebbe l’essere týpos e antítypos (“archétipo” dice Barth), soltanto nel comportamento, non nell’essenza o “natura”? Altrove7 abbiamo detto che il comportamento e la volontà sono frutto della “natura”, inseparabili dalla “natura” stessa e che questo genera il mistero. Se i due non fossero essenzialmente uguali (cioè nell’essenza, “a immagine di Dio”) il loro diverso comportamento sarebbe giustificato; dove sarebbe il “mistero” di cui parla Barth? Perché avrebbero dovuto comportarsi tutti e due allo stesso modo, cioè fedeli a Dio, se uno fosse stato soltanto uomo e l’altro Dio o almeno anche Dio?

2. L’antítypos “precede” il týpos.

Infatti, un modello originale (in questo caso Adamo prima del peccato, creato direttamente da Dio, metaforicamente con le sue proprie “mani”, perciò originale, ovvero prototypo) non può essere essenzialmente diverso dalla “copia” (Cristo) di cui è modello (non è possibile che siano uno “uomo” e l’altro “Dio”) e il discorso sarebbe ugualmente valido anche se il modello originale fosse l’Uomo Cristo; può essere diverso (e lo è), sia pur ai limiti dell’am-missibilità, il loro comportamento, non la loro “natura” (o essenza); se uno dei due fosse “Dio” (soltanto Dio), dovrebbero essere Dio tutti e due; e se uno dei due fosse Uomo (soltanto uomo), dovrebbero essere (come effettivamente sono) tutti e due uomini: non è possibile che uno dei due sia ad un tempo uomo e Dio; tutt’al più si potrebbe ammettere che, per assurdo, siano Dio (soltanto Dio) tutti e due, il “modello” e la “copia”.
Questo discorso è implicito là dove Paolo dice che Adamo è týpos di Cristo (Rom. 5,14) perché non si può ammettere che l’uomo (Adamo) sia týpos di Cristo-Dio, se i due non sono della stessa “natura”. Adamo e Cristo non possono essere essenzialmente diversi (non possono essere diversi nell’essenza: uno essenza umana, l’altro essenza divina o anche divina), perché la diversità della natura è un concetto opposto alla “typologia”. Adamo e Cristo sono rispettivamente týpos e antítypos per il fatto che ambedue sono “a immagine e somiglianza” del Creatore, cioè “uomini” (Gn. 1,26; 2 Cor. 4,4): essi sono l’Uomo originario, di cui l’Adamo peccatore è ormai quello decaduto, per cui l’antítypos lo precede, è il vero e perfetto modello dell’Umanità, il Capostipite, perciò anti (Antítypos) rispetto ad Adamo. Con Cristo l’umanità è salvata dalla morte, perché ha come progenitore l’Uomo Imperituro.
In effetti il mistero è posto da questa domanda: come è possibile che due esseri di uguale “natura” si comportino in modo opposto? Rispondere dicendo che è così per il fatto che sono due “individui-persone” (e perciò differenti nella “materia”) è un modo di eludere il problema. La domanda effettivamente ne implica almeno altre due. 1. Come è possibile che — nella metafora biblica — Lucifero (angelo di luce) e Michele si siano comportati in modo opposto pur essendo della stessa natura, tutti e due angeli perfetti? 2. Come è possibile che il comportamento di Lucifero (e di conseguenza di Adamo) abbia potuto produrre l’immane disastro che ha prodotto? Ed anche riguardo ad Adamo e Cristo il mistero è proprio questo; e per essere tale, per essere mistero (nel senso di inspiegabile), è implicito che i due soggetti debbano essere della stessa natura, cioè uomini perfetti, come erano (nella metafora) della stessa natura Lucifero e Michele, cioè angeli.
Se Adamo fosse “uomo” (come effettivamente era) e Cristo fosse Dio (per ipotesi), il mistero delle conseguenze del loro comportamento (di morte quello di Adamo, di vita quello di Cristo-Dio) non sarebbe inspiegabile, ma anzi pressoché scontato: ecco perché Cristo non può essere Dio! Verrebbe meno la teologia di Paolo (e di tutto il Nuovo Testamento): «come per un uomo... così per un uomo...» (1 Corinti 15,21); e verrebbe meno la logica tout court della teologia biblica.

3. Uguaglianza essenziale di Adamo e Cristo.

D’altra parte l’essere týpos e antítypos (e qui, in questa accezione, non importa chi dei due è, temporalmente, il primo e chi è il secondo) non può riferirsi al comportamento opposto dei due, perché così, lasciando in ombra la loro uguaglianza essenziale, si finirebbe con il rendere uguale la loro “diversità”, cioè il comportamento; mentre “uguale” non è il comportamento ma la “natura”, l’essenza. Insomma, poiché il testo dice che i due sono uguali, devono essere uguali nell’essenza, dal momento che non sono uguali nel comportamento, altrimenti non potrebbero essere týpos e antítypos, e perciò non si tratterebbe di un “mistero” ma di una contraddizione in termini, per la quale ci si stupirebbe che due diversi (differenti e opposti) siano uguali, cioè ognuno “copia” dell’altro. Invece, bisogna mettere in evidenza che Adamo e Cristo sono “uguali” nell’essenza (sono tutti e due uomini, soltanto uomini) ma “diversi” nel comportamento: uno disubbidiente, l’altro ubbidiente. Allora si che il “mistero” è un mistero (dato che il comportamento riguarda la “natura”: Cfr. Matt. 7,17-18 [12,33]; Luca 6,43), ma non una assurdità, né una contraddizione in termini: sarebbe da spiegare soltanto (si fa per dire) come essenze uguali e perfette possano generare comportamenti opposti, ma questo è un altro discorso, e che comunque lungi dal differenziare la “natura” dei due, ne implica l’uguaglianza, altrimenti non si potrebbe parlare di “mistero”. In altre parole: se Cristo è Dio (o anche Dio) e Adamo è uomo (soltanto uomo), non sarebbe del tutto un mistero che l’Uomo (Adam) avesse peccato, mentre il Dio-Cristo no. Il solo fatto che Paolo chiama tutti e due “Adam-Anthrôpos” (il Primo Uomo e l’Ultimo Uomo), mostra che le cose stanno diversamente, che il problema creato dai trinitari non esiste in realtà: si tratta di due uomini, uno terreno, che non ha ancora raggiunto l’immortalità e che per di più è divenuto peccatore (e perciò “storicamente” non la raggiungerà), e l’altro spirituale, che non ha peccato e già ha raggiunto l’immortalità. Il primo fu Signore; il secondo è Signore e lo è nel pieno significato biblico: corpo glorioso, cioè immortale, “alla destra di Dio”.
Cristo è senza peccato, cioè uomo moralmente perfetto, e tale rimane per tutta la sua vita terrena (e per sempre), ma è un discendente di Adamo: il suo esteriore (skhêma) non è perfetto come lo è l’interiore (esô); il suo sôma (il “corpo-persona”, l’individuo) deve acquistare lo “stato” di “Signore” (oltre che il rango) e lo acquisterà mediante la risurrezione (Ebr. 2,9; Rm. 1,4) . Come si può pensare alla divinità di Cristo nel senso trinitario se il suo esteriore (“parte” essenziale dell’individuo) era indubbiamente imperfetto? L’espressione trinitaria “vero uomo, vero Dio”, poiché — anche secondo i trinitari stessi — deve implicare l’unità della persona Gesù Cristo, deve implicare anche che il termine “vero” riferito all’uomo-Gesù abbia il valore di “perfetto”, perché così dovrebbe essere quando [e se] fosse riferito al “Dio-Gesù Cristo”. Poiché l’esteriore di Cristo evidentemente non è perfetto (tra le altre cose sarebbe sufficiente considerare che è morto), esso per così dire “trascina” con sé l’intera indivisibile persona, sicché Gesù Cristo non era immortale, tanto è vero che morì; e se non era immortale non si può dire che fosse o che sia Dio. Cristo fu reso immortale: Rom. 1,4; Atti 13,33. Se Cristo è “uomo e Dio” in unità, deve essere perfetto in unità. E come mai il perfetto e immortale morì e fu sepolto? E come mai i testi (Rom. 1,4 e Atti 13,33 [già citati]; Ebr. 2,10; 5,8-9; 7,28) dicono che Cristo fu reso perfetto con la risurrezione? Come mai Pietro (in Atti 2,36) dice: «Sappia dunque sicuramente tutta la casa d’Israele che Iddio ha fatto e Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso»? Lo stato di Signore, come l’unzione propria del Cristo (Atti 10,38), sono “stati” (condizione, modo di essere) acquisiti dal Nazareno. Cristo è immortale dopo la risurrezione.

4. Cristo diviso: come uomo..., come Dio...

Si dirà: è così come uomo... ma come Dio... A questa osservazione abbiamo risposto in altra occasione8. L’unità della persona Gesù Cristo, come per tutte le persone, è indivisibile, e questo significa che il suo modo di essere è uno; non può essere per certi aspetti sostanzialmente “così” e per altri aspetti sostanzialmente “cosà”, se “così” e “cosà” sono ciascuno la negazione dell’altro. Se il Gesù-Uomo (come direbbero i trinitari) fosse stato totalmente perfetto anche nel suo esteriore, non sarebbe potuto morire e non sarebbe morto; invece è morto. Il fatto che sia risuscitato non significa che fosse o che sia Dio. Anche i credenti risusciteranno, ma non sono né saranno Dio. Questo significa che Cristo, per essere Signore, come lo fu Adamo (e come il primo uomo avrebbe potuto essere ancora) cioè per avere e per essere quella che fu la gloria dell’adam e raggiungere l’ulteriore stato d’immortalità, deve passare per la morte (da innocente, e da uomo moralmente perfetto), quindi risorgere nella natura e nel rango che gli spetta ma che non può avere senza la risurrezione che segue alla morte. In questo egli è ed opera solidarmente con tutta l’umanità. La sua morte e la sua risurrezione sono la garanzia di vita eterna per tutti, in quanto si tratta della morte e della risurrezione di un uomo, non di un Dio. La morte e la risurrezione di un Dio, fanno parte della tradizione politeista, non fanno parte del cristianesimo biblico.
Il nesso logico che è alla base della teologia biblica, è quello che con la dottrina trinitaria verrebbe ad annullarsi. Il Nuovo Testamento ci presenta l’atteggiamento “satanico” di Adamo (il comportamento) da una parte; e dall’altra il comportamento di Cristo, che è proprio del Santo di Dio (Giov. 6,69; Apoc. 3,7). Paolo dice: «Per mezzo d’un uomo [Adamo] è venuta la morte, così anche per mezzo d’un uomo [Cristo] è venuta la risurrezione dei morti. Come tutti muoiono in Adamo, così anche tutti saranno vivificati in Cristo» (1 Cor. 15,21-22). Il “mezzo” di salvezza è l’uomo Cristo, il Messia Gesù; non è il “Dio-Gesù-Cristo”. La volontà di salvare e la potenza di attuare la salvezza sono di Jhwh, ma il mezzo (o “mediatore”) è uomo. Cristo non ha aspirato, come aspirò Adamo, a diventare “uguale” a Dio; non l’ha neppure pensato, pertanto non era Dio comunque9. Anzi ha riportato la vittoria seguendo un comportamento che implica esclusivamente l’umanità di Cristo, di Cristo vero uomo (non Cristo-Dio) perché Cristo è soltanto “uomo”. Ha riportato la vittoria rifiutando la pretesa che fu di Adamo, per la quale il primo uomo riportò la sconfitta, quella di aspirare a diventare come Dio (Gn. 3,5). Il comportamento di Cristo perciò esclude la sua supposta cosiddetta divinità. Paolo non paragona Adamo a Dio, ma Adamo a Cristo, o meglio i loro diversi comportamenti. In 1Cor.15 paragona il primo Adamo all’ultimo Adamo; e adam in ebraico vuol dire uomo, non vuol dire “Dio”. Da una parte c’è l’uomo che portò l’umanità alla “perdizione”, dall’altra c’è l’uomo che la porta alla salvezza. Il primo adam (in greco “anthrôpos”), divenuto satanico, è colui che agì spinto da un forte orgoglio; l’ultimo adam è colui che rinunciò perfino al rango che spetta all’uomo perfetto, al principe [il primo, il principio, l’arkhê] della creazione di Dio (Apoc. 3,14) e al Messia, il Figlio di Dio, l’Unto, il Re (Matt. 16,16): Adamo si innalza, Cristo si abbassa. Il primo è sconfitto, il secondo è vittorioso10. Il Messia, a differenza di Adamo, superò la triplice tentazione (Gen. 3,6; Matt. 4,1-11 e testi sinottici) che Adamo non superò — triplice anche quella — e con ciò non pretese di uguagliarsi a Dio11. Che Adamo è týpos del Messia, può significare soltanto che sono tutti e due uomini, soltanto uomini.
Il comportamento di Cristo è quello dell’ubbidiente; è questa la natura più profonda del discorso di Paolo in Filippesi 2,5-11 che abbiamo esaminato in altra sede12, e che alla luce di Rom. 5,14 si può sintetizzare in pochissime parole: il primo Uomo (týpos, il prototipo, il paradigma) disubbidì, l’ultimo Uomo (antítypos, che è la copia, vero paradigma) ubbidì. L’Obbediente a chi obbedì? Obbedì a Dio! Ora, chi ubbidisce a qualcuno non può essere quello stesso a cui ubbidisce; chi ubbidisce a Dio non può essere Dio stesso che ubbidisce a se stesso. Se si dice che il “Figlio di Dio” (che nella Bibbia significa “Messia”)13 è Dio, per non cadere nel politeismo, bisogna ammettere che è lo stesso “Dio” per il quale il Padre è Dio. Per cui, Cristo avrebbe ubbidito a se stesso. I trinitari cercano di ovviare a questa incongruenza, e in difesa del concetto trinitario fanno distinzione tra “essenza divina” e “persona divina”: errore filosofico e teologico, oltre che assurdo per il senso comune. Dicono: le tre persone della Trinità sono distinte; mentre la loro natura è una e indivisibile; perfetta contraddizione in termini, dato che in Dio la “persona” coincide e si identifica con la “natura”, che in Lui è ovviamente l’essenza divina (Dio è soltanto essenza, soltanto “natura” semplice; in Lui non vi è nulla di accidentale) e dunque se le persone fossero tre e distinte, anche le nature (al plurale!) sarebbero tre e distinte, perciò diverse (vale a dire tre dii o dèi); da ciò la contraddizione! Se l’essenza è la persona, e l’essenza è una e indivisibile, deve essere una anche la persona! E se si afferma che le tre persone sono effettivamente tre essenze però uguali, anzi identiche, allora sono una non sono tre. La disubbidienza e l’ubbidienza — in ogni caso — riguardano le “persone” (in questo caso Adamo e Cristo), ma queste persone non sono tali in astratto, né tanto meno sui generis, sono persone reali, vere e proprie; esse sono quella stessa essenza (tautologicamente in atto) che le fa persone: “persona” e “essenza” indicano una sola e medesima realtà, sia quando i termini sono metaforicamente riferiti a Dio (e soprattutto in questo caso; per analogia e sia pur ai limiti del plausibile secondo ragione) e sia quando sono riferiti all’uomo in senso proprio. Le distinzioni che tendono a negare questo, negando di fatto l’unità dell’individuo e della persona, sono capziose e non indicano la realtà. La distinzione, o è “distinzione reale” e perciò ognuna indica un individuo a sé; o è “non-reale”; e perciò, in ogni caso, non è la distinzione che possa risolvere il problema in questione, essa non riesce a nascondere la contraddizione in termini. D’altra parte, in Dio non si può fare alcuna distinzione, “reale” o “non-reale”; Dio è “il Semplice in sé”: il Semplice fuori di ogni composto. Dio dice: «A chi dunque mi vorreste assomigliare?...» (Isaia 40,25). Il concetto trinitario è contro ragione (perciò impossibile) e non appartiene alla fede della chiesa primitiva.

5. “Come per un uomo..., così per un uomo...”.

Pertanto, sia chi disubbidisce (Adamo) e sia chi ubbidisce (Cristo) devono essere e sono la stessa “natura”, sono uomini, soltanto uomini; diversamente verrebbe a mancare la logica del discorso dell’apostolo Paolo. Il quale dice: «Come per la disubbidienza di un solo uomo [tou enòs anthrôpou; letteralmente: dello uno uomo] molti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’ubbidienza d’un solo (uomo) [tou enòs] i molti saranno costituiti giusti» (Rom. 5,19). Nell’ultima parte del testo abbiamo aggiunto la parola “uomo”, in parentesi, per completare il senso. Infatti, la prima parte dice “di un solo uomo: tou enòs anthrôpou”; mentre la seconda dice semplicemente “di un solo: tou enòs”. Ora, sia la logica del paragone in questo stesso testo, sia i testi paralleli o dello stesso argomento, nei quali il raffronto uomo-uomo è ancora più esplicito (si veda 1 Cor. 15,21-22), ci autorizzano ad aggiungere la parola mancante, forse sfuggita al copista o, più probabilmente, ritenuta dall’apostolo implicita (come effettivamente sarebbe comunque). Ma nessun testo, e nessun concetto implicito, potrebbero autorizzare qualcuno ad omettere nella traduzione una sola parola della Bibbia, fosse anche per snellire il discorso in italiano. I traduttori trinitari lo hanno fatto (nello stesso testo da noi testè citato) nella Traduzione interconfessionale in lingua corrente (Torino-Roma, 1985), compiendo un’operazione opposta alla nostra: hanno omesso il termine “uomo” là dove era presente nell’originale greco (nella prima parte del testo), quando è riferito ad Adamo. Noi lo abbiamo aggiunto dove graficamente manca (nella seconda parte del testo) quando è riferito a Cristo, ma è sicuramente implicito; i trinitari lo hanno omesso là dove invece è presente nell’originale ma non risulta necessariamente implicito se si omette. Il testo da noi sopra citato, per i trinitari diventa così: «Per la disubbidienza di uno solo, tutti risultano peccatori; per l’ubbidienza di uno solo, tutti sono accolti da Dio come suoi». Se lo si è fatto per rendere le due proposizioni simili e speculari, invece di omettere il termine “uomo” nella prima proposizione, sarebbe stato meglio aggiungerlo nella seconda, come abbiamo fatto noi, dato che nel primo, nell’originale, c’è già. Altrimenti bisognava lasciare le cose così come sono nel testo greco. Certo bisogna dire onestamente che, anche nella traduzione dei trinitari, il significato non cambia se è inquadrato nel testo che lo precede, ma è altrettanto vero che in essa risulta più sfumato, quasi che, in qualche modo, il secondo “uno” potrebbe non essere “uomo” (o semplicemente “uomo”). Nella Traduzione interconfessionale l’accento è posto sul numero dei protagonisti: uno (“uomo” o “non-uomo”, non importa) ha disubbidito; uno (“uomo” o “Dio”, non importa) ha ubbidito. In questo modo non si esclude — come per un tacito sottinteso — che il secondo possa essere anche “Dio” oltre che “uomo”, perché non si evidenzia l’assoluta e perfetta umanità dei due, ma piuttosto il numero dei protagonisti, cioè di un ubbidiente e un disubbidiente. Insomma, il termine “uomo” perché lo si è espresso per sottinteso sia nella prima proposizione che nella seconda, quando invece nell’originale è espresso per esplicito almeno nella prima? Non sarebbe stato meglio, e più fedele, esprimere il termine “uomo” sia nella prima che nella seconda proposizione, come abbiamo fatto noi? Senza il termine “uomo” il paragone tra Adamo e Cristo non avrebbe significato e perderebbe perfino il contatto con il brano che lo precede; così è nella traduzione trinitaria, dove appare per lo meno smorzato, non ha quell’impatto che avrebbe avuto nella comprensione del lettore se il termine “uomo” fosse stato espresso e fosse stato espresso in tutte e due le proposizioni. In 1 Cor. 15,21-22, già citato più sopra, troviamo lo stesso paragone di Rom. 5,19 retto dal termine “uomo”, sia per quanto riguarda Cristo, sia per quanto riguarda Adamo. E se il termine “uomo” è scontato e ovvio per Adamo, col senno di poi non lo è più per Cristo, perché i trinitari sono sempre pronti a interpretare “Cristo-Dio”, ovvero “uomo-Dio”; mentre Paolo dice nulla di più e nulla di meno di quel che dice: che Adamo e Cristo sono soltanto uomini, il primo disubbidiente, il secondo ubbidiente; il primo psichico, sulla via dell’immortalità (che non conseguì), il secondo pneumatico, in quanto percorse la via verso l’immortalità raggiungendola (Cfr. 1 Cor. 15,45).
Il paragone che Paolo fa non può essere retto soltanto dal termine “uno”: “come per uno [per un unico, per uno solo]... così per uno...”, perché la forza del discorso di Paolo non è basata sul numero dei protagonisti ma sulle uguali possibilità dell’umanità di Adamo (infedele) e dell’umanità di Cristo (fedele). Adamo è týpos di Cristo; ed evidentemente Paolo non si riferisce al comportamento, anche se di questo ne parla nel prosieguo del discorso; si riferisce alla natura. Sia Adamo che Cristo sono stati “creati direttamente” dallo Spirito di Dio, talché Dio è il loro “padre”. Ma pur essendo dirette creature di Dio (tutti e due uomini perfetti, soltanto uomini, a immagine di Dio) il primo fu disubbidiente, il secondo ubbidiente.
Il comportamento di Cristo è opposto a quello di Adamo, è un altro comportamento. Mentre le loro “nature” (dell’Adamo edenico e di Cristo) sono uguali, sono la stessa natura (ecco il mistero, che al
limite del possibile ci impone di distinguere “natura” e “comportamento”!). Il contrasto non è tra il týpos e l’antítypos (cioè tra le “nature” dei due), è nell’uguale natura dei due da una parte e nel diverso comportamento dei due dall’altra: il termine “tipo” si riferisce alla loro comune natura, non al comportamento, perché “tipo” è equivalente ad “uguale”. Cristo è uguale ad Adamo (è la sua “copia”), ovvero Adamo è modello di Cristo quanto alla natura (quella edenica), cioè paradigma.
Qui è implicito il discorso che Paolo fa ai Filippesi: abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato in Cristo Gesù... Il cristiano è chiamato a tenere lo stesso comportamento che ebbe Cristo Gesù quando visse in Palestina, predicò, soffrì sulla croce, morì... e risuscitò. Così anche Pietro dice: «Infatti a questo siete stati chiamati, poiché anche Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un esempio, perché seguiate le sue orme» (1 Pietro 2,21)

6. Sia Paolo e sia i Vangeli escludono, implicitamente, la “divinità” di Cristo: l’antítypos è il Figliuol dell’Uomo.

La copia di Adamo, cioè il Messia Gesù, non può che essere il “discendente” del primo uomo (di quello edenico, prima del peccato), quello che Dio ha creato direttamente; e questo concetto (che afferma Cristo come unico discendente di Adamo) è presente nel Nuovo Testamento con l’espressione “Figliuol dell’Uomo”. Adamo è il padre dell’umanità: di ogni uomo, nella sua accezione di peccatore (di colui che nella metafora mangiò il frutto proibito), e non è “figlio”, è “padre”, ed Eva è “madre”. Cristo, moralmente, è “figlio” o “copia” dell’Adamo edenico; mentre è discendente dell’Adamo peccatore in quanto “uomo” (Rom. 8,3; Gal.4,4; Luca 3,23...38). Il vero uomo, dunque, è Colui che è copia (o replica) dell’Adamo edenico, di colui che è ad immagine di Dio, non di quell’Adamo che essendo divenuto peccatore perse la purezza dell’immagine divina che possedeva. Il concetto si può esprimere in modo più sintetico dicendo che Cristo come figlio (o come vero uomo) discende da Adamo edenico; come uomo comune («trovato nell’esteriore come un uomo»: Filipp. 2,8) discende da Adamo peccatore.
1) L’Antítypos è l’unico uomo. Non sarebbe possibile un discorso più chiaro di quello dell’apostolo Paolo, che implicitamente esclude la divinità di Cristo per due motivi: prima di tutto per la sua stessa logica interna, basata sulla uguale umanità dei due protagonisti (Gesù e Adamo); e poi perché in tutto questo discorso non c’è neppure un accenno alla cosiddetta divinità di Cristo, che qui dovrebbe essere l’elemento principale del discorso, se Cristo fosse Dio. D’altra parte, al versetto successivo, Rom. 5,15, Paolo parla del dono ricevuto per la grazia «tou enòs anthrôpou Iêsou Khristou», cioè «dell’unico uomo Gesù Cristo»; così traduciamo e così troviamo anche nella versione di Giovanni Luzzi. Il testo non può tradursi «dell’un uomo...» come fa il Diodati (che almeno ha il merito di aver tradotto abbastanza letteralmente); ma neppure, e a maggior ragione, come la “nuova riveduta”, che dice «da un solo uomo...» (caso mai “dal solo uomo”). Infatti, mentre nei testi precedenti il concetto di “unico” era sottinteso e tale poteva rimanere (c’è un solo Adamo, c’è un solo Gesù Cristo), qui deve esprimersi per esplicito, perché è equivalente ad “unico”, che in greco, in modo più appropriato, si sarebbe potuto dire monos, ma nel nostro testo troviamo il numerale enòs, che si può tradurre, e più precisamente, “uno solo”, che è sinonimo di “unico”. L’espressione “da un solo uomo” che troviamo nella “nuova riveduta”, non esclude che vi siano altri uomini, altri uomini indefiniti e in generale e che Colui di cui si sta parlando sarebbe uno dei tanti uomini; mentre l’apostolo sta proprio dicendo il contrario, che di uomini (di veri uomini) ce n’è soltanto uno (per adesso), Gesù Cristo, perché gli altri che portano il nome di “uomo” sono decaduti, non sono veri uomini; sta dicendo che la salvezza (cioè il ripristino dell’immagine di Dio, di veri uomini) può venire e viene tramite il vero uomo Gesù Cristo, l’unico vero uomo. Anche qui il riferimento è alla “sostanza-uomo-Gesù-Cristo”, non al numero dei protagonisti. Paolo mette in luce che fu l’uomo (il primo Adamo) a condurre gli uomini alla perdizione, e che fu anche l’uomo (l’Ultimo Adamo) a condurre l’umanità alla salvezza (e in quest’ultimo caso per la provvidenza di Dio e per il suo perdono gratuito e insindacabile), perciò i due veri uomini (quello edenico, prima del peccato, e l’Ultimo, Gesù Cristo) sono essenzialmente due uguali, ma anche due diversi comportamenti, se consideriamo che l’edenico divenne peccatore; due diversi comportamenti che portano a due diversi risultati. La cosiddetta divinità di Cristo sarebbe, come effettivamente è, fuori da questa logica. Dunque, se c’è un solo uomo, vale a dire l’unico uomo Gesù Cristo (in quanto vero uomo), deve essere “uomo” in assoluto e non Dio o anche Dio, perché “uomo” più qualcosa non è vero uomo, è “più-che-uomo”, anzi non potrebbe neppure esistere perché sarebbe l’unità di due essenze (concetto contro ragione); mentre l’uomo vero deve essere perfettamente “uomo”, perciò soltanto “uomo”. L’unità di due essenze è impossibile14.
2) Il Figliuol dell’Uomo. Questo discorso dell’apostolo Paolo (quello dell’antítypos unico uomo) è lo stesso discorso che troviamo implicito nei Vangeli, particolarmente nelle parole di Gesù quando definisce se stesso Figliuol dell’Uomo. Espressione che letteralmente significa discendente di Adamo, di quello edenico ovviamente; là dove invece tutti gli altri uomini sono discendenti dell’Adamo peccatore, tutti figli naturali di Adamo decaduto, vale a dire tutti uomini decaduti; per cui Cristo è l’uomo nuovo e il vero capostipite dell’umanità (Cfr. Rom. 5,12-21; 1 Cor. 15,22-49). In questo senso, anche Cristo come tutti gli uomini, anzi lui in modo eccellente in quanto vero uomo, è figlio (o discendente) di Dio, perché Adamo era figlio (discendente) di Dio (Luca 3,38). Ma quest’uomo, Gesù, moralmente perfetto si presenta come tutti gli uomini, come corpo di peccato (Rom. 8,3).
L’appellativo “Figliuol dell’Uomo” riferito a Gesù si trova soltanto nei quattro Vangeli, per un totale di 81 volte: in Matteo 30 volte; in Marco 14 volte; in Luca 25 volte; in Giovanni 12 volte. Questo appellativo, come dice Giorgio Tourn, «deve considerarsi come la designazione propria di Gesù, quella che egli scelse per indicare, con discrezione e autorità, il mistero racchiuso nella sua persona e nella sua missione»15. Noi aggiungiamo che questo mistero, come abbiamo già visto, è tale perché Cristo è vero uomo e soltanto uomo, uomo senza peccato: un discendente di Adamo comunque, al di là di ogni distinzione, che a differenza di tutti gli altri discendenti, è uomo senza peccato; ecco il mistero!
a) Il significato letterale. Nell’Antico Testamento l’espressione significa semplicemente “uomo”. Così è nel Salmo 8 versetto 4, e in Daniele 7,13, nonché nei sinonimi di “uomo” che troviamo in Numeri 23,19; Giobbe 25,6; Isaia 51,12. Il significato di “uomo” è dato anche nell’uso plurale dell’espressione “figli degli uomini”: Salmo 4,2; 12,1,8, e altri testi. Dio stesso si rivolge al profeta Ezechiele chiamandolo “figlio d’uomo”. Ma Gesù usa l’espressione, nei riguardi di se medesimo, con una sfumatura in più, la quale benché includa il comune significato di “uomo”, conferisce all’espressione stessa qualcosa di particolare.
b) Discendente dell’Uomo. Nei primi tre capitoli della Genesi, il primo uomo è indicato con il termine hã’ãdãm, con l’articolo, e significa l’uomo per eccellenza, ovvero l’Umanità. Ora Gesù, nella metafora biblica, per opera dello Spirito non è un figlio d’uomo come tanti altri (come tutti), ma del primo uomo: è il Figliuol dell’Uomo (non “d’uomo” ma “dell’Uomo”), cioè di Adamo, di quello per eccellenza prima che peccasse, creato a immagine di Dio. Infatti, Gesù chiede ai discepoli: «Chi dice la gente [gli uomini] che sia il Figliuol dell’uomo? Tína légousin oi ánthrôpoi eînai tòn yiòn tou anthrôpou» (Matt. 16,13). In altre parole: la gente che idea ha del Figliuol dell’Uomo? Che cosa dice le gente che sia (non “chi”, ma “che”, che cosa)? Dalla risposta che i discepoli danno si deduce che la gente non ha una idea precisa della natura del Figliuol dell’uomo; tuttavia nell’idea vaga della gente c’è un pizzico di verità: la natura e la missione del Figliuol dell’Uomo sono nientemeno quelle di Giovanni Battista, di Elia, di Geremia, insomma di un grande profeta (v. 14). E′ così infatti; per esempio, Dio si rivolge a Ezechiele con l’appellativo di “Figliuol d’uomo”, ed Ezechiele è un profeta; ogni profeta è in modo speciale figliuol d’uomo; ed anche Gesù è un profeta, anzi il Profeta per eccellenza (il Messia, quello annunciato da Mosè); in Isaia 52,13-15 il Servo di Jhwh (il Messia) è chiamato “figliuol d’uomo”. Dunque, Gesù non è un figliuol d’uomo qualsiasi ma dell’Uomo, di Adamo. Questo Profeta, a differenza degli altri che lo hanno preceduto, è il secondo Adamo, l’Ultimo Adamo; è, dunque, l’Uomo: quella essenza che fu del primo Adamo (ovviamente soltanto quella e non in unità con l’essenza divina come vorrebbero i trinitari), è l’immagine di Dio (1 Cor. 11,7; 2 Cor. 4,4). Questa “natura” corrisponde all’uomo di Nazareth nato da Maria per la “legge” dello Spirito (e scelto, adottato, Messia), così come “nacque” Adamo, creato da Dio, tramite il suo “vento”, a sua immagine, a immagine del Creatore. Tutte le altre accezioni dell’appellativo, che troviamo nei Vangeli, pur aggiungendo quei significati particolari che scaturiscono dal contesto, implicano in ogni caso il concetto proprio dell’Ultimo Adamo (dell’Ultimo Uomo) e mai lo negano, che è appunto Uomo per eccellenza, l’unico “uomo”, per adesso. Dunque, in sintesi, Figliuol dell’Uomo non implica la divinità di Cristo, non vuol dire che Cristo è Dio; al contrario, vuol dire che è uomo, soltanto uomo; vuol dire che Gesù è sì la copia di Adamo, ma è anche l’antítypos; al di là dell’apparente contraddizione in termini, è l’unico vero discendente di Adamo che precede il týpos, che è Adamo stesso, perché l’Immagine di Dio (propria dell’Adamo edenico) sul piano logico precede tutti e tutto (Egli è avanti ogni cosa: Col. 1,17); cosicché l’Ultimo Adamo é l’unico Uomo, poiché il primo è decaduto; essendo l’unico per adesso, è anche il primo, Colui che ha preceduto tutti nella vita eterna propria dei corpi-spirituali.
Nel Dizionario biblico già citato, Giorgio Tourn, redattore della voce “Gesù”, a proposito dell’appellativo “Figlioul dell’Uomo”, così conclude: «La gloria del Cristo salvatore è espressa nella letteratura apostolica con altri termini, soprattutto quello di Signore. Ma vi è un termine che per il suo contenuto è vicino, e in sostanza identico a quello del Figlio dell’Uomo: quello di “secondo Adamo”, con il quale l’apostolo Paolo lo designa come l’”uomo nuovo” (Rom. 5,12-21) e il capostipite degli uomini da lui fatti nuovi (1Cor. 15,22,45)»16. Ora, questo Secondo Adamo, divenuto corpo spirituale immortale per la sua vita esemplare e perfetta, ed essendo il primo degli immortali, è il Signore alla destra di Dio, secondo l’espressione metaforica che troviamo nel Nuovo Testamento. “Signore” è la natura del Cristo risorto, di colui che avendo ereditato l’immagine divina secondo il paradigma di Adamo edenico, seppe conservarla fino al conseguimento dell’immortalità e per sempre.
Matteo Manzella

NOTE

1. Sull’uso del termine “signore” nel Nuovo Testamento si veda la rispettiva “voce” nel Dizionario biblico, a cura di Giovanni Miegge e Altri, Feltrinelli editore, Milano 1968.

2. Cfr. MATTEO MANZELLA, L’Ultimo Adamo, Roma 2004.

3. Secondo la Sacra Scrittura solo Dio è immortale: 1 Timoteo 1,17. I risorti, nell’ultimo giorno del mondo attuale, o nel primo del mondo nuovo, diverranno imperituri, altrimenti detti impropriamente immortali. Propriamente immortale è Colui che esiste da sempre, che non è nato né mai morrà; Colui che non ha né inizio né fine. Gli imperituri sono coloro che non morranno mai, ma che hanno avuto inizio ad un dato momento, e ricevono la vita eterna per dono di Dio.

4. La Genesi afferma: «Dio creò l’uomo a sua immagine: lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina» (1,27). L’immagine di una cosa non è la cosa di cui è immagine. L’immagine di Dio è l’Uomo, non è Dio.
5. Nel Dizionario della lingua italiana di MAURIZIO DARDANO, a proposito della “metafora” leggiamo: «Figura retorica che consiste nell’usare una parola concreta per indicare un concetto astratto, senza ricorrere ad alcun elemento che introduca formalmente la comparazione... Uso di un vocabolo in luogo di un altro che è assimilato al primo, dopo che gli elementi che introducono la comparazione sono stati soppressi...». Per una trattazione più ampia si veda: Dizionario di linguistica, diretto di GIAN LUIGI BECCARIA, Giulio Einaudi editore Torino, 1994. Riguardo alla creazione dell’Uomo secondo il racconto della Genesi, osserviamo che la metafora che ci presenta Dio che impasta il fango con le proprie mani, quella che afferma che l’Uomo fu creato a immagine di Dio, o di Dio che passeggia per il Giardino, e altre ancora, danno una possibilità non facile per spiegarle in termini letterali e reali. I tentativi messi in atto dai vari commentatori non hanno portato ad una spiegazione convincente, anche perché nella maggior parte dei casi sono incorsi nell’espediente “conservatore” di ripetere le stesse parole e gli stessi concetti letterali delle metafore, vale a dire di non spiegarle con termini propri e reali, sono rimasti nella metafora. Noi diciamo semplicemente che il racconto della Genesi, preso alla lettera, senza uscire dalla metafora, non può essere creduto; non ha nulla di storico, non corrisponde alla verità dei fatti, neppure partendo dai presupposti della fede ebraico-cristiana. Bisognerebbe uscire dalla metafora una volta per tutte. L’unico modo di uscirne veramente è quello di ammettere una teoria evoluzionistica adattata (se possibile) alla fede cristiana. Si veda in proposito: MATTEO MANZELLA, L’Ultimo Adamo, op. cit. Cap. VIII.

6. KARL BARTH, L’Epistola ai Romani, a cura di Giovanni Miegge, Feltrinelli editore, Milano 1962

6 bis. Cfr. MATTEO MANZELLA, L’Ultimo Adamo, op. cit., soprattutto il § 57.

7. Cfr. MATTEO MANZELLA, L’Ultimo Adamo, op. citata, Introduzione.
Da alcuni testi dei vangeli si deduce che Cristo avrebbe pronunciato concetti che negano la possibilità di un cambiamento del comportamento umano, perché insito nella “natura” umana; il comportamento sarebbe determinato dall’essenza, e dunque immutabile. Testi: Matteo 12,34-35; 7,17-20; Romani 7,24. L’affermazione di Gesù, però, vuole dimostrare che soltanto la grazia di Dio, unita alla volontà dell’uomo (Giov. 3,14-18; 2 Timoteo 1,9; 1 Corinti 15,57), può mutare il comportamento umano sin dentro alla propria natura. Testi: Matteo 18,3; Giov. 3,3-6; 6,27; Romani 12,2; Efesi 4,22-24. Per tal motivo la salvezza portata da Cristo include anche la salvezza dal peccato, cioè dal pericolo di commetterlo, secondo la preghiera che dice «liberaci dal male [cioè dal pericolo o dalla tentazione di commetterlo]» (Matt. 6,13).

8. Cfr. MATTEO MANZELLA, L’Ultimo Adamo, op. cit., § 59.

9. Il brano di Filippesi 2,5-11 è stato interpretato comunemente come una rinuncia di Cristo alla divinità, nel senso che avrebbe lasciato il suo posto divino (anche la “natura”?) per farsi uomo, e dunque era Dio. La risposta a questa interpretazione costituisce l’intero capitolo secondo del mio già citato L’Ultimo Adamo.
MICHAEL GRANT, in San Paolo (Bompiani, Milano 1997), dice che è possibile dare un’altra traduzione (del brano di Filippesi): «”non considerò lo stato di eguaglianza con Dio come una preda”, un discorso che dà un’impressione certamente diversa. Ma a parte queste affermazioni controverse, la più decisa definizione di Paolo [che Paolo dà di Cristo, è quella con la quale] sostiene che “Cristo è l’immagine stessa di Dio” [2 Cor. 4,4]» (San Paolo, III,1, pag. 57-58).
La parola “preda” indica letteralmente un bene o un insieme di beni conseguiti con la forza; implica che si aspira illecitamente a qualcosa o che già si è conseguito illecitamente qualcosa che non deve o non può appartenerci per diritto o per natura, e che di conseguenza si agisce con un atto di forza per impossessarsene o per conservarla se la si è già conseguita; nel nostro caso significa che l’ipotetico tentativo da parte di Cristo di impossessarsi (?) della natura divina (dell’eguaglianza con Dio) comporterebbe ch’egli non la possedeva; ma il contesto indica che Cristo non pretendeva di doverla possedere, che non tentò di entrarne in possesso e che comunque non la possiede. Gesù essendo immagine di Dio (il secondo Adamo, il Messia per eccellenza, il Re) poteva rinunciare alla regalità che questa “natura” (umana) comportava, senza pretendere di averla e di conservarla a tutti i costi, anche a scapito della sua missione di Salvatore. Cristo non è un predatore, né di fatto né in potenza; anzi è pieno di umiltà; e questo è l’esempio che Paolo addita ai suoi lettori: da Messia (cioè da Re) a povero e servo (a uomo comune), non da Dio a uomo. Di conseguenza Dio ha elevato Gesù al rango di Signore per premiare la sua umiltà. Se Cristo avesse rinunciato alla sua divinità e non soltanto alla sua “regalità di fatto” come è avvenuto in realtà (il mio regno non è di questo mondo), il suo comportamento sarebbe stato di falsa modestia: Dio non può rinunciare ad essere Dio, mentre l’uomo Gesù poteva rinunciare alla regalità; e ammesso che avrebbe potuto rinunciare alla divinità momentaneamente (per riprenderla poi), la consapevolezza che comunque (in modo infallibile) avrebbe ripreso il suo posto divino, avrebbe fatto di lui un uomo molto superiore agli altri uomini, e perciò capacissimo ad affrontare e superare tutte le difficoltà, anche le più terribili e dolorose; un esempio impossibile da seguire da parte degli altri uomini privi di forza morale perché, ovviamente, non hanno la consapevolezza di essere Dio (dato che non lo sono) e quindi di essere eterni per natura, ciò che darebbe loro la stessa forza morale del Messia se Cristo Gesù fosse stato e fosse Dio.
Altra interpretazione (sempre sulla base della traduzione alternativa indicata da Grant): Non considerò lo stato di eguaglianza con Dio come una preda perché quello stato era (ed è) la sua natura. Ma in tal caso Paolo avrebbe detto una ovvietà: Poiché Cristo è Dio, Gesù non considerò la natura divina una preda (ma perché avrebbe dovuto considerarla una preda?). Per di più quella natura diventa natura umana, si fa uomo. Se il Salvatore avesse considerato la sua natura divina una preda, non si sarebbe fatto uomo? Ma Dio può considerare se stesso come colui che si è impossessato (o che potrebbe impossessarsi) con la forza della “natura” divina? Comunque sia, si tratterebbe di Dio che diviene qualcos’altro. Dio può divenire? Il divenire non è peculiare alla natura delle creature, la quale è contraria a quella divina? E divenendo rimane la stessa persona che era prima? Se rimane la stessa persona che era prima non è vero che è divenuto qualcos’altro, non è divenuto affatto! Ecc.

10. Si veda questo argomento in MATTEO MANZELLA, L’Ultimo Adamo, op. cit., Cap. Secondo.

11. A rafforzare la teologia di «Cristo nella “natura” dell’edenico Adamo», gli evangeli sinottici presentano il concetto nella forma di una triplice tentazione che ricalca quella a cui fu sottoposto il primo Adamo e per la quale peccò. Prima tentazione: a) La Donna [e con essa l’Uomo] osservò che il frutto dell’albero [proibito] era buono per nutrirsi; b) Il tentatore disse a Gesù: ordina che queste pietre diventino pane. Seconda tentazione: a) La donna osservò che il frutto dell’albero era bello da vedere; b) Il tentatore disse a Gesù: adorami ed io ti darò tutti i regni del mondo e la loro gloria. Terza tentazione: a) La donna osservò che il frutto dell’albero era desiderabile per acquistare conoscenza [e primeggiare; ovvero per essere come Dio, cioè “uguale” a lui]; b) Il tentatore disse a Gesù: se tu sei il Messia, mostra che sei protetto dagli angeli di Dio gettandoti giù dal pinnacolo del tempio.
Testi: Genesi 3,4-6; Matteo 4,1-11; Marco 1,12-13; Luca 4,1-13.

12. Nell’op. citata.

13. Nella Bibbia le espressioni o i termini “Figlio di Dio” e “Messia [Cristo]”, sono identici nel significato. Nell’antico Israele Figlio di Dio erano i profeti, i giudici, i Re, gli “Unti” in genere. E quindi anche il Messia atteso, quello annunciato da Mosè e dai profeti, è Figlio di Dio. Gesù è l’Unto di Dio (Luca 4,18; Atti 4,26-27; 10,38). Ciò non implica che Cristo sia di natura divina. Il fatto è talmente ovvio e noto a tutti, attraverso numerosi passi biblici, che non sarebbe il caso neppure di ribadire questa affermazione. Tuttavia aggiungiamo qui un brano di uno studioso di questi argomenti, del Prof. GIULIO BUSI, che tra i suoi impegni culturali ha quello di insegnante all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Nella sua opera Simboli del pensiero ebraico (Einaudi, Torino 1999) si riferisce al seguente brano del Vangelo di Luca: “Lo Spirito del Signore è sopra di me [sul profeta Isaia]; perciò mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi ha mandato ad annunziare la liberazione ai prigionieri, e a proclamare l’anno accettevole del Signore [di Jhwh]”; Gesù, che leggeva questo brano nella sinagoga di Nazaret, aggiunse: “Oggi si è adempiuta questa scrittura...”. Ed ecco il commento del Prof. Busi: «Il carattere dell’unzione di Gesù non è mai espresso esplicitamente nei Vangeli, sebbene se ne possa trovare un’allusione nell’episodio della lettura sinagogale di Nazaret... L’unzione che Gesù pare qui attribuirsi è dunque quella spirituale del profeta...» (p. 189-190). Cfr. la voce “Messia” in Dizionario biblico, op. citata. Si veda inoltre un intero capitolo (il Primo) dedicato a questo argomento in: MATTEO MANZELLA, L’Ultimo Adamo, op. citata.

14. ARISTOTELE afferma: 1) «L’essenza dovrà appartenere, primariamente e assolutamente, alla sostanza [all’individuo]... e l’essenza si dice essere, appunto, la sostanza di ogni singola cosa». 2) «Conoscere la singola cosa significa precisamente conoscere l’essenza, così che... è necessario che l’essenza e la cosa singola [che è quell’essenza] costituiscano una unità». 3) «Se la sostanza è una unità [come è effettivamente], non potrà essere costituita da sostanze presenti in essa», perché dovrebbe avere in essa più essenze. Cfr. Metafisica, VII 4, 1030 a 25-30; VII 6, 1031 a 15; VII 6, 1031 b 20. Cosicché l’individuo-persona Gesù Cristo non può essere costituito da due essenze in unità, perché l’unità è una, non è due; due essenze costituirebbero due sostanze, cioè due individui; non esistono (meglio: non possono esistere) individui o persone la cui essenza sia l’unità di due o più essenze, perché sul piano pratico vorrebbe dire che potremmo imbatterci (sia pur come possibilità) in una “giraffa-leone”; e sul piano teorico, considerando che l’essenza è semplice, sarebbe come dire che ci troviamo di fronte a un composto (non ad una somma) di due semplici, col risultato che avremmo un composto di semplici: un bel pasticcio. L’essenza risponde alla domanda che cosa?. Ma per il nostro argomento esigiamo una risposta che indichi la sostanza del soggetto di cui stiamo parlando e non semplicemente una qualità o un carattere... Esigiamo una risposta di valore universale, che indichi ciò che è necessario per appartenere alla specie propria del soggetto di cui stiamo parlando. Insomma ci riferiamo all’essenza necessaria, quella che indica l’individuo in modo inequivocabile. Ora ci poniamo la seguente domanda: “Che cos’è Gesù Cristo?”. Che risposta possiamo dare? Possiamo dire: “E′ un uomo”. In questo caso il discorso è concluso. Ma se diciamo “E′ un uomo-Dio (oppure un Dio-uomo) rimaniamo sconcertati, almeno di primo acchito. Infatti: “uomo” e “Dio” indicano due essenze diverse, che si escludono a vicenda, e si escludono proprio perché sono diverse (se non fossero diverse sarebbero una essenza e non due); perciò, se è uomo non è Dio, se è Dio non è uomo; e questo si accorda con l’affermazione di Aristotele quando dice che non ci può essere l’unità di due essenze. Insomma un bel rompicapo (un vero disagio) di cui non c’è traccia nella Sacra Scrittura, neppure come semplice affermazione, sia pur implicita.
Questo disagio si riflette sull’intera teologia biblica, che finisce col perdere quella semplicità propria della predicazione di Gesù Cristo e degli Apostoli; ed è sentito anche da molti teologi. Alcuni anni fa un teologo inglese, John A. T. Robinson, scrisse: «C’è chi non si senta un poco depresso quando viene la Domenica della Trinità? Per lo meno, credo che tale sia lo stato di coloro che devono predicare in questa solennità, e so che è lo stato di molti loro ascoltatori. “...Il Padre incomprensibile, il Figlio incomprensibile, lo Spirito Santo incomprensibile...” dice il Simbolo atanasiano. Un uomo comune non può pensare: incomprensibile tutta la faccenda. Per quale ragione al mondo i cristiani si devono trovare impigliati con questo abracadabra proprio nel cuore della loro fede?» (JOHN A. T. ROBINSON, But that I can’t believe! London 1967 [traduz. Italiana, Questo non posso crederlo! Di Ugo Tolomei e Tania Gargiulo, Vallecchi editore, Firenze 1970].
C’è chi, nell’ambito del Cristianesimo, ha voluto uscire fuori da questa situazione. Per esempio i Testimoni di Geova, i quali non credono alla Trinità. Non credono alla Trinità e lo dicono e lo scrivono apertamente, ma hanno voluto salvare la cosiddetta preesistenza di Gesù Cristo (o del Figlio di Dio?). Dicono che prima di nascere in Palestina esisteva in Cielo, in quanto sarebbe il primo essere creato da Dio, il suo Unigenito Figlio che ha collaborato alla creazione del mondo con il Padre. Ma così hanno creato un altro problema: un essere che esiste prima del mondo e che collabora alla creazione, di che natura sarebbe? Se esiste prima del mondo, ed ha collaborato alla creazione del mondo, non può che essere un Dio. Ci sarebbero due dii (o dèi)? Il Figlio sarebbe un Dio minore? Ma di questo ne scriveremo in un’altra occasione.

15. GIORGIO TOURN, voce “Gesù” in: Dizionario biblico a cura di Giovanni Miegge, op. citata, pag. 271

16. GIORGIO TOURN, ibidem, pag. 172.